E anche quest'anno riesco ad essere abbastanza puntuale al solito appuntamento con l'Encores. Vi sarete terrorizzati vedendo il retro, ma non vi preoccupate: nel "booklet" c'è una tracklist molto più comprensibile, con tanto di artisti e produttori (a proposito: premio simpatia al primo che capirà l'ordine di lettura delle tracce). Ciò detto, non nascondo che l'anno è stato un po' magro. Certo, ci sono cose che mi esaltano quali ad esempio In the Ghetto di Large Pro, Stages di Reks o Society Is Brainwashed, però altre canzoni non sarebbero entrate nelle compile precedenti. Non so, è bizzarro. Comunque sia, qualcuno potrà lamentarsi ad esempio dell'assenza di una qualsivoglia canzone di Q-Tip: il fatto è che in quel caso trovo che sia pressoché impossibile estrarre alcunché, essendo quel disco una sorta di "unicum" da prendere così com'è e basta. Au contraire, di Akrobatik non ho messo nulla perchè non è che ci fosse niente di spaziale (sì, boh, Be Prepared è caruccia ma la cosa si ferma lì), e lo stesso dicasi per NY Oil ed altri che, pur avendone apprezzato il lavoro, non ho reputato dotati di grande longevità. Nota a parte per Rising Down: la strofa di Styles P è talmente patetica che non ho resistito alla tentazione di tagliarla -se vi piaceva, per QUALSIASI motivo, uccidetevi. Ma bando alle ciance e via di tracklist:
01. The Uprising - Mighty Joseph (prod. by Karniege) 02. Society Is Brainwashed - Ill Bill (prod. by DJ Premier) 03. Damage - DJ Revolution feat. Blaq Poet & Bumpy Knuckles (prod. by DJ Revolution) 04. Introducin' - The Returners feat. El Da Sensei (prod. by The Returners) 05. Puttin' Work In - EPMD feat. Raekwon (prod. by Ty Fyffe) 06. Motown 25 - Elzhi feat. Royce The 5'9'' (prod. by Black Milk) 07. Million Words - Maylay Sparks (prod. by DJ Noize) 08. The 3rd World - Immortal Technique (prod. by DJ Green Lantern) 09. Insane - Heltah Skeltah (prod. by Marco Polo) 10. Ode To The Ghetto - Guilty Simpson (prod. by Oh No) 11. Rising Down (Edited)- The Roots feat. Mos Def (prod. by The Roots) 12. Let It Knock - East Coast Avengers (prod. by D.C. The Midi Alien) 13. Nice Kids - LoDeck & Omega One feat. Invizzibl Men & C-Rayz Walz (prod. by Omega One) 14. The Man Without Fear - Vast Aire (prod. by Melodious Monk) 15. In The Ghetto - Large Professor (prod. by Large Professor) 16. Stages - Reks (prod. by Large Professor) 17. It Don't Stop - J-Live (prod. by J-Live) 18. Trap Door - Jake One feat. MF Doom (prod. by Jake One) 19. Conquer Mentally - Presto feat. O.C., Sadat X & Large Professor (prod. by Presto) 20. Hell Yeah - Black Milk feat. Fat Ray (prod. by Black Milk)
Al solito, se masterizzate mi raccomando di eliminare le evntuali pause tra una traccia e l'altra. Quanto alla grafica, mi pare abbastanza chiaro cosa deve andare dove; l'unico elemento che potrebbe darvi problemi è il tray, che vi consiglio di sistemare a mano tagliando un mm circa per lato in modo tale che riesca a starci, oppure, meglio ancora, di creare una stampata fronte+retro casalinga (cioè stampando un A4 con su il retro, girarlo e reinserirlo nella stampante, e poi mandare in stampa il tray). oppure ve ne fottete e al posto della plastichina trasparente usate quella classica nera. Ovviamente, qualsiasi commento nonchè pubblicizzazione -posto che abbiate un blog/sito e reputiate degno il lavoro- è apprezzato. Encores 2008 - Rewind Hitters Vol.5 (incl. grafica)
Mi restano il retro ed il tray... se riesco a finirli oggi (leggi: niente disco), domani dovrei riuscire a postare tutto. Intanto che ne dite del fronte?
