La linea qualitativa di AZ appare nel corso degli anni sempre più vicina ad un elettrocardiogramma; non appena Anthony Cruz vi pompa nuova energia grazie a belle cose come il recente A.W.O.L., il secondo dopo inevitabilmente incappa in una sorta di sincope e delude con prodotti discutibili come The Format. Ma per fortuna il cuore è in sè sano, per cui anche dopo la canonica défaillance si ha sempre la certezza che qualcosa di buono avverrà. Puntualmente, questo evento ha avuto luogo nel 2007, a cavallo tra le due sòle The Format e Undeniable, con questo eccellente Memphis Sessions. Il disco s'inserisce con bruta violenza nel filone del remixtape/blend tematico à la Grey Album o Q-Unit [no homo], senonché qui l'idea finalmente viene superata dalla sostanza; vale a dire, cioè, che il plauso è meritato non perchè qualcuno abbia avuto un'ideona original-affascinant-curiosa che fa rizzare l'uccello ai recensori di Pitchfork ma semplicemente perchè il risultato è ottimo a prescindere -cosa che non si può dire per i predecessori del genere (fatemelo dire: il Grey Album è una stronzatona col botto). E la ragione che sta alla radice di questo successo è secondo me semplice: anzichè mescolare cose che tra loro non c'entrano assolutamente nulla per il gusto di sentirsi eclettici si è scelto uno dei pilastri che stanno alla base di tanto hip hop, alias la musica di Al Green. Dunque una decisione non coraggiosa ma senz'altro rispettosa dei fan del genere, i quali mi auguro si preoccupino più di ascoltare buona musica che non di viaggiare dietro l'ego o la megalomania del produttore emergente XYZ a prescindere dai risultati. Bene: ammesso e non concesso che sia così, andiamo a esaminare più in profondità Memphis Sessions. Cos'è stato fatto? Sono state prese una serie di a cappella di AZ dai suoi due precedenti album e sono state appoggiate sopra a loop tratti da vari dischi di Al Green, senza aggiungere fondamentalmente nulla. Proprio così: se una batteria c'è è solo perchè era presente nell'originale... pigrizia? Eh no, non direi. Anzi, nella sua semplicità trovo che questo lavoro di taglia&incolla sia stato ben complesso perchè in fin dei conti si è lavorato molto sulla ricerca d'archivio, per così dire, sfruttando le melodie originali cercando di alterarle quanto meno possibile. E per quanto vi siano un paio di episodi che inizialmente sanno di già sentito (il remix di The Format è praticamente 260 di Ghostface, persino il dialogo all'inizio è il medesimo; Love & Happiness e The Letter ormai le conoscono pure i sassi), persino in questi casi s'è inserito un bridge o una fetta di campione che riesce a rivitalizzarli e a dar loro un tocco di freschezza. E poi ciò che stupisce è quanto sembri naturale la presenza di AZ su canzoni vecchie di quasi quarant'anni; la fusione tra rappata e "beat" -all'infuori di pochissimi casi dove il Nostro va fuori battuta di qualche millisecondo- è infatti perfetta e spesso gestita talmente bene da risultare ancor più d'effetto che nell'originale. E parlando di originali, un altra lancia ha da essere spezzata in favore di Memphis Sessions. Mi riferisco al fatto che il peccato originale di AZ è quello di saper scegliere un beat valido su tre ciofeche, per cui spesso si ha di fronte il suo spiccato talento e lo si vede macellato da una base semplicemente atroce; se pensate a The Format o Sosa vi renderete conto di quanto un piccolo accorgimento -cioè l'avere un buon orecchio- sarebbe bastato a rendere quei dischi dieci volte migliori di quanto non siano effettivamente. Ecco, grazie a Memphis Sessions molti dei crimini commessi in passato vengono cancellati onde darci la possibilità di godersi le acrobazie liriche del Nostro su musica finalmente degna di questo nome. E come avevo già accennato, persino canzoni che già partivano bene o benissimo (The Format, The Come Up, New York) non perdono di fronte agli originali ed in alcuni casi -New York su tutte, assolutamente eccezionale- riescono persino a superarli. Bene: a questo punto persino un ritardato dovrebbe aver capito che non solo ho apprezzato quest'album, ma anche che è oggettivamente uno degli esperimenti del genere meglio riusciti (se non il migliore) nonchè un pezzo imprescindibile da aggiungere nella collezione di chiunque apprezzi la buona musica. A maggior ragione se si vorrebbe tanto essere fan di AZ ma proprio non ci si riesce, appunto a causa delle sue disgraziate scelte in materia di beat -e se volete capire cosa intendo, ascoltatevi il secondo CD. Sfido chiunque a non prendere a testate lo stereo sentendo quella porcheria di The Love Of Money.
[Prima di qualsiasi commento su Wildchild, solo un paio di cose su Germania-Turchia per i miei connazionali che passano per il blog: Bratwurst schlägt Döner, und darüber kann man sich freuen solange man will, aber... die erste Halbzeit war für mich und meine Mutter ernst peinlich (Gott sei dank sind wir daran gewöhnt, denn nach Italien-Holland kann uns überhaupt nichts mehr erstaunen). Die Türkei hat Deutschland beschämt, und trotz des positiven Ergebnis gehören Lehmann und Ballack irgendwo anders (z.B. zur Zwangsarbeit in einem Bergwerk), denn mit solchen miserabelen Leistungen können wir gegen Rußland (denn Rußland wird gegen Spanien gewinnen, darüber bin ich mir sicher) nichts anfangen. Und jetzt zurück zum Thema...]
In inglese "jack of all trades" connota positivamente colui che è ben versato in qualsiasi arte ed è dunque capace di adattarsi a tutte le situazioni. Tuttavia, esiste una variante del detto che recita "jack of all trades, master of none", sulle cui implicazioni negative mi pare superfluo aggiungere altro. Wildchild, già membro dei Lootpack nonché autore di un bel esordio solista nel 2003 col suo Secondary Protocol, vuole evidentemente collocarsi nella prima parte del suddetto modo di dire, ma questa sua ambizione forse non tiene conto di un paio di cose... Tuttavia, prima di giungere a conclusioni andrei per passi, sottolineando una curiosità: benché il suono e le collaborazioni di Jack Of All Trades siano di marcato stampo stonesthrowiano, l'album è pubblicato dalla francese Nocturne/On The Corner. Chissenefrega, per carità, è solo che ciò in un primo momento mi ha sorpreso; ma tutto sommato si vede che l'essenza è sempre quella, difatti tra i produttori troviamo principalmente Madlib e Oh No, seguiti a ruota da Georgia Anne Muldrow (ovviamente ospitata anche come cantante) e poi da qualche outsider -come ad esempio Black Milk e Kev Brown. Un sogno per ogni backpacker che si rispetti? Decisamente, e aspettate di sentire gli ospiti: Prince Po, M.E.D. e Oh No, Frank 'N' Dank, i Souls Of Mischief e poi, tutti su una traccia, Special Ed, Percee P, Masta Ace e MC Lyte. Beh, capirete che quando ho letto questi nomi non potevo crederci, ed il fatto di ricevere un disco bonus pensato per il mercato europeo mi ha fatto correre ad ordinare Jack Of All Trades a scatola chiusa -mi pareva lecito aspettarsi una sorta Secondary Protocol all'ennesima potenza, per cui perchè no? E invece alla lunga sono rimasto deluso. Innanzitutto perchè il Nostro ha portato agli estremi il suo stile che, per chi non lo sapesse, si può riassumere in una rapidità di dizione ed un accumulo di rime molto particolare e, soprattutto, piacevole da ascoltarsi. Se per certi versi può ricordare l'immenso Tash, Wildchild tiene comunque meno conto del beat ed è solito viaggiarci restando sulla battuta ma senza usare troppa enfasi; stargli dietro al primo ascolto è molto difficile ma alla fine, dopo ripetuti ascolti, si spegne lo stereo soddisfatti dell'esperienza. Almeno fino ad ora, perchè in Jack Of All Trades si ha l'impressione di ascoltare ad un vero e proprio parlato che raramente si apre ad elementi "musicali" come pause ad effetto, melodie o variazioni nel tono di voce. Al che poco importa che vi siano letteralmente quintalate di rime e (un po' meno) di contenuti da sminuzzare ed esaminare ascolto dopo ascolto: ci si annoia, non ce n'è! Se dovessi definire in maniera sprezzante quel che ho sentito in meno di un'ora, la parola più vicina alle sensazioni avute è senz'altro "logorrea" -difatti, giunti che si è alla sesta o alla settima canzone quasi vien da dire "e statte zitto du' minuti diobono", il che, capirete, per un disco rap non è proprio l'ideale. Ed anche le produzioni tradiscono secondo me le aspettative. Certo, non esiste più quell'effetto sorpresa che si poteva avere cinque anni fa ascoltando la roba di Madlib & soci, ma resta il fatto che persino sul disco di Guilty Simpson si riuscivano a trovare delle gran belle cose. Ecco, il punto è che qui da un lato non ci sono scivoloni che sconfinino nell'incircolabile, ma d'altro canto non v'è nulla di straordinario. Tutta la produzione s'attesta tra il molto buono ed il meno buono, affidando quindi l'effetto WHOA puramente alle liriche. E considerando quanto da me scritto nel paragrafo precedente, a questo punto non dovrebbe stupire che i momenti migliori li si ha quando Wildchild chiama a collaborare qualcuno: vedi ad esempio le belle Puppetmasters, The League (pezzo migliore... ma va'?) e Day 'N' The Funk. Aggiungo che comunque, se presi a piccole dosi, alcuni episodi solisti sono comunque godibili (penso a Love At 1st Mic e l'ottima Rest 'N' Beats); peccato, davvero peccato, che se inseriti nel contesto generale rischino di passare inosservati o comunque privati dell'attenzione che meriterebbero. Giunto che sono al momento delle conclusioni, la faccenda si fa ardua. I problemi di Jack Of All Trades li ho evidenziati e da un certo punto di vista d'insieme sono pure piuttosto gravi; d'altro canto, non c'è davvero molto di oggettivamente scandaloso (oddio, Da Herc Dance ci si avvicina ma glissiamo) ed anzi ci si può imbattere in pezzi in sè e per sè più che degni, dispersi purtroppo in un mare di materiale privo di mordente e dunque di longevità. Mah, tre zainetti e mezzo e tanti saluti, con il consiglio di recuperare al volo Secondary Protocol, a mio modo di vedere le cose meno "maturo" ma complessivamente più riuscito o, quantomeno, godibile.