In occasione del concerto di Capone 'N' Noreaga che si terrà a Milano il prossimo 14 febbraio (più info QUI) mi pare doveroso lanciarmi in un'operazione da un lato piacevole e dall'altro scontata e disarmante: recensire The War Report. Come altri album della mia collezione, anche questo venne comprato mentre mi trovavo all'estero ma il fatto che me lo farà ricordare meglio di altri è perchè era una delle tante cose (ca. 200 sterle tra dischi e videogiochi) che ero riuscito ad inculare in tre turni alla Tower Records di Piccadilly Circus prima di farmi legare come un babbeo dal niggu più grosso che avessi mai visto in vita mia. Illegal life, WHAT!?! Comunque sia. Non entrerò nei patetici dettagli della storia nel suo insieme -a parte che venni burlescamente ribattezzato "Lupin" dal mio insolente parentado- se non per dire che gli inglesi mi disserò che, a prescindere dall'arresto e dai casini col consolato, potevo tenere quel che pagavo e portarmelo via; pecunia non olet, immagino. Tuttavia, molto del bottino di guerra restò lì a causa delle mie limitate finanze, ma ciò che riuscii a portarmi a casa furono una copia della Source di quel mese (con i Fugees in copertina ed un immortale servizio sui rapper-padri) e, naturalmente, l'album di Capone 'N' Noreaga di cui tanto avevo sentito parlar bene. E se col passare del tempo l'imbarazzo dovuto all'exploit furfantesco fortunatamente s'è alleviato, altrettanto fortunatamente mi trovo ad avere in mano un album eccellente il cui unico indiretto difetto è che è unico. Ma non "unico" come lo può essere The Infamous, che dopotutto ha avuto un seguito più che dignitoso (5 a Infamous e 4 e 1/2 a Hell On Earth, ok?), ma unico come solo War Report può essere; parafrasando il Re Sole: "après il, le déluge". Infatti, con l'unica parentesi di N.O.R.E., il resto della produzione del duo del Queens è stato nella migliore delle ipotesi passabile. Reunion non ero tutto 'sto granché, i solisti di Noreaga sono passati dal discutibile all'imbarazzante e quelli di Capone, beh, sono semplicemente ridicoli. Non posso dunque fare a meno di suggerire a chiunque si avvicini all'esordio discografico di CNN di goderselo come merita ma di mettere una pietra sopra a qualsiasi speranza che il duo possa tornare ai loro iniziali splendori; le chance che io per primo gli ho concesso sono state fin troppo generose ed alla fine della storia ho dovuto esborsare folli quantità di denaro prima di rendermi davvero conto che in fondo quello che avevano da esprimere lo avevano già fatto nel 1997. Ciò detto, arriviamo a War Report. I suoi punti di forza sono essenzialmente due: le produzioni (curate da EZ Elpee, Buckwild, Charlemagne, Marley Marl ed altri) ed i testi che, sì, a prima vista possono apparire come la solita faccentebrutterìa, ma che ad un ascolto più approfondito rivelano una certa originalità financo concettuale. I numerosi contributi di Tragedy Khadafi, ad esempio, contengono svariati riferimenti biblico/religiosi e alla Nation Of Islam che vengono perfettamente integrati in una logica di viulènza senza grandi metafore; si potrebbe addirittura dire che il concetto di "righteous ign'ance" sia nato con War Report. E Noreaga, dal canto suo, oltre a sfoggiare una tecnica abbastanza curiosa per l'epoca riesce a riportare l'atteggiamento da gangsta dalle fantasie stile Goodfellas -molto in auge in quegli anni- alla realtà da strada. Tuttavia, facendo ciò, riesce anche a svuotarla di alcune esagerazioni che talvolta si potevano notare nelle lirihe di Prodigy e dei suoi epigoni; probabilmente non tutto ciò di cui cantano è da prendere alla lettera, ma sicuramente le licenze poetiche sono minori rispetto a quelle prese da altri loro colleghi. Queste visioni decisamente cupe e genuinamente ghettuse vengono ulteriormente evidenziate dai beat, che in buona parte riprendono il suono dei Mobb Deep e lo incrociano con un boombap un po' più grezzo. Così facendo riattualizzano insomma il suono del Queensbridge, slegandolo da Havoc e portandolo come standard per chiunque non facesse parte del sopracitato gruppo: è grazie a questa svolta che i successivi album di gente come gli Screwball o Cormega sono riusciti a mantenere un'identità pur non essendo costretti a plagiare un determinato sound. Traducendo, per tutto War Report c'è un fiorire di loop di piano, archi, sample vocali appena accennati (e anche questa è una novità) e mescolati ad organi effettati come nella miglior tradizione del QB; epperò per quanto riguarda basso e batteria il discorso diverge dagli stilemi del quartiere, propendendo per un suono generalmente più pieno in cui solo talvolta si osa mettere un riverbero al rullante. In tutta questa orgia di sogni proibiti dell'ascoltatore di rap è quindi difficile pescare un solo pezzo capace di dare la paga agli altri: i singoli Illegal Life, Stick You, T.O.N.Y. e L.A. L.A. sono certamente da urlo ma non riescono a far sfigurare creazioni di prim'ordine come la stupenda Halfway Thugs, la classica Blood Money, Iraq o l'ultraruvida Neva Die Alone. Detto altrimenti, insomma, War Report è una serie ininterrotta di pezzi da 90 il cui unico scivolone -francamente scandaloso- è rappresentato dall'inutile e melensa Closer; un patetico tentativo di ammiccare al mainstream, questo, che saggiamente nelle versioni promo del disco era stato sostituito dalla meravigliosa Calm Down e che purtroppo è stata poi esclusa nella versione finale del disco. Ma questa macchia è tutto sommato irrilevante ai fini dell'ascolto; l'album nel suo insieme è un classico e su questo non si discute. I suoi pregi si spingono poi oltre l'avere più di dieci pezzi fenomenali (e scusate se è poco), perchè è grazie ad esso che molti, io per primo, hanno scopero il talento di Tragedy Khadafi nonché la bravura di produttori come Charlemagne o Nashiem Myrick; ed è anche grazie a War Report che molti artisti del Queensbridge hanno potuto trovare e rielaborare un suono forse non innovativo ma senz'altro di effetto e fortemente caratteristico di quel quartiere e di buona parte della seconda metà degli anni '90. Imperdibile -ci vediamo il 14 al Leo, sperando che ci risparmino le loro più recenti porcherie.
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Negli ultimi due-tre anni l'hip hop più o meno ha vissuto un periodo definibile come, per chi ha voglia di inventarsi termini altisonanti ed inutili da Mtv, "Cocoon Generation". Per intenderci, Cocoon era quel film dove dei maroni enormi piovevano dal cielo e facevano rinvigorire dei vecchietti al punto tale che uno di loro ad un punto esclamava tutto contento: "Ho il cazzo così duro che se lo sbatto contro una roccia fa scintille". Cazzi e scintille a parte, torniamo alla flamboyant Cocoon Generation e ricapitoliamo: Masta Ace ha ulteriormente migliorato lo standard affermato su Disposable Arts col bellissimo A Long Hot Summer; Big Daddy Kane sforna singoli sempre più potenti con produzioni di Premier ed Alchemist; i De La Soul han finalmente dato alle stampe un album ben più apprezzabile che i due AOI; Kool G Rap... vabbè, a Kool G Rap diamogli ancora un po' di tempo per un album decente. Sia come sia, "ora" è il turno di EdO.G (veterano di Boston, resosi noto -oddio- agli inizi dei '90 per due album registrati con la sua cricca, Da Bulldogz, e poi mantenutosi attivo nell'underground grazie a collaborazioni con Laster, i Kreators ecc. e certamente fonte d'ispirazione per più di un MC, cfr. Akrobatik). "Ora" tra virgolette, perchè in realtà prima di quest'album Edward Anderson aveva già pubblicato due album (The Truth Hurts, 2001, discreto, e Wishful Thinking, 2003, bello ma forse un po' corto) che, tanto per dirla tutta, non hanno venduto un granchè malgrado lo meritassero ben più di altre produzioni dello stesso sottosuolo. Venendo allo stesso My Own Worst Enemy, la prima cosa che salta all'occhio è quel bel "featuring Pete Rock", che di certo non guasta, sia perchè già lascia sperare in una qualità superiore e poi bloccherà 9th Wonder dal fare qualche remix. Pietro Roccia appare infatti su ben 7 tracce; le restanti tre sono affidate a Diamond D, DJ Supreme One e DJ Revolution. I featuring sono dello stesso Pete Rock, Krumb Snatcha, Diamond D, Masta Ace e Jaysaun (Kreators). Featuring a parte, dico subito che anche in