P.S. Il secondo CD, International Intellect, è egregio nonché decisamente superiore alla media di questo genere di "offerte". Tuttavia, valgono le critiche mosse all'album principale.
Mentre in radio passano la mitica Hot In Here di quella chiavica di Nelly, controbatto nella mia intimità proseguendo la minirassegna del "chi cazzo sono" con uno dei pezzi da 90 del genere: gli All City. BOOM. I più avvezzi alle memorabilie dei bei tempi che furono li ricorderanno senz'altro per il singolone The Actual, prodotto da Primo e ancor'oggi relativamente famoso, e per un'affiliazione agli Onyx manifestatasi prima tramite un paio di apparizioni sui dischi di questi ultimi (Getto Mentalitee e Overshine), e poi con la loro produzione esecutiva di questo Metropolis Gold. Una volti privati però di questi post-it biografici, ad oggi nessuno si ricorderà del loro unico album in quanto anch'essi riuscirono nell'arduo tentativo di ricevere il disco d'alluminio (principalmente grazie alle accorte strategie di marketing della MCA); questo è un peccato in termini relativi, in quanto di certo non abbiamo tra le mani un secondo Illmatic, ma comunque un po' d'attenzione in più non guasterebbe. Un po' perchè loro sono non dico bravi ma senz'altro più che competenti, e poi perchè Metropolis Gold può fregiarsi di alcuni bei pezzi prodotti, in parte, dal sopracitato Premier, da Pete Rock, Rockwilder, EZ Elpee e Fredro Starr (prima di storcere il naso vi ricordo che dietro a molte tracce di All We Got Iz Us c'era lui). Senza voler esaminare al microscopio ogni singola traccia, vorrei elencare i punti a favore di questo esordio: Stay Awake, Priceless, Xtreme, The Actual e Afta Hourz sono tutte canzoni solide. La punta di diamante è senza dubbio The Actual, che da un lato può fregiarsi di una delle più belle produzioni di Premier della seconda metà degli anni '90 e dall'altro vanta un notevole emceeing di stampo genuinamente nuiorchese, ma anche le altre hanno diversi punti a loro favore. Primo fra essi l'atmosfera radicalmente urbana, un concetto di cui spesso s'è abusato (specie negli ultimi anni) associandolo a trend di dubbio gusto o utilizzandolo con faciloneria, ma che nelle sue forme più nobili resta per me determinante nello stabilire la bontà di un pezzo rap: in sostanza, le sopraelencate composizioni sono materiale da walkman che fornisce una colonna sonora quando si cammina e si scrutano i dintorni. Un po' come avveniva nello stupendo video di Respiration, ascoltando Xtreme o Afta Hourz è inevitabile considerare traffico, smog, lo stridio della metropolitana sulle rotaie come manifestazione visiva di ciò che si sta ascoltando e viceversa; in tal senso si potrebbe parlare di musica con un'anima. Va da sè che questo può solamente avvenire in presenza di riconoscibili qualità tecniche, e in questo J. Mega e Greg Valentine non peccano: simili nello stile ma con voci nettamente distinguibili, ambedue favoriscono le classiche metriche serrate (le fonti d'ispirazione sono evidenti: Rakim, Nas ed in minor parte Kool G Rap) ma riescono comunque ad evitare il rap fine a sè stesso; nessuno dei due eccelle particolarmente come scrittura, ma ciò nondimeno riescono a piazzare quà e là frasi e concetti che danno comunque un'idea di coerenza al pezzo e non lo fanno sembrare un'accozzaglia di assonanze piazzate tanto per. Purtroppo, però, al di là del fatto che ci sono naturalmente alcuni pezzi non particolarmente entusiasmanti (comunque non orribili: Metrotheme, Ded Right, Favorite Things, Move On You, Just Live), ciò che davvero sottrae piacere nell'ascolto di Metropolis Gold sono una serie di uscite jiggy mostruosamente rappresentative della nefasta influenza esercitata sull'hip hop da parte dell'ignobile Puff Daddy. Ora, se risparmio dal definire cacata assurda il remix di Hot Joint è solo perchè persino degli insospettabili mi hanno detto che è strepitoso (e quindi sarei portato a pensare ad una questione di meri gusti), ma condanno senza possibilità d'appello robaccia come Live It Up (l'equivalente reppuso della disco fine '70), Get Paid (che si fregia di un patetico campione di vibrafono Fisher Price e di un ritornello di disumana bruttezza), Daydreaming (aborto che si colloca tra il New Jack Swing ed il peggior Stevie Wonder degli anni '80) e l'originale di Hot Joint (cfr. quanto detto per Live It Up). Sapete, non solo penso che -a prescindere dalla qualità intrinseca del genere- questa roba andrebbe lasciata a chi la sa fare, ma sono sempre stato convinto che queste manifestazioni di pochezza passata per "stare al passo coi tempi" non abbia mai avuto alcun tipo di valore. E il tempo mi ha dato ragione: riascoltate oggi sanno così pateticamente di datato che quasi vien da piangere. Insomma, i pezzi da ballare si possono anche fare, ma c'è una bella differenza tra Hypnotize e Gettin' Jiggy Wit It. Comunque sia, peggio per loro. Peggio per loro perchè pur senza eccellere particolarmente potevano essere ricordati meglio producendo un album meglio focalizzato sugli aficionados del genere. Come già detto, non sarebbe mai stato un Illmatic, ma un disco più che dignitoso invece sì -dopotutto, il primo di AZ viene ricordato con piacere pur non essendo un capolavoro, per dirne una. Invece han deciso di rovinare la memoria di ciò che di buono hanno fatto con un'infilata di sconcezze francamente imperdonabile, una concessione ai gusti facili del pubblico che per giunta non ha sortito l'effetto desiderato. Morale: la storia è stata ben più severa di quanto non sia stato io nelle righe precedenti e li ha costretti ad un oblio francamente troppo punitivo; ergo, scaricate il disco, verificate la veridicità delle mie parole e dopo "separate the pros from the cons, the platinum from the bronze, the butter-soft shit from the leather on the Fonz" e gustatevi quanto di buono hanno saputo offrirci Mega e Valentine. E perdonate la mia citazione gratuita.
È raro che io mi trovi a dare un voto basso ad un album di underground nuoirchese di metà anni '90, ma alle volte le eccezioni ci sono e solamente chi non ha vissuto quel periodo potrebbe essere portato a dare una lettura revisionista di questo Cloud 9. Ammesso naturalmente che lo conosca, cosa piuttosto difficile in quanto questo suo secondo album vendette ancor meno del esordio (il che è tutto dire) e per giunta fu privo di un singolo-tormentone come Whutcha Want. Dubito quindi che se ne possa trovare una copia oggi, se non a suon di mercatini dell'usato e via dicendo. Ma fatto sta: nel '96, l'emcee dalla voce più naturalmente roca e profonda del Bronx -tipo Sandro Ciotti, per capirci- decise di dare alle stampe il sequel di Nine Livez, disco tutto sommato discreto e decisamente adatto per i tempi. Come in quest'ultimo, difatti, non troveremo traccia di ritornelli cantati o beat leggeri quanto piuttosto di boombap scarno ed essenziale, impregnato di grimeiness fino all'osso e di titoli scritti in mezza fonetica: in una parola, hardcore. E fin qui tutto bene. Ma i primi dubbi possono sorgere già con l'intro, dove Nine e King Just scambiano due strofe passabili su... un campione di Biscuit dei Portishead. Già, proprio così: Biscuit, che a sua volta si basava su un campione (I'll Never Fall In Love Again), viene campionata senza alcuna variazione -figurarsi che nemmeno prendono l'intero loop iniziale, ma solo il primo giro. Ecco, diciamo che a casa mia una tale pigrizia non è ben vista, ed anzi pare quasi un'antesignana di quei internet mc's che a fine anni '90 si mettevano a cantare sopra singoli loop rabbati a destra e a manca col fruityloops; inutile dire che, in quel caso, perlomeno non correvamo il rischio di sentirli incisi su disco. Ma per fortuna Every Man 4 Himself fa risalire la china: il beat gode di gran belle batterie che pestano come dio comanda, una linea di basso bella piena e, soprattutto, di un campione di taglio orchestrale splendidamente cupo e nient'affatto barocco o esagerato. Su questo tappeto il nostro non esplora nuovi territori in quanto a contenuti, ma riesce a suonare decisamente convincente nel proclamare ad alta voce quanto fa brutto e, per quanto tecnicamente le rime siano buone e poco più, l'effetto complessivo è decisamente appagante. Promosso, insomma. Sulla stessa qualità s'attesta anche We Play 4 Keeps, che ai nostalgici non potrà non piacere per via di quel breve campione di sax riverberato che fa molto anni '90. La base è difatti tanto ben fatta quanto manierista, ma a meno che uno non si aspetti per forza faville ogni qual volta ascolta una canzone, l'esito lascia un buon sapore in bocca e quasi si comincia a credere di aver fatto un buon acquisto. Ma come si comincia a nutrire questo sospetto, si parte con gli scivoloni. Innanzitutto si fa avanti il fatto oggettivo che, voce a parte, Nine non sia tutto 'sto granchè di MC. Certo, ha una tecnica dignitosa ma, tanto per dirne una, le sue rime scadono spesso e volentieri nella prevedibilità più totale; per di più, non si può sicuramente vedere in lui una fervida immaginazione nè per quel che riguarda l'uso delle metafore, nè per ciò che concerne l'abilità descrittiva. Il suo approccio potrebbe quindi essere definito come diretto, ma francamente penso che dietro ci sia semplicemente una capacità molto limitata e nulla più se non, volendo, pigrizia. Questo è un difetto che si fa particolarmente evidente nel caso di produzioni che per vari motivi sono fiacche: vedi ad esempio Tha Product e Uncivilized, ambedue troppo orchestraleggianti e monotone, oppure No Part A Me, Richman Poorman e Jon Doe: mediocri a dir tanto, utilizzabili al massimo per uno skit. Talvolta, poi, anche se il beat regge egregiamente (ed è il caso di Lyin' King) può capitare di sentire materiale di scarto come "I heard your album and I don't believe a word of it/ I think you're soft like that trick Mother Hubbard fillin' the cupboard with gang goods like mother Goose, who lived in a shoe/ Next door to your weak-ass crew". Per giunta, nella stessa canzone assume un tono da moralista illuminato in palese contrasto coi contenuti delle precedenti canzoni, sicché per quanto i rapper non siano generalmente dei campioni di coerenza verrebbe da chiedersi se è la stessa persona ad aver scritto questa canzone e, per dire, Make Or Take. Per converso, se il beat e l'eventuale ospite sono di qualità, non si può nascondere il fatto che Nine suoni rinvigorito. Ad esempio, la sopracitata Make Or Take non solo è il pezzo migliore di Cloud 9, ma è a mio avviso uno dei capolavori degli anni '90. Prima di tutto grazie al beat, dove un campione di Ronnie Laws viene tagliato divinamente e riesce da solo a conferire una melodia al contempo minacciosa e soave; ma poi è Nine che suona giustamente incazzato e, d'altro canto, Smoothe Da Hustler aggiunge ulteriore energia durante il ritornello al punto che non può che dispiacere on sentirlo per una strofa intera. Meno belle ma comunque d'effetto sono la ruvida Warriors (miracolosamente, Bounty Killer calza a pennello sul beat e sull'atmosfera in generale) e l'autobiografica 4 Chicken Wings And Rice, unico pezzo lento e tutto sommato ben scritto pur nella sua prosaicità. Ma queste parentesi non bastano a risollevare un album che, se contestualizzato, di certo non può reggere il confronto coi mostri sacri dell'epoca. Vale anche in questo caso il solito "eh, ma è meglio della merda che esce oggi", senz'altro; ma questo la dice lunga più su come siamo messi oggi che su Nine, il quale pur avendo un discreto orecchio musicale ed una tecnica accettabile è fin troppo banale nella sua scrittura. Questo difetto lo può celare finchè vuole dietro a belle basi e ad una voce senz'altro particolarissima (che peraltro o si ama o si odia), ma ascolto dopo ascolto alla fine salterà fuori. E purtroppo, possedendo quest'album dal lontano '96, non posso dargli più di due zainetti e mezzo. D'altro canto non posso che consigliarne comunque l'ascolto, vuoi anche solo per la splendida Make Or Take che, ripeto, merita di stare nell'Olimpo del rap nuiorchese (ma anche statunitense) degli anni '90.
E' ufficiale: fa troppo caldo. Non riesco a concentrarmi abbastanza per scrivere qualcosa di sensato, perciò fino a lunedì ciccia e niente dischi.
No, ma sul serio, oggi ho passato mezz'ora sul 29 (infamous linea tramviaria milanese che usa ancora le vetture comprate da Crapa de provola nel '28) e dopo due fermate avevo i coglioni a bagnomaria
Come ho già avuto modo di scrivere, le colonne sonore reppuse non sono ormai altro che una laida operazione commerciale da du' lire buona giusto per censire la quantità di ingenui e di cretini tout court, che le acquistano nella convinzione di ascoltare qualcosa di degno e che, invece, si ritrovano tra le mani una specie di raccolta differenziata tra pezzi di seconda scelta e rimasugli di album. Ma non sempre è stato così. In un'epoca migliore, quando qui era tutta campagna e i treni arrivavano in orario, uscivano almeno una-due raccolte all'anno serie e, saltuariamente, il capolavoro. Bene, qui stiamo parlando di un capolavoro. Leggete gli artisti in scaletta: Dead Prez, Wu-Tang, Sauce Money, M.O.P., Big Pun, Mobb Deep, Organized Konfusion, O.C... quello che oggi verrebbe considerato il sogno di un backpacker, nel '97 è stato pubblicato da una major tra gli applausi di pubblico e critica. Applausi meritatissimi perchè, all'infuori di singole pisciate extratazza, la qualità media è straordinariamente alta. Dubito che qualcuno oramai non la conosca, ma You Ain't A Killer di Big Pun, che qui funse da biglietto da visita della futura star obesa, vede la leggenda portoricana scambiare colpi con un bellissimo beat di Younglord (un cupo loop di piano adagiato su un semplice 4/4 che nella sua semplicità riassume il grimeiness del suono nuiorchese di metà anni '90) che gli consente, già nella prima strofa, di mostrare le sue capacità: "Any last requests before you meet your maker? Sew what you reap a wake up, shakin up a storm like Anita Baker/ I'll take you straight to hell and fill your heart with hate, ncarcerate your fate in Satan's fiery lake, then I lock the gate". Su Capital Punishment si sarebbe poi visto ancora di meglio, ma fatto sta che questo singolo pezzo fece schizzare in alto le aspettative dei fan di tutto il mondo ed è da considerarsi, a ragione, un pezzo di storia. Ma questo non deve far scordare l'ottima accoppiata di Sauce Money e Premier in Against The Grain, traccia decisamente valida per l'allora sodale di Jay-Z (nonché ghostwriter di mezzo mondo) che può solo far crollare gli zuccheri a chi si trovò poi ad ascoltare il deludente Middle Finger U. Stranamente per Premier, che negli anni precedenti aveva toccato livelli di ruvidità estrema con il lavoro svolto per i Group Home e per Jeru, qui il Nostro opta per un campione più spiccatamente soul e, soprattutto, tagliato in maniera più "moderna" -non riesco a spiegarlo bene, ma ad orecchio la differenza tra, che so, Too Perverted e questa è evidente. Ottime interpretazioni giungono anche da Common (assistito da un No I.D. in stato di grazia), dai Cella Dwellas (che infatti ricicleranno Main Aim nel loro album del 2000), dai Brand Nubian (A Child Is Born > il 70% di Foundation) e dai Wu-All Stars, che infatti firmano il primo singolo. Discorso un po' diverso per altre opere, che anzichè entusiasmarmi mi hanno "semplicemente" fatto dire "bel pezzo". Ad esempio, per quanto sentire gli Organized Konfusion sia sempre un piacere, il loro beat autoprodotto è un po' anonimo. Funziona, per carità, e l'headnodding è garantito, ma la loro eccellenza sta altrove. Lo stesso dicasi per Your Life, dove Ogee secondo me poteva lavorare un po' più su un campione che per una traccia di quasi cinque minuti e mezzo diventa facilmente noioso, anche a causa di batterie non esattamente originali; fortunatamente, O.C. è in piena forma e l'ignoto U Nast esce a testa alta dal paragone con l'ospite. Sul pezzo dei Mobb Deep c'è poco da dire (standard dell'epoca, nulla di cui lamentarsi), mentre Ride degli M.O.P. e Los Angeles Times di Xzibit lasciano un po' l'amaro in bocca. D'altronde non si può sempre avere una Stick To Ya Gunz o una Eyes May Shine, no? Au contraire, chi avrei mandato a lavorare in miniera sono il Wu (RZA in particolare, che si è scordato di inserire un qualsiasi campione in Diesel) ed i Cocoa B's, che fanno 'na mezza cover di Public Enemy #1 inappellabilmente incresciosa. Peccato oltretutto che questi pezzi si trovino letteralmente tra i coglioni, sicché uno magari se ne sta lì in bellura ad ascoltarsi i Brand Nubian e subito dopo -BOOM- attacca quella formidabile cacata di Won On Won. Diciamo che è come se durante una trombata passasse un buontempone e t'infilasse un dito nel culo, così, per vedere che faccia fai. Ma metaforiche ditate nel culo a parte, non ho remore a definire Soul In The Hole la miglior colonna sonora in mio possesso -artisti di prima linea, brani ottimi, niente R&B, niente skit del cazzo- potendo muovere al limite una sola critica: non tutti i pezzi sono apparentemente coerenti con il tema della pellicola. Ma 'sticazzi, in fondo si tratta di un documentario ambientato a Brooklyn riguardante un torneo -il Soul In the Hole, appunto- che suppongo non obblighi ad un particolare rigore formale. Oltre che, pragmaticamente, sai che par di palle sorbirsi 70 minuti di disgressioni sul tema del basket? Appunto.