questo disco EdO.G non offre nulla di nuovo rispetto al suo più recente repertorio: un assortimento di pezzi vagamente conscious mischiati ad altri più tipicamente sboroni, il tutto con una tecnica tutto sommato classica -ovviamente- ed un flow sul legnoso andante (non fraintendiamo: non siamo alla filastrocca da Parrish Smith, Edoardo non crede di essere nel '91 e quindi si lascia comunque ascoltare). Un approccio abbastanza sano che fa sì che l'album scorra senza risultare troppo pesante o troppo anonimo. Come parte il primo pezzo, Boston, si capisce che le sonorità di Soul Survivor II sono abbandonate a favore di un approccio più tradizionalista (cosa che personalmente mi fa piacere, SSII infatti non m'aveva fatto impazzire) con batterie belle quadrate, scratch precisi ed un classico pezzone dedicato per metà alla sua città e per metà a quanto è figo lo stesso Edoardo. Stesso discorso per Just Call My Name, con delle trombe campionate in classico stile Pete Rock, ed un bel featuring di Jaysaun che spezza bene le restanti strofe del protagonista (oh, sì, il pezzo parla più o meno dell'hip hop). Quando si arria a Voices, sempre Pete Rock, sempre un bel campione di vocine non pitchate (yeeeeeah!!!) ed un EdO.G un po' più squadrato del solito, ci si chiede: ma verranno mai superati i 90bpm? In effetti, questi primi tre pezzi saranno anche belli, ma non essendo troppo veloci asciugano un po'. School'em, solito Pete Rock in chiave vintage, risolve il problema: scratch iniziale, parte una bella batteria veloce (suoni un po' fiacchi, ma di questo ne parlerò più tardi), ed un Edoardo in forma che castiga diverse attitudini di buona parte degli MC in circolazione oggigiorno. E poi... finalmente... ecco una cagata! Era ora! Streets Is Callin', con una delle produzioni più fiacche che abbia mai sentito da parte di Diamond D (minimaliste, direbbe qualcuno, ma a me un loop di xilofono nemmeno bello, un basso, ed un clap messi così me paiono 'na cagata e basta), è decisamente il pezzo trash dell'assortimento. Non che il ritornello sia una figata, anzi, ma perlomeno le strofe di Jaysaun ed Edo avrebbero meritato un trattamento migliore. Quelle di Diamond... boh... generiche, assolutamente. Gran delusione, urge un remix, perchè anche solo arrivare al terzo minuto d'ascolto è un'impresa. Dopo un necessario pugno tirato al fast forward, si ritorna ad un ottimo standard con Pay The Price, che featura chi? Jaysaun. Anche stavolta non delude nulla: hip hop classico, belle strofe, e discreto testo nuovamente semiconscious che mette in guardia da atteggiamenti vari tipo fare la zoccola o l'ammazzasette. DJ Supreme One produce invece Wishing, pezzo che trasuda soul ed include la preziosa collaborazione di Masta Ace, che si conferma un'ottimo scrittore oltre che l'MC che sappiamo essere. Qui si parla naturalmente delle speranze di miglioramento del mondo, però grazie a dio si evitano le stronzate naiv alla Black Eyed Peas. Bello, molto bello. Taglio corto sui restanti pezzi, sottolineo solo l'ottima prestazione di Krumb Snatcha su Stop Dat, la bella strofa di Pietro Roccia su Right Now! ed il gustosissimo beat di DJ Revolution di Revolution, che chiude ottimamente il disco. Insomma: un disco evidentemente di alto livello sotto ogni punto di vista, che dimostra quanto di buono si possa ancora fare pur restando nell'ambito dell'hip hop tradizionale. Volendo, i difetti ci sono: alle volte EdO.G risulta fin troppo squadrato nel chiudere le rime, il pezzo prodotto da Diamond è un'oggettiva porcheria (anche se a me fa quasi piacere che ci sia, spezza la "monotonia" del disco) e, forse il difetto più grave del tutto, il mastering finale. Se ci si fa caso, le batterie spesso suonano un po', non so, metalliche, cosa che non avevo mai notato in Pete Rock. Deduco che l'unica spiegazione possibile sia qualche casino avvenuto in quella fase di produzione (escludo appunto Pete Rock, così come escludo gli Unique Studios, dove è stata registrata e mixata la maggior parte dei pezzi). Vai a capire. È una gravità molto relativa, comunque, della quale ci si accorge solo se si ha voglia di cercare il pelo nell'uovo.