Quando uscì Enta Da Stage, il primo, fondamentale album dei Black Moon, il sottoscritto aveva 12 anni e mai si sarebbe aspettato un futuro come l'attuale presente. Non solo non potevo prevedere che sarei rimasto sotto col rap, ma nemmeno avrei potuto immaginare di trovarmi in un ufficio la mattina del 19 giugno 2008 a cercare di sopravvivere al costante assalto alla baionetta alla mia intelligenza perpetrato dalla radio di turno. Sapete, fin dalla più tenera età non son mai stato un grande fruitore della modulazione di frequenza a causa della ripetitività della programmazione; in più, ad ogni estate che s'avvicinava, cominciavo a sospettare -beata innocenza!- che qualcuno volesse prendermi per il culo passando in serrata ripetizione una ben specifica canzone. E così, tormentone dopo tormentone (All That She Wants, What Is Love, Lemontree...), mi sono sempre più isolato da quello che era "hot" al momento. Un backpacker ante litteram, insomma. La mia maschia resistenza passiva [no homo] prosegue anche in questi giorni di estrema sfrangiatura dei testicoli, e così, mentre i danesi Alphabeat ci regalano la solita cacatiella-allegra-perchè-siamo-in-estate-dobbiamo-divertirci, io controbatto nell'intimità delle mie cuffie con l'ultimo album dei Black Moon. E il cerchio si chiude. Dopo la parziale delusione di Warzone ed una generica assenza dalle scene della Boot Camp Clik tutta, durata -ahimè- circa cinque anni, il 2003 verrà ricordato come l'anno in cui il collettivo di Brooklyn cominciò a recuperare i vecchi fan e ad aggiungerne di nuovi, ingranando una marcia produttiva che si concretizzerà nella pubblicazione di opere collettive così come individuali, in ambo i casi reputate (quale più quale meno) di buon valore. Tuttavia, per quanto possano piacere i dischi di Sean Price, Buckshot e dei Smif 'N' Wessun, non si può ignorare il fatto che dietro a Total Eclipse ci siano principalmente i Beatminerz, cioè coloro che per una buona metà hanno contribuito a decretare il successo della cricca a metà anni '90. Una differenza vuoi anche solo psicologica, può darsi, ma non posso nascondere il fatto che introdurre l'ascolto di un album partendo dal ruvido boombap di Stay Real anzichè dall'ennesimo campione soul pitchato dia tutt'un'altra verve. Il minimalismo degli anni '90 è stato riveduto & aggiornato, ma la "sporcizia" del campione, l'imponente linea di basso sfondawoofer e le batterie secche sono Beatminerz genuini al 100%, e così è solo logico sentire il suadente flow di Buckshot nella prima strofa: "On the block that I'm from, late night is a hustle hour/ Anything gets sold, weed, clothes, plus the powder..." Puro Brooklyn, insomma. Nel tempo, inoltre, il Nostro è riuscito a trovare una via di mezzo tra l'aggressività degli esordi e la (secondo me) eccessiva calma di molti pezzi di Warzone, creando in questo modo una sintesi efficace e personalissima tra Snoop e O.C. Diciamo che è uno dei pochi veterani che anche a dopo dieci anni di onorata carriera è riuscito a perfezionare il suo stile guadagnando punti sia dal punto di vista tecnico (dizione, rime, stile) che da quello contenutistico. Perchè, sì, ammetto che è difficile trovare enormi spunti cervellotici in un album dei Black Moon e di certo non voglio dire che ci troviamo di fronte a Chuck D, ma quà e là si trovano tracce della maturazione di Buck, ad esempio nella rilettura di Ain't The Devil Happy, Confusion (beat a parte non c'entra nulla con l'originale, ma l'attacco alle logiche del mercato discografico è chiaramente proveniente da una persona che parla a ragion veduta). Infine, per quanto 5Ft non sia mai stato il motivo principale della celebrità dei Black Moon, bisogna dire che risentirlo quà e là fa sempre piacere e spesso aiuta a spezzare bene le prestazioni di Buckshot. In quanto ad ospiti ci viene offerta qualche comparsata da parte dei soci della Boot Camp, i quali -e non dovrebbe stupire- regalano prestazioni quantomeno solide e che alle volte riescono ad oscurare i nostri eroi: ne è l'esempio perfetto Sean Price, che oltre ad anticipare il personaggio del "brokest rapper alive" in What Would U Do, tira fuori una strofa da 90 sull'eccellente Looking Down The Barrel che gli varrà un buon 70% di pubblicità per il suo futuro solista d'esordio. E, a proposito di Looking Down The Barrel, una menzione speciale va ai beatmaker che saltuariamente vanno a sostituire i Beatminerz alle macchine. L'ineccepibile MoSS, che di Barrel è l'autore, non fa rimpiangere Walt e compagni grazie ad un beat di una semplicità triviale che fa a pezzi le casse e permette agli MC di giostrarsela come meglio par loro, salvo poi far entrare nel ritornello un campione vocale canticchiato reperito chissà come e chissà dove: "Looking down the barrel... of a twelve-gauge magnum...". Perfetto. Non da meno sono Kleph Dollaz e la sua quasi-melodica How We Do It, Coptic (che produce la rilassata This Goes Out To You, con un gran bel loop misto piano e chitarra acustica) e Tone Capone, che per The Fever riprende un campione oramai piuttosto abusato ma allora relativamente fresco (ricordarmi il nome, mannaggia). Nota a parte merita il contributo di DJ Static, che riprendendo paro paro Ain't The Devil Happy di Jeru & Primo non fa nulla di male ma nemmeno rivoluziona la musica. Ma fermi restando i complimenti ai suddetti, va da sè che il ruolo delle star lo giocano i Beatminerz che, come già detto, aggiornano il loro suono dandogli un viraggio più smaccatamente settantone di buon effetto e, pur perdendo così l'unicità che permetteva di collegare I Gotcha Opin a Wrekonize e Headz Ain't Ready a orecchio, risultano al passo dei tempi quanto basta. Certamente vi sono tracce più riuscite di altre, così come va sottolineata l'assenza di una "punta di diamante" tra le varie produzioni, ma nel complesso direi che proprio non ci si può lamentare. Insomma, per quanto enormemente sottovalutato (in questo i Black Moon mi ricordano gli ultimi Beatnuts), Total Eclipse è un must-have per chiunque desideri ascoltare di tanto in tanto dell'ottimo rap fatto per il gusto di fare rap. Non ci si troverà nient'altro che stile e competenza nel settore -in tal senso è un prodotto per pochi- e di questi tempi è un approccio molto più genuino rispetto a quello del throwback ex post.
Black Moon - Total Eclipse (N.B.: inspiegabilmente, riesco a rippare solo fino alla tredicesima traccia, poi va in bomba Itunes. Ergo, ho fatto un collage tra le "mie" tracce e le restanti. Se ci dovessero essere ciocchi, fateme sape').