[A parte un paio d'ingenuità dovute all'età -recensione del 2004, chejjevulitammè- la mia opinione in merito al disco non è cambiata di molto, salvo per quanto riguarda la questione longevità. Questa è decisamente alta, grazie soprattutto al buon lavoro svolto da Pietrino Roccia, e francamente faccio fatica a trovare roba skippabile -tant'è vero che ripassando un po' di musica sul nuovo walkman, non solo ho preso questo Own Worst Enemy ma ne ho pure cassato una sola traccia. E per quel che riguarda Edoardo, col tempo ho imparato ad apprezzarlo di più, al punto che parlare di legnosità adesso mi parrebbe un po' troppo spregiativo. In breve: acquisto obbligato anche se a causa di un pezzo marcio non posso dargli i quattro jollinvicta e mezzo come vorrei].
Quando penso ai Jedi Mind Tricks oramai mi vengono in mente solo due termini: "bravi" e "macchiette", due termini concettualmente così distanti tra loro che penso possano dare un'idea della costante dicotomia che li accompagna fedelmente dai tempi del loro ultimo disco apprezzato dal grande pubblico, il superbo Violent By Design, risalente a quasi nove anni fa. In questo lasso di tempo i nostri eroi hanno avuto il modo sia di creare album discutibili (e mi riferisco più a Legacy Of Blood che a Visions Of Gandhi, per non parlare del recente e squallidotto History Of Violence), sia di crearsi una nicchia di fan fedelissimi per i quali tutto ciò che il duo di Vinnie e Stoupe tocca è oro colato. Le due scuole di pensiero mi vedono indistintamente scettico: diciamo che da un lato ho oramai abbandonato la speranza che riescano a riproporre qualcosa di paragonabile a VBD, eppure dall'altro non li reputo incapaci di saper proporre sorprese com'è stata questo Servants In Heaven, Kings In Hell. Si tratta solo di saper trovare il giusto equilibrio tra il lato più infantilmente grezzo di Vinnie e quello più maturo, così come a fargli da sponda dev'esserci uno Stoupe capace di muoversi agilmente tra sonorità latineggianti ed atmosfere epiche senza pendere troppo da nessuno dei lati. E, per l'appunto, mentre questo equilibrio era venuto a mancare nei due album che lo hanno preceduto così come in quello che lo ha succeduto, in SIHKIH tutti i palati potranno gustare qualcosa del menu offertoci dai Jedi Mind. La prima cosa apprezzabile del pacchetto è l'evidente voglia di Vinnie di spingersi oltre la solita noiosetta tamarrìa mediante alcuni pezzi contenutisticamente più focalizzati e meglio strutturati. In Razorblade Salvation, ad esempio, troviamo abbondanti indicazioni della sua personalità in quanto si tratta di una lettera aperta a sua madre nella quale va a toccare in modo piuttosto profondo l'ipotesi del suicidio (precedentemente accennata in Before The Great Collapse) ed i motivi per i quali, a ben pensarci, non ne vale poi tanto la pena. Analogamente, in Black Winter Day il Nostro ci regala un autoritratto parecchio critico nel quale fa piacere notare un'umiltà di fondo nonchè un certo altruismo del quale finora nemmeno i fan più accaniti avevano visto traccia. Ma non tutto è emo, qui: la critica socioeconomica trova uno sbocco nella buona Shadow Business, in cui va ad esaminare la realtà delle condizioni sociali dei lavoratori del secondo e del terzo mondo; mentre l'eccelsa Uncommon Valor offre all'ascoltatore uno storytelling ambientato nel Vietnam in cui un soldato si chiede -fondamentalmente- i motivi per cui si trovi lì lamentandosi della situazione in generale e della disonestà del governo (qualsiasi riferimento alla situazione odierna è puramente casuale). Per il resto, detto onestamente, Vincenzino ripercorre fedelmente il cammino tracciato fino a quel momento: viulenza, ghettusaggine assortita, riferimenti biblici sparsi e l'occasionale frecciata anticristiana. Tutto ciò sa inevitabilmente di già sentito, ma se preso a piccole dosi funziona ancora bene soprattutto perchè dopo alcune débacle precedenti il Nostro ha ben pensato di riaffinare la sua tecnica e la sua metrica, le quali ora non saranno al livello di un Pharoahe Monch ma almeno qualche intreccio in più lo contengono. Certo, basta conoscere bene le opere dei JMT per indovinare come verrà chiusa la barra ed in che momento farà una pausa, ma questo è un difetto non esclusivamente ascrivibile a Vinnie e pertanto me la sento di relegarlo in secondo piano. Per di più, la definitiva salvezza sul fronte lirico viene anche dagli ospiti: non molti ma ben scelti, e dunque anche quando Ill Bill delude per assoluta mancanza di personalità in Heavy Metal Kings, ci sono comunque altri a fargli degnamente da contrappesi. Primo fra tutti R.A. The Rugged Man, che in Uncommon Valor regala alla storia la miglior strofa in assoluto del 2006 raccontando dell'esperienza del padre come mitragliere di bordo di un elicottero; Chief Kamachi ritorna ospite dei JMT dopo l'esordio su Violent By Design e lo fa nel migliore dei modi possibile, seguito a ruota da Reef The Lost Cauze e dal sempre valido Sean Price. La fortuna dei singoli pezzi, poi, oltre alla variabile "featuring" e la questione dei contenuti interessanti, dipende in larga misura da Stoupe, il quale come sappiamo è capace di creare capolavori così come di produrre merdine concepite col pilota automatico innestato. Per fortuna, in SIHKIH il Nostro si è dato molto da fare e così ecco che già alla prima canzone vera possiamo apprezzare il lungo loop di sitar (o mandolino, sarcazzo) intervallato da singole note di piano reminescenti di Contra, il tutto incoronato da precisi cut di Big Pun, Jay-Z e Prodigy. Uncommon Valor invece si regge pressochè unicamente su batterie relativamente lievi ed un azzeccatissimo campione di coro femminile, di raro gusto e malinconico esattamente quanto quello italiano adoperato per Shadow Business (archi pitchati, suppongo); ma giusto quando qualcuno potrebbe pensare che stavolta Stoupe abbia del tutto abbandonato i campioni orchestrali, ecco che arrivano Heavy Metal Kings, Outlive The War e Gutta Music. La prima non stonerebbe se inserita in un colossal pacchiano con Charlton Heston e certamente non deluderà i fan del suono più roboante del duo di Philadelphia; la seconda invece si colloca a metà tra il barocco ed il folk messicano grazie al bizzarro incrocio tra canto da madrigale e suoni di nacchere, e stranamente funziona molto bene; la terza, infine, è una delle più belle collabo mai messe in atto dai Jedi Mind. Vinnie, Kamachi e Reef danno il loro meglio su un loop di archi spezzato da un sample vocale maschile che, una volta appoggiato sopra a batterie la cui strutturazione viene accantonata a favore della potenza, contribuiscea creare una delle tracce meglio riuscite dell'intero album -oltrechè uuna delle più correttamente intitolate. Valida anche Serenity In Murder, principalmente per l'ottimo break di batteria e l'eccellente linea di basso. Purtroppo non tutto è rose e fiori, e anche stavolta Stoupe cade nel tranello della scialberia: con Suicide ricicla il solito beat propinatoci ormai innumerevoli volte da Visions Of Gandhi in poi; When All Light Dies è in sè e per sè ascoltabile ma non aggiunge nulla di particolarmente significativo alla discografia del gruppo, destino peraltro condiviso dall'insignificante beat di Black Winter Day e da quello altrettanto "meh" di Razorblade Salvation. Stupisce, in un certo senso, come un beatmaker abile come egli effettivamente è non si renda conto di quando non sta facendo altro che riscaldare male la minestra. Nullo contro l'avere uno stile, per carità, ma davvero alcune cose possono essere riproposte e riaggiornate mentre altre è meglio lasciarle stare lì dov'erano (e mi riferisco all'80% dei beat latineggianti di Visions Of Gandhi). Bene, tiriamo le somme: cominciamo col dire che Servants In Heaven Kings In Hell non è di certo il miglior disco dei Jedi Mind Tricks. Non illudetevi, non ha né la varietà ne la qualità d'esecuzione del loro capolavoro: per cui mettetevi l'animo in pace. Però, questo sì, è senz'altro la loro seconda miglior opera; essa distacca di centinaia di spanne qualsiasi altro loro lavoro, a partire dal pessimo History Of Violence per passare al sopravalutato Legacy Of Blood per giungere infine al nemmeno troppo infimo Visions Of Gandhi (il Psycho Social Album lo tengo fuori da questa lista per questioni di età). In ultima analisi, a fronte di certi loro limiti -primo fra tutti un certo barocchismo nel suono, nelle tematiche e nei titoli- SIHKIH è comunque una conferma della loro coerenza artistica (anche se talvolta pare quasi autismo musicale) oltreché un contenitore di alcune perle da ascoltare come dio comanda. Il voto finale sarebbe da tre e mezzo ma, posto che vi piaccia il genere, quattro zainetti opportunamente arrotondati verso l'alto forse se li merita. Fate voi.