Di ritorno da uno sfogo sulla pochezza musicale di Lil' Wayne [no homo] sul blog di Antonio, stamane m'è sembrato quantomeno doveroso offrire quella che reputo un'alternativa a ciò che il suddetto schifosone ed i suoi epigoni propongono con tanto successo. Certo, il gioco delle contrapposizioni è un po' infantile, lo concedo, ma insistendo nel non farlo qualcuno potrebbe qualunquisticamente pensare che l'uno vale l'altro e che in fondo si tratta solo di gusti -no. Ma senza voler divagare troppo (tanto ho ragione), torniamo a bomba all'oggetto del post: l'ultimo lavoro dei da me già idolatrati Cunninlynguists, autori di un classico [*] come A Piece Of Strange ed ampiamente ignorati dal pubblico di mezzo mondo. Dirty Acres vede la luce a distanza di due anni dal precedente lavoro. In questo lasso di tempo poco si è sentito da parte loro e pertanto i sette-otto fan che hanno sparsi per il globo, una volta saputa l'imminente pubblicazione di nuovo materiale, hanno cominciato a manifestare segni d'impazienza e a cullare smisurate aspettative. Io non faccio eccezione, naturalmente, e difatti non appena ho avuto modo di sentire questo disco ho avuto un crollo degli zuccheri: non era quello che m'aspettavo, mannaggia a loro, e nemmeno riesco a fornire un'esatta spiegazione del perchè sono rimasto così profondamente deluso. Ragionando ad alta voce, rivediamo in sintesi quali sono i pregi della loro opera-punto di riferimento: una straordinaria varietà di beat contemporaneamente orecchiabili e complessi, da apprezzare "a strati" come 'na cipolla; un ottimo emceeing caratterizzato da abilità tecnica e da una forte evocatività; temi interessanti affrontati in modo originale; complessiva personalità, coesione, chiarezza. E questo Dirty Acres? Beh, ad un primo ascolto sembra che abbiano ulteriormente rafforzato la loro identità di bluesmen reppusi (passatemi il termine), ma, assenza di fattore sorpresa a parte, l'esito è ben diverso. L'inizio promette bene: il membro della Dungeon Family Big Rube si esibisce in un bel spoken word su una strumentale di pianoforte tipicamente plumbea, che dopo breve si conclude per lasciar spazio alla prima canzone vera e propria di Dirty Acres: Valley Of Death. Questa mette subito in chiaro che il piglio sgargiulo da giullari dei primi album è definitivamente scomparso, cosa che mi fa piacere almeno quanto l'avere la conferma di Natti come MC, che regala un'ottima strofa e dimostra essere un liricista con un paio di attributi così. Il beat funziona più che egregiamente, parecchio pestone ma espresso nello stile sempre più personale di Kno, e a parte una parentesi gospel francamente eccessiva fa ben sperare per le tracce successive... ma. Sì, c'è un "ma". Senza che vi sia bisogno di nominare i singoli pezzi uno per uno, personalmente reputo che i beat abbiano generalmente perso per strada quel connubio di orecchiabilità e complessità di cui ho scritto prima, vertendo più su quest'ultimo aspetto attraverso strati e strati di strumentazioni e altro. Naturalmente non si può parlare di incapacità da parte del produttore, questo assolutamente no, però una dopo l'altra le canzoni scivolano via senza lasciarsi alle spalle particolari impressioni; mentre sfido chiunque a non venir colpito immediatamente dalla bellezza di certe tracce del precedente album come Caved In, Brain Cell o the Gates, qui alle volte la carne al fuoco è tale che risulta impossibile focalizzarsi su un aspetto particolarmente memorabile. In più, l'impressione che Kno si sia lasciato andare un po' a suoni ed atmosfere eteree trova preoccupante riscontro nei pezzi più lenti: The Park, Yellow Lines, Dance For me e Georgia non sono certo definibili "brutte" (tutt'altro), però per quel che mi riguarda cominciano a spingersi verso sonorità più vicine all'ambient che non all'hip hop. Insomma: va bene creare dei "mood", ma qui si è a un passo dall'esagerazione e dal profluvio di saccarina nelle nostre orecchie. In poche parole, è un po' troppo "soft" per i miei gusti. Senza contare poi la dicotomia che si va a creare con il lavoro svolto da Natti e Deacon, che reputo eccellente sotto ogni punto di vista; ai livelli di Piece of strange e forse ancora più solido dal punto di vista della tecnica. Ascoltarli è sempre più un piacere e, traccia dopo traccia, non si ha mai l'impressione di perdere punti del proprio Q.I. Mi sono sforzato, lo ammetto, di trovare anche solo un verso fiacco o stupido in Dirty Acres: non l'ho trovato, riuscendo al limite ad incappare in alcuni passaggi un po' tanto ad effetto per i miei gusti ("the clay is running red from the blood that has been shed"). Ma tolti questi piccoli nei, il livello è comunque elevatissimo. Aggiungo che gli ospiti (Devin, Phonte, Witchdoctor ed altri) aggiungono un quid di ulteriore varietà che non guasta mai, e ad eccezione di una strofa non particolarmente ispirata di Too $hort questi si danno comunque il loro bravo daffare. E allora perchè solo tre e mezzo? Ma perchè, purtroppo, all'infuori dei bei testi il materiale non è per me di grande impatto. Molte canzoni sono sì belle ma galleggiano su tappeti sonori non strettamente memorabili, per quanto indubbiamente ben fatti. Inoltre, questi spesso s'assomigliano troppo e verso la fine del disco parrebbe quasi di ascoltare un'unico pezzo. In conclusione, quindi, Dirty Acres non fa altro che riconfermare il talento dei Cunninlynguists ma, purtroppo, non riesce a bissare A Piece Of Strange ma arriva solamente a rifinire e focalizzare maggiormente la tendenza blueseggiante di quest'ultimo. E questo non significa automaticamente un perfezionamento.
Scusate la sospensione delle comunicazioni, ma mi ero preso qualche giorno di vacanza durante il quale ho preferito oscillare tra il cazzeggio old school più ortodosso (per dire, ho finito GTA IV) e i nostalgici Amarcord della mia più esuberante adolescenza (il peraltro potentissimo concerto dei Rage Against The Machine a Modena, che mi ha messo KO per un giorno e mezzo). Fatto sta che oggi mi ritrovo come un fesso alla mia scrivania, anestetizzato dal sonno e con un tempo che definire "preautunnale" sarebbe fargli un complimento: il giorno giusto, insomma, per dedicare più di quattro striminzite righe all'ultima fatica degli Atmosphere. When Life Gives You Lemons You Paint That Shit Gold, oltre ad essere il loro quinto album e oltre a potersi fregiare del titolo più brutto di un disco degli ultimi settant'anni, è anche la loro opera di maggior successo commerciale: 36,000 copie vendute nella prima settimana, un risultato straordinario ma assolutamente comprensibile, come spero di riuscire a spiegare nelle righe che seguiranno. Premetto innanzitutto che non sono mai stato un particolare fan degli Atmosphere. L'unica volta che provai a dar loro una chance fu con Seven's Travels, e in quell'occasione giunsi alla conclusione che se mi piacevano i beat di Ant mi bastava buttarmi su Brother Ali. Perchè sì, il problema non era tanto la musica quanto Slug e la sua sconfinata autoreferenzialità vittimista che, se incrociata col mio totale disprezzo verso i neoboho, andava a creare una micidiale broda di noia e fastidio. Tuttavia, quando per puro caso ho trovato in giro l'edizione limitata acchiappagonzi di questo WLGYLYPTSG (doppia cover rigida in tela, booklet di 40 pagine e rilegatura a caldo) non ho potuto resistere e l'ho comprato a scatola chiusa pensando "sticazzi la musica, il packaging vale da solo la spesa". Successivamente, una volta giunto a casa ho comunque posto l'argenteo supporto digitale sul tray per provare a dargli un ascolto tanto per e, minuto dopo minuto, il mio iniziale disinteresse ha subito una metamorfosi che l'ha visto trasformarsi prima in curiosità, poi in sorpresa ed infine in entusiasmo. WLGYLYPTSG è difatti quello che secondo me si può definire un disco pop nella miglior accezione del termine; riesce, cioè, a fornire uno spaccato di quella parte di società a cui fa riferimento l'autore (in questo caso Slug) e che egli stesso utilizza come una sorta di medium attraverso il quale raccontarsi. Il tutto, naturalmente, venendo accompagnato da una controparte musicale che, pur non tagliando i ponti con il passato e le origini del gruppo, si "apre" di più alle orecchie non allenate. Volendo per forza trovare un'analogia, vuoi anche un po' azzardata, Lemons mi fa tornare in mente Automatic For The People; ovviamente non come genere, sonorità o scrittura bensì come atmosfere e come effetto finale sull'ascoltatore. Ma le analogie finiscono qui, perchè come si comincia ad ascoltare i testi ci s'immerge in una realtà definibile a naso come la bassa provincia americana, a metà tra America Oggi di Altman e Le Correzioni di Jonathan Franzen: working class classica, alcolisti, tossici più o meno autocoscienti, nullatenenti, padri assenti e via dicendo (non un festa ad ostriche e champagne, insomma, tant'è che a questo punto non dovrebbe sorprendere il cameo di Tom Waits in veste di beatboxer in uno dei pezzi). Fortunatamente per l'ascoltatore non-americano, i testi non si concentrano tanto sull'estrazione sociale ed i suoi effetti o su particolari analisi politiche, ma sono perlopiù tutta una serie di storytelling che vedono queste tristi figure muoversi su uno sfondo a metà tra lo squallore e la noia, senza oggettive speranze di riscatto e perlopiù rassegnate al proprio destino. Se ne deduce che il midwest non dev'essere esattamente un luna park (ho avuto modo di vederlo e ho avuto l'impressione di una sorta di profonda Brianza statunitense, fortunatamente meno brutta), certo, però in fin dei conti si tratta di soggetti piuttosto comuni e che chiunque avrà incontrato almeno una volta in vita sua: da qui il potenziale interesse che può scaturire da questi racconti, certamente più suscettibili d'empatia che non i cazzi di Slug. E, a proposito di cazzi, qualche scivolone c'è: The Skinny, oltre a non c'entrare assolutamente nulla col resto dell'album, è... sì, insomma, una interessantissima disgressione sul ruolo sociale del pene -a metà tra la biopic e la goliardia del Sire di Corinto. Ora, lungi da me il volerne fare una questione di buongusto, ma fermo restando che, come dice il saggio, "l'unico bello è il proprio", faccio francamente fatica a vedere di buon occhio una simile tematica. Ancora ancora potevo glissare su My Friend di Royce, ma questo, col suo piglio accademico ed il tono da cantastorie, è francamente troppo. A dio piacendo, però, la suddetta penisbiopic è l'unico vero, drammatico, passo falso da parte di Slug. Il resto è generalmente ben scritto, rimato più che discretamente (spiacente ma non faccio parte di coloro che lo reputano il cristo sceso tra noi) e con delle piacevoli variazioni stilistiche tra rappata veloce e lenta e tra dizione secca e cantilenata. Anche i ritornelli sono sorprendentemente ben studiati e alcuni, ad esempio quello di You, difficilmente riusciranno ad uscire dalla testa. Dal canto suo anche Ant si è sviluppato in modo interessante, optando innanzitutto per l'utilizzo massiccio di strumenti suonati dal vivo al posto dei campioni. Quindi, la prima cosa che si può dire è che la bontà del suono è nettamente superiore a quella della "concorrenza", e questo nonostante un mixaggio non eccelso -cfr. certi synth che scorreggiano- e malgrado la fastidiosa consuetudine di Ant del tenere il rullante "secco" come una fucilata oltreché sparato ad un volume esagerato. La seconda cosa positiva dei beat è la loro sostanziale varietà, riconoscibile anche da un profano: si passa per esempio dalla smaccata influenza gospel di Puppets al suono molto gnarlsbarkleyano di You, senza scordarci la pesca a piene mani dal rock classico (l'hammond e l'arpeggio di chitarra elettrica di Painting, ad esempio, o l'acustica adoperata per Guarantees) oppure il ricorso a synth in stile bay area in svariati pezzi (Can't Break, The Skinny, Shoulda Known). Last but not least, il terzo motivo di lode consiste nell'aver saputo evitare l'effetto "schizofrenia" pur avendo messo così tanta carne al fuoco; denominatore comune delle tracce è difatti non tanto l'atmosfera -generalmente caduca ma con occasionali sprazzi di allegria- quanto la melodicità degli arrangiamenti, tutti piacevoli da sentirsi anche se a volte un po' scontati. Insomma, cosa posso dire? Il bello di Lemons è che può essere ascoltato in almeno due modi diversi e risultare comunque gradevole. E' un disco ben concepito ed eseguito senza particolari scivoloni, adatto dunque sia ad essere ascoltato in macchina che nel walkman; la sua accessibilità musicale è controbilanciata da uno Slug decisamente meno emo e dunque -oltre che più maturo- immensamente più interessante ad ascoltarsi. Inizialmente, preso dall'entusiasmo com'ero, la mia tentazione di affibbiargli quattro zainetti e mezzo era grande; epperò reputo che quattro gli calzino meglio. A prescindere da questo, si tratta senz'altro di uno degli album migliori del 2008 oltrechè di uno di quelli più dotati di potenziale commerciale al di fuori della ristretta cerchia dell'hip hop underground.