Ma solo perchè vorrei dedicare quanto più tempo possibile a creare e finire la grafica del nuovo Encores, il che comporta principalmente una lunga e noiosa ricerca d'immagini nonchè la loro rielaborazione. Dovendo -almeno in teoria- lavorare, stamane ho lasciato a casa il disco della giornata.
Volendo sempre restare nell'ambito degli MC/produttori di talento, colgo l'occasione mattutina di un viaggio in metrò un po' da hipster (mi fa riflettere in tal senso quanto scritto da Ugoka al punto 3, QUI) per tirar fuori un disco comprato abbastanza svogliatamente ma che col tempo s'è guadagnato i miei favori personali: Watts Happening di Ohmega Watts. Oltre poi ad essere un buon album -ve lo dico subito così se volete vi potete risparmiare la lettura del resto- è anche abbastanza utile per evidenziare una delle tante storture che stanno contribuendo ad affossare definitivamente la creatività nel rap e la conoscenza del hip hop nelle sue molteplici ed ignorate sfumature. Oggi come oggi è difatti facilissimo leggere recensioni cartacee in cui l'autore del pezzo si spertica in infinite lodi a Jay-Z, Kanye o *inserire nome di artista mainstream rispettabile* per sostenere che sono loro le vere alternative al ringtone rap di cui Soulja Boy è l'indiscusso alfiere. E fin qui uno potrebbe anche essere d'accordo, ma se ci fate caso i nomi che girano sono sempre quei tre o quattro, quasi che non esistesse un'intero mondo che de facto è antitetico allo stile del dirrrty south più pacco; in concreto, se io mai dovessi recensire un ipotetico album di *nome di artista mainstream rispettabile* direi sì che all'interno di quella branca è uno dei mejo, ma altrettanto farei notare ad ogni pie' sospinto che comunque di gente avente lo stesso approccio ce n'è diversa ed è anche relativamente facile da rintracciare. Vedete, se le riviste che si occupano di rap sono al 99% illeggibili (per chiunque suberi il Q.I. di una carota, voglio dire) è perchè non forniscono alcuno spunto per il lettore mediamente ignorante; non danno suggerimenti, non tracciano parallelismi, non si allontanano dall'oggetto dell'articolo se non in modi superficiali e prevedibili e, in breve, fomentano attivamente l'ignavia del lettore medio. E la ciliegina sulla torta -mi riferisco ora solo all'Italia- è poi quando vai in giro e magari ti capita di parlare con qualcuno di Superfly, naturalmente solo per sentirti dire che sono dei menosi, dei snobbettoni e chi più ne ha più ne metta: immagino che la loro colpa sia unicamente quella di estendere il discorso un po' oltre il margine del prevedibile (Basement) o della fuffa (Groove) in un modo tale per cui che anche chi da anni segue attivamente questa musica e le sue derivazioni dirette ed indirette si scopra sempre più ignorante di quanto non credesse. Siamo alla quadratura del cerchio: non solo alcuni dei storicamente più attivi promotori di cacate -ma qui il discorso è internazionale- sono riusciti a far scordare ai lettori cosa sia una linea editoriale ed avere dei gusti, ma per giunta gli hanno fatto venire una sorta di sindrome di Stoccolma per cui questi ultimi la merda se la mangiano, e pure di gusto! Ma forse sto predicando ai convertiti. Concretamente, il punto qui è un altro, e cioè che se siete degli estimatori -vuoi anche solo occasionali- di un certo tipo di rap che ama fare ampie incursioni nei stili musicali che lo hanno generato, allora Watts Happening non mancherà di darvi soddisfazioni. In poco meno di un'ora e dieci l'MC e produttore di Brooklyn riesce a condensare quintalate di jazz, funk, afrobeat e soul in 18 tracce che, pur con risultati alterni e lasciando tracce di schizofrenia creativa, provvederanno a fornire all'ascoltatore una pletora di suoni di innegabile varietà. Una varietà che però non andrà ad intaccare l'anima hip hop fortemente