Come promesso, eccovi la sorpresona che mai nessuno avrebbe potuto immaginare riguardante gli AOTP. Come si può intuire dal titolo, non è altro che la fusione delle tracce (secondo me) migliori dei loro due album, con aggiunta This Is War e alcuni simpatici skittini, riciclati dai dischi dei Jedi Mind Tricks -così, tanto perchè facevano bello. Ho naturalmente creato una grafichèta ad hoc -niente de che, ma meglio di un calcio nei coglioni- che potete scaricare tramite l'apposito link. E ora la tracklist:
01. Swords Drawn 02. The Heart Of Darkness Interlude 03. Time To Rock 04. Farewell To The Flesh Interlude 05. This Is War 06. Through Blood By Thunder 07. Gorillas 08. Pariah Demise Interlude 09. Dump The Clip 10. Feast Of The Wolves 11. Henry The VIII 12. Of The Spirit And The Sun Interlude 13. Strike Back 14. King Among Kings 15. The Darkest Throne Interlude 16. Listen Up 17. Pull The Pins Out 18. Triumph & Agony Interlude 19. Tear It Down 20. Seven 21. Wrath Of The Gods 22. Narrow Grave 23. Boondock Saints Interlude 24. Don't Cry
*Errata corrige: così, a naso, credo di aver invertito Strike Back e Time To Rock. Dico "a naso" perchè ho lasciato il CD in ufficio; domani vi saprò dire e ricaricherò la grafica con la tracklist esatta. A margine: ieri che non ho postato una sega ho avuto 70 e rotte visite, oggi a malapena una cinquantina. Se qualcuno riuscisse a frami capire gli sarei grato. **Aggiunta: ancora peggio! Time To Rock nemmeno l'ho inserita a causa di casino tra i miei file! Domani, in serata, rimedierò a tuttto. La grafica tenetela così com'è perchè è giusta, ho solo fatto casino con Logic
Persino per un genio come alle volte è dura non ripetersi, specialmente quando mi trovo a parlare dello stesso artista in un lasso di tempo molto breve. Ma la tentazione di autocitarmi è troppo forte, e del resto mi da il "la" per partire con la recensione vera e propria: parlando di All Of The Above, che riprende la copertina di Blue Train di Coltrane, avevo detto che il paragone tra i due artisti poteva reggere in quanto nessuno di questi due dischi ha comportato una svolta decisiva nel loro modo di fare musica. Anticipavo inoltre che J-Live il suo Giant Steps lo deve ancora comporre, e che di certo non è rappresentato dai suoi lavori successivi -incluso Then What Happened.
Un disco, questo, che avevo già scaricato come leakato (unica differenza: la scaletta dei pezzi) e che, a partire dal terzo ascolto, non vedevo l'ora di comprare, recensire e "pubblicizzare". Ora che il momento è giunto, alcuni puerili entusiasmi si sono spenti, ma la generale soddisfazione è rimasta ed anzi si è vieppiù rafforzata di ascolto in ascolto. Proseguendo nella sua letterale evoluzione, con Then What Happened Live crea il suo disco più bilanciato e complessivamente più soddisfacente e fruibile, riuscendo a scrollarsi di dosso gli errori di The Hear After ed eguagliando il suo capolavoro, All Of The Above. Lo dico subito: il prezzo da pagare è una minor complessità concettuale ed anche una minore varietà, ma la contropartita sta nel fatto che la media dei beat è qualitativamente superiore, che il disco è più sintetico e che nell'insieme il tutto fila via con maggior scioltezza. Tuttavia, la formula è grossomodo la stessa: un sano boombap vecchia maniera con testi riflessivi espressi tramite liriche ricercate che ancora s'appigliano al caro vecchio concetto di stile. Pure, già solo con la introduttiva One To 31, metà rappata e metà discorsiva, le prime differenze si fanno notare: primo, Live ha un tono più caustico e deciso; secondo, il beat è più "moderno", meno legato ai fasti dei vari Ali Shaheed Muhammad e compagnia bella. Nella fattispecie, Jazzy Jeff prende tutta una serie di fiati (tromba e trombone) che renderebbero orgoglioso Pete Rock, ci aggiunge un brevissimo campione di synth e poi lascia che sia il tiro delle batterie a fare il resto. Un minimalismo che non sembra tale, sul quale Live fa un po' il punto della sua situazione personale sia sfruttando il concetto di dialogo/intervista, sia esprimendosi in maniera più nettamente autobiografica. È interessante notare come i due approcci si fondano bene e come il passaggio dall'uno all'altro non risulti forzato, e come persino gli scratch (curati da Live stesso) non risultino fuori luogo; personalmente avrei preferito più emceeing, ma non si può avere tutto dalla vita. Non dovrebbe comunque stupire tanto la brutale onestà -da sempre caratteristica del Nostro- quanto l'amarezza che trapela da certe affermazioni, come quando, alla domanda su quanti dischi ha venduto nella sua carriera, risponde seccamente "approximately 100,000" (!) -come lo stesso autore scrive nel booklet, quello passato non dev'esser stato un buon anno. Si prosegue sullo stesso piano con Be No Slave, nella quale il discorso si fa più specifico e si va a toccare il sempre frustrante argomento del fare un lavoro che non ripaga economicamente degli sforzi e della passione riversativi. Fortunatamente, per quanto il tema sia pericolosamente tangente alla cerchia del playahating più intenso, che sovente si traduce in un misto di autocommiserazione e training autogeno, Live se la gioca con maggiore sobrietà e senso di responsabilità -dicendo, sostanzialmente, che si tratta di una scelta le cui conseguenze dipendono unicamente da lui (e, permettetemi, sono pochi a fare così). Dal canto suo, Evil Dee si mette al campionatore e crea una bella commistione tra un potentissimo giro di basso ed una batteria limitata a pochi colpi di cassa ed un fruscio di charleston, sul quale va ad appoggiarsi un bel sample vocale femminile che da quel tocco finale di blaxpoitation al tutto. Atmosfera che prosegue nella lunga (quasi sei minuti!) ma assolutamente godibile The Upgrade, dove un ispirato Oddissee si lascia andare su un 4/4 piuttosto veloce retto da campioni soul tra cui l'immancabile vocale, lasciato "scorrere" in chiusura di misura e tagliato e ripetuto nel resto -un po' à la 9th Wonder, per intenderci. Tendenzialmente, questa è una tecnica che mi ha stufato già da un pezzo e che ormai reputo priva di qualsivoglia motivo di interesse, eppure qua il risultato è piacevole e, soprattutto, l'assolo finale di tromba di Rashawn Ross (che ho scoperto avere un curriculum di tutto rispetto) conferisce una tocco di classe al pezzo. Per di più, l'aggiunta al microfono del "mentore" Posdnuous e dello stesso Oddissee interrompe piacevolmente il flusso di rime di Live (ma al contempo mostra con tutta la chiarezza di questo mondo quanto quest'ultimo ricordi stilisticamente Pos). Ancora migliore è però It Don't Stop (chi campiona il suono dello xilofono con me ha già vinto a mani basse), ed anche il ritorno al suono più prettamente nativetonguesiano di The Understanding arriva giusto in tempo per imprimere una svolta al suono di Then What Happened e per prepararci ad uno dei suoi migliori pezzi, The Last Third (in odore dell'Ali Shaheed Muhammad di Low End Theory), nella quale J narra della separazione/divorzio tra lui e sua moglie. Nulla di particolarmente allegro, insomma; ma ci pensa la messicaneggiante Olé -titolo del cazzo tizianoferresco- a tirar su gli umori, e per una volta tanto lo storytelling del Nostro si tuffa nel cazzeggio più spensierato (ispirato in questo dalle chitarre). Purtroppo, però, What You Holdin' comincia ad incasinare le cose. Infatti, l'idea di sperimentare una rappata su un 6/8 si scontra non tanto col tempo stesso -che comunque non ritengo idoneo per canzoni più lunghe di due minuti- quanto con la ripetitività del campione e con lo stile forzatamente spezzato della dizione Live; tutti elementi, questi, che sparsi su quattro minuti e mezzo fanno scendere i coglioni all'altezza delle suole delle scarpe. Poi posso anche immaginare che ci sarà chi apprezza la sperimentazione in quanto tale e che dirà "eh, ma è voluto", ma oltre a non essere una giustificazione di per sè, il problema è che s'è voluta una stronzata. Discorso analogo si potrebbe fare per Simmer Down, dove, nuovamente, la dizione si lega troppo al pur gradevole beat e ciò che ne risulta è una mezza mattonata; ma stavolta la cosa non si può spiegare con una forzatura data dal tempo, e quindi risulta ancora più diffficile comprendere come un artista simile abbia potuto optare per una scelta così bizzarra e, in ultima analisi, infelice. Ma le brutte sorprese finiscono qui: le restanti quattro tracce riportano il disco ad un livello alto e, per quanto uno potrà sempre trovarci qualche motivo di critica (Ooo Wee e We Are un po' scontate, You Out There con un Nicolay valido ma non al top) non si può in nessun modo parlare di materiale skippabile. Giunti al termine d questa recensione-bibbia, avrete già potuto indovinare che questa è per me una delle migliori uscite di quest'anno. in tutta franchezza, reputerei deplorevole non aggiungere Then What Happened alla propria collezione; a maggior ragione se si apprezza Live come liricista, che imprimendo piccole svolte riesce a non risultare Né ripetitivo né a corto d'idee. Se invece dovesse essere la prima volta che v'imbattete nel Nostro, la scelta tra All Of The Above e questo spetta a voi; personalmente, ripeto, pongo ambedue gli album sullo stesso livello, pur trovando Then What Happened forse meno "completo" ma senz'altro più digeribile.
Sembra incredibile, ma il mio primo giradischi lo comprai solo nel '98. Fino ad allora me l'ero sempre sfangata altrimenti, generalmente rinunciando a qualche pezzo quà e là, oppure sfruttando pomeridianamente l'attrezzatura di qualche mio amico, oppure -e qui fui geniale- arrivando financo a farmi fabbricare un cavo con alle estremità un jack normale e dall'altra uno da 1/4" per sucare a sgunfio certi 12" dal Timeout, collegando il giradischi al line-in di un vecchio walkman. Ma quell'anno venne pubblicato un disco che, da solo, mi spinse a mettere via i soldi per comprare un Technics a cinghia: l'album che non riuscivo a pensare di non poter ascoltare era Full Scale. Da lì in poi non è che abbia comprato molti dischi su vinile, e -Full Scale escluso- l'unica cosa che non rende quel mio acquisto un investimento inutile sono gli album vampirizzati dalla collezione di mio padre. Ma tant'è; a dieci anni di distanza non solo si sono succeduti innumerevoli sistemi di P2P (Audiogalaxy era il migliore, btw) che hanno ovviato a problemi come il mio di diciassettenne, ma anche il panorama dell'hip hop è mutato in maniera considerevole. Ad esempio, se dieci anni fa mi avessero detto che la D.I.T.C. un giorno non sarebbe praticamente più esistita, non ci avrei creduto; se mi avessero detto che Fat Joe avrebbe fatto canzoni con Lil' Wayne, idem; ma, soprattutto, se mi avessero detto che avrei dovuto aspettare dieci anni prima di avere una nuova raccolta di materiale originale da parte di Show & A probabilmente sarei scoppiato a ridere. E invece eccoci qui, nuovamente con un EP: pare incredibile. Va detto che in questo lasso di tempo, mentre Show è rimasto sostanzialmente fermo al palo, AG prima ci ha deliziato (si fa per dire) col suo solista del 2000 e poi ha resuscitato la sua carriera con un più che discreto seguito nel 2006, contenente produzioni di Oh No, Madlib, Dilla e Jake One. Ma i fan volevano altro, e così eccoci a Live Hard. Francamente, non c'è molto da dire sul contesto in cui questi sette pezzi e cinque strumentali escono: così a naso si tratta solamente di un piatto cucinato per saziare gli appetiti degli orfani della D.I.T.C., ed in tal senso il risultato può dirsi raggiunto. Purtroppo, anticipo fin da ora che Live Hard uscirebbe a pezzi se confrontato con Full Scale, ed è solo per affetto nei confronti del duo che cercherò di evitare paragoni nella disamina di queste sette tracce. Anche perchè Business As Usual, il pezzo d'apertura, eccetto usufruire del ritornello scratchato da Premier (ma cos'è, una moda?), non ha nulla di particolarmente degno di nota. Certo, è ben prodotta, ha delle belle batterie e AG, pur non eccellendo (la prima strofa è poi discutibile, pare quasi un freestyle), si lascia ascoltare, però la cosa finisce lì. Le cose poi migliorano con Can't Relate, ma è solo grazie a The World Is Listening che si comincia ad avere un sentore di vero ritorno del duo anzichè della consueta anonima uscita underground nuiorchese. Il 90% del lavoro lo fa il campione di glockenspiel scelto da Show, che restituisce al pezzo un'atmosfera tra il cupo e l'etereo, un po' come avvenne per Raw As Ever. Ma sarebbe ingiusto non spendere due parole su AG, che qui decide finalmente di uscire dalla sua comfort zone scrivendo un pezzo (vagamente definibile come concettuale) nel quale descrive se stesso ed i suoi comportamenti in base a ciò che gli è stato detto da certe persone in dati momenti della sua vita. Menzione speciale per il ritornello, un'autentica perla fatta di giochi di parole: "I overheard talk is cheap, anyway that's the word on the street/ I don't talk if I'm forced to speak, I speak the truth 'cause the world is listening". La china continua a venir risalita poi dall'ottima Running Man, che compensa uno storytelling un po' "meh" (immaginatevi grossomodo Il Fuggitivo in chiave ghettusa, yawn) con un beat lento che profuma meravigliosamente di Stax, e che con un basso tirato su a livelli irragionevoli non sfigurerebbe tra le meglio cose Return Of The Mac. Ma è solo con la quinta traccia che si raggiunge quello che per me è lo zenit qualitativo di Live Hard: Land Of The Free. E ciò non solo perchè a far da spalla a AG c'è O.C., cosa che spezza di molto la monotonia del primo, ma anche perchè il Nostro dedica un intero pezzo a criticare materialismo e consumismo cieco... eh? Essì, AG, uno dei pochi campioni di orgoglioso cazzeggio, s'è momentaneamente ravveduto. Non aspettatevi naturalmente un novello Immortal Tech, però -l'approccio qui è molto più terra-terra, arricchito, più che da attente analisi sociologiche, da piccoli esempi di miseria quotidiana. E poi la base, insolitamente melodica con quel sovrapporsi dei campioni di piano e di archi, ben si adatta al testo e ci ricorda ulteriormente come suona un duo affiatato. Chapeau, insomma. Tristemente, però, da qui in poi la strada è in discesa e si ritorna al tiro delle prime due tracce: senza infamia e senza lode e con qualche scivolone da parte di AG abbastanza patetico ("You lack iron like anemia", per dire, che farebbe cacare a prescindere dallo svarione medico. Parentesi: i niguz ce l'hanno su con l'anemia, ricordo un meraviglioso Lord Have Mercy che ci ammoniva che lui era "cold blooded like anemics"). Giunti a questo punto, cosa si può dire? Beh, innanzitutto che Show & A sono stati bravi a non steccare nemmeno un pezzo -del resto, su sette sarebbe stata ardua. Ancora più bravi, ne hanno creati tre davvero belli, epperò... epperò, cazzo, è come con Indiana Jones: dopo tutto questo tempo non può bastare un semplice disco "OK", come minimo deve avere glieffetti speciali sbirluccicosi e farti gridare FUCK YEAH!. Ora, io sono sufficentemente raziocinante da riconoscere la competenza dietro a Live Hard, ma non posso nascondere una mia delusione. Come potrei? Per belle che siano, le tre canzoni di metà disco non sono né una Q&A, né una Drop It heavy, né men che meno una Spit. E d'accordo che Full Scale è un capolavoro, però... Insomma, peccato ma anche no. Va bene così, ma ora voglio qualcosa di assolutamente stellare.
[N.B.: sono estremamente spiacente, ma stamattina ho dovuto lavorare, e per di più alle 4 ho un appuntamento per vedere un appartamento. Insomma, non ho tutto il tempo che vorrei per scrivere qualcosa di sensato su uno dei dischi di cui al post precedente -a proposito, mi sono arrivati. Pertanto, per ora "riciclo" una recensione scritta un paio d'anni. Peraltro, avendo oggi recuperato i due dischi degli AOTP, aspettatevi una sorpresa in settimana]
"Introducing… 1998. Un gruppo dal nome altisonante, Army Of The Pharaohs, pubblica il singolo “The Five Perfect Exertions b/w War Ensemble” tramite la allora sconosciuta ed ora defunta Superegular Recordings. L’underground (e gli utenti di Napster), disgustati dalle paillette delle tute di Puffy e Mase, ne decretano il successo per due motivi: il primo è ovviamente l’altissima qualità dei pezzi, il secondo perché era da tempo che non si vedeva un allineamento di simili MCs: Jedi Mind Tricks, 7L & Esoteric, Virtuoso, Chief Kamachi e Bahamadia. 2000. Sull’ormai leggendario secondo LP dei Jedi Mind Tricks viene pubblicato un ennesimo remix di “Five Perfect Exertions”, oltre all’inclusione di War Ensemble come ghost track. Nel frattempo, corrrono voci sempre più insistenti sulla pubblicazione di un EP da parte del collettivo. 2001-2005. Dell’EP nemmeno l’ombra. In compenso, nel corso degli anni escono dal gruppo diversi componenti (Virtuoso, Jus Allah, Bahamadia e, per ultimo, Stoupe) per far posto ad altri (Apathy, Celph Titled, Outerspace, King Syze, Reef Tha Lost Cauze, Des Devious e Faez One); nel mentre, ciascuno dei suoi membri porta avanti i rispettivi progetti solisti. Gennaio 2006. Il sottoscritto legge dell’imminente uscita dell’album, intitolato The Torture Papers, e comincia a temere il peggio: sarà l’ennesimo polpettone epico-battle-fintofacentebrutto? Viste le tendenze di alcuni dei componenti del gruppo (Vinnie Paz e Celph Titled su tutti) il rischio c’è. […] Vabbè, ma ‘sto album alla fin fine com’è? Merita o è puzzone?, perché è questa l’unica cosa che importa. Incominciamo col dire che mi rifiuto categoricamente di prendere sul serio le fesserie di Vinnie Paz; che i testi pseudogangsta di Celph Titled raggiungono dei livelli di involontaria comicità da tempi non sospetti; che gli Outerspace possono passare come rapper-jolly data la loro piattezza in termini di contenuti e di personalità; e, infine, che King Syze è un bombolone a cui deve piacere molto, dico molto, Big Punisher. A questo punto incrociamo le dita per lui e speriamo che limiti l’emulazione al solo rap. Insomma, considerate dunque queste Verità non posso nascondere che mi sono effettivamente approciato all’ascolto del disco con tutta una serie di pregiudiziali riguardanti il suo valore (tanto per cambiare). Per certi versi di conferme ne ho avute fin troppe, mentre in altri casi posso dire di essere stato sorpreso. I beat, innazitutto: malgrado/grazie all’assenza di Stoupe, il progetto è stato portato a termine perlopiù da perfetti sconosciuti (Shuko, DC The Midi Alien e via così), molti dei quali europei, ed il risultato si sente fin dalla prima traccia. The Torture Papers si apre infatti con un’asciugata assassina di SEI minuti dove TUTTI gli MCs hanno la loro opportunità di dire la loro. Un campione con trombe, violini, cori gregoriani ecc. (tratto probabilmente da chissà quale colonna sonora), una batteria classica in 4/4 e un centinaio di barre da battaglia è decisamente troppo per i miei gusti, anche se in mezzo a quest’orgia di rime qualcuno si fa notare: Reef, per dire, una volta capito chi è lo si apprezza volentieri; Eso ha subìto una metamorfosi ed è tornato ad una metrica serratissima a metà tra Kool G Rap e Percee P, che se presa in piccole dosi spezza bene il tutto; Apathy e King Syze si lasciano ascoltare. Aggressività a parte, Vincenzino Pazienza continua invece a dire fesserie con metriche sempre più triviali, ma se paragonato allo sciattume degli altri svetta. Ecco, grossomodo questo è il tenore delle apparizioni attraverso l’intero CD. Così potete cominciare a farvi un’idea. Ma se Battle Cry tinge di pessimismo le previsioni, già alla terza traccia arriva Henry The 8th e rimescola le carte in tavola: il beat, costruito su un bellissimo quanto semplice loop di musica barocca (archi ed oboe) ed un giro basso veramente potente, trasforma il pezzo in un headnodder da 3’39’’. Per giunta, Vinnie apre e chiude la strofa come da tempo non faceva (“For whom the bells toll/ Vinnie Paz I call hell home…”), Kamachi e Reef proseguono più che degnamente e, mirabile dictu, Planetary registra alcune delle migliori barre del disco –e della sua carriera, se è per questo. Di diverso stampo è invece Into The Arms Of Angels: sia musicalmente (è l’unica traccia lenta presente sul disco) che contenutisticamente, tant’è vero che qui Faez One, Crypt e Vinnie si lanciano in un’audace impresa d’introspezione… Vinnie Paz? Introspezione? Ebbene sì, dopo tre album e svariate apparizioni, Vincenzino mette da parte la sua patologica omofobia per la bellezza di una strofa intera! Purtroppo però, effetto vinnie-sorpresa e base gradevole a parte, Crypt non brilla per ars poetica e Faez, dal canto suo, può vantarsi di avere uno dei flow più letargici del mondo dell’hip hop. Avanti la prossima. Anzi, no, non è necessario. Uno dei problemi di questo disco è infatti l’eccessiva somiglianza tra le tracce, per cui non è difficile tracciare un identikit di Torture Papers nel suo complesso. I beat gravitano tutti nell’area hardcore-cupo (eccetto la sopracitata Into The Arms ed il singolo Tear It Down, che invece è una sucata di proporzioni imbarazzanti al Premier di cinque anni fa e che pertanto mi rifiuto di commentare), e si contraddistinguono dunque da due tipologie di campioni: quello platealmente epicheggiante (Battle Cry, Henry The 8th, Pull The Pins Out, Listen Up, All Shall Perish, Feast Of The Wolves) e quello più o meno tipico delle produzioni east della seconda metà degli anni ’90 (Gorillas, The Torture Papers, Narrow Grave, King Among Kings, Wrath Of The Gods). Intendiamoci, una minima di varietà c’è –è solo che l’impressione è quella di ascoltare una unica, lunghissima traccia con qualche bridge sparso qua e la. Et encore: sfido chiunque a differenziare i “contenuti” di un pezzo dall’altro: siamo sempre lì, rime da battaglia su rime da battaglia senza particolari significati, niente. A molti altri recensori una simile incredibile “omogeneità” (eufemismo) ha addirittura condotto una teorizzazione di concept album. Interessante punto di vista, ma il “concept” dov’è? Forse nel fatto che saltuariamente c’è qualcheduno che grida “it’s that ’94 shit… that hardcore shit”? Al di là del fatto che di somiglianze col ’94 non ne vedo NESSUNA (almeno, non se ripenso agli Organized Konfusion, alla D.I.T.C., a Jeru e via dicendo), rimango dell’idea che, proclami a parte, questo sia un disco in realtà intrappolato nella mentalità da estremista dell’underground, il quale prende quello che viene fatto dai vari D4L o Franchise Boyz, se lo immagina invertito specularmente, e fa un disco. Peccato però che nemmeno un nostalgico come il qui presente riesca a vederci grossi motivi d’interesse, anche considerando la presenza di pezzi come Henry The 8th, King Among Kings, Wrath Of The Gods (queste ultime due sono le uniche a suonare davvero crude, tipo le produzioni di Ahmed –quello di Flip Shit dei Ghetto Dwellas, per intenderci, alla quale King… somiglia assai. Sarà un caso?). La volonta c’è, ma manca completamente una traccia di particolarità, di identità. I dischi di quell’epoca sono tutt’altra cosa, e dubito che sia possibile raggiungere anche solo una vaga somiglianza. Riassumendo: malgrado le buone intenzioni, una serie di MC più che decenti ed i beat tutto sommato sopra alla norma, l’insieme mi sembra mortalmente noioso. Non ci vedo nulla di interessante né sotto l’aspetto musicale, né, soprattutto, sotto quello delle liriche. Non è né un tuffo nelle atmosfere del passato, né una possibile visione del futuro del rap hardcore. Il disco non è brutto, tutto sommato, e sta all’underground odierno come i White Stripes stanno al pop; certo che se dovessi tener in considerazione il potenziale inespresso… meglio non pensarci. Scaricate, ascoltate e decidete con calma se valga la pena di un acquisto. Io, a distanza di un mese, ancora non ho preso una decisione."
[Come avrete potuto notare, nella recensione non sono stato esattamente magnanime con l'esordio del collettivo. Tuttavia, oggi come oggi il mio parere è più favorevole, sia perchè ho ascoltato il secondo disco (un passo indietro sotto ogni punto di vista, a partire dal lineup che ora comprende ceri scarsoni da paura come Demoz), ma sia soprattutto perchè Torture Papers gode di una longevità fuori dal comune. Difatti, ferme restando le mie critiche, ad un certo punto si smette di prendere sul serio ogni singola parola proferita dai tizi e ci si concentra sullo stile e sulla musica. E lì c'è poco da fare: tradizionali fino a sfiorare il manierismo, ma ci sanno fare eccome. E anche i beat funzionano più che bene, risultando l'equivalente dell'amico con cui esci sapendo benissimo che tipo di serata sarà ma col quale, trovandoti bene, poco t'importa di fare cose nuove. Ora: non alzo il voto perchè si tratta oggettivamente di un buon disco, ma posso dirvi che i tre zainetti e mezzo gli stanno stretti. Riallacciandomi dunque alla conclusione della recensione, ci ho messo ben più di un mese per decidermi a comprarlo: ma se dopo due anni uno ha ancora voglia di spendere 18€ per un disco, appare evidente che questo ha un valore.]
Come i più furbi di voi si saranno accorti, è un po' che non posto. Questo è dovuto al fatto che come ogni inizio di mese, qui si è in chiusura di numero e si torna a lavorare quella decina di ore al giorno. La consegna del materiale alla fotolito è prevista per venerdì, spero comunque di trovare un minim o di gioia di vivere prima di quel di' e quindi di caricare qualcosa. A presto.
Al contrario di diversi altri audioblog, questo sito non si propone né di tenervi aggiornati sulle ultime uscite in tempo reale, né di fornire guide approfondite e ragionate a determinati artisti. Più semplicemente, non è altro che la graduale messa online della mia collezione di dischi e, in qualche caso, di cose originali fatte da me. Come ogni buon collezionista, tendo a voler avere quanto più materiale su formato originale; non pretendo naturalmente che chiunque la pensi allo stesso modo, ma sarebbe corretto acquistare i dischi che ci piacciono. Credo anche che in questo modo cambi la percezione della musica, che il supporto fisico le attribuisca un valore aggiunto che spinge ad approfondire gli ascolti (vuoi anche solo perchè uno ci ha speso dei soldi). Va da sè che i file vanno cancellati dopo 24h -mi raccomando, eh. Inoltre, salvo rare eccezioni, difficilmente riupperò i link scaduti da tempo -lavorando, purtroppo, il tempo a mia disposizione è quello che è. Commenti e consigli sono sempre ben accetti.