radicata nell'old school e nell'esigenza di presentarsi così come si è, nella fattispecie delle persone relativamente normali a cui molti possono correlarsi pur non essendo frutto del medesimo humus culturale. L'attacco di Watts Happening è in realtà abbastanza tradizionale, nel senso che si tratta di un omaggio all'old school come potrebbero farlo i Jurassic 5 degli esordi. Non a caso stufa in fretta malgrado la buona realizzazione, mentre la successiva Triple Double è una concettualmente altrettanto strasentita all'hip hop, ma qui il lavoro di produzione è fantastico: mescolando bassi e campione effettato à la Kev Brown (o DJ Spinna), più fiati del migliore Pete Rock e cut da Premier classico, Watts partorisce una signor canzone che incenerisce qualsiasi dubbio sulle sue capacità di beatmaker. E procedendo nell'ascolto con No Delay, che mescola sapientemente campione e synth leggeri come lo potrebbe fare un Madlib meno in trip del solito, la voglia di alzarsi ed applaudire le sue capacità alle macchine diventa irresistibile. Evidentemente conscio di ciò, il Nostro regala ulteriori encomiabili prestazioni al campionatore, tutte verificabili tramite l'ascolto di pezzi come Model Citizen, Roc The Bells e Memory Lane. Ma non è tutto qui: se in queste canzoni Watts mescola ingredienti rielaborando e perfezionando a sua misura ricette comunque già note, egli si lascia andare in più d'una occasione a composizioni pensate solo per l'ospite di turno: che sia la cantante Tita Lima, per cui confeziona un incrocio tra samba e breakbeat classico, o che si tratti di Barry Hampton, dove l'impronta funk e soul si fa più pesante, egli si ritira dietro a tastiere e campionatori e lascia che siano le sue composizioni a parlare per lui. E sì che lui di cose da dire ne ha: non l'MC più tecnico che vi sia in circolazione né quello dotato di maggior carisma, il Nostro si dimostra comunque un abile scrittore capace di affrontare argomenti che vanno dal classico (dedica a 'aggente che je vo'bbene, l'amore per il reps, i bei vecchi tempi e bla bla) allo strettamente personale: la denuncia di quanto certi messaggi veicolati dall'industria dell'intrattenimento rincoglioniscano i nostri virgulti, il suo rapporto con dio (il fatto che stia in ballotta con Braille non è un caso) e la sua relazione con una ben determinata rappresentante del gentil sesso. Ecco: tra queste tematiche ed i pezzi più leggeri, Watts -pur non essendo un affabulatore- riesce ad intrattenere discretamente l'ascoltatore e pur non risaltando come personalità esplosiva (non è questo il senso, poi, o sbaglio?) complementa più che egregiamente le atmosfere musicali. Il problema del disco è però che la sua varietà viene talvolta portata agli estremi, nel senso che c'è più di una traccia che in sè è magari degnissima ma che in quel punto della tracklist disturba, spezza l'ascolto. Io sono convinto del fatto che Ohmega Watts sia un appassionato conoscitore della musica che egli utilizza, ma questo non significa che debba scaricare tutto il suo bagaglio creativo in una volta sola. E' come se io mi presentassi a uno dicendogli il mio nome, dicendogli che di lavoro faccio il grafico, dicendogli che preferisco la saggistica alla narrativa e che, oh certo come scordarsene!, nel '99 beccai una a cui zaffava violentemente la brögna (true story!)... l'idea che questo si farebbe di me sarebbe completa, sì, ma anche molto confusa. Inoltre ci sono certe idee che, per quanto realizzate più che dignitosamente, risultano ridondanti ed un po' deludenti se rapportate ai momenti migliori di Watts Happening: What's It Worth ne fa parte a pieno titolo, ma anche le dediche di vario genere funzionano solo fintanto che si concentra prettamente sull'ambito musicale. Ambito musicale che quindi, inutile negarlo, fa la parte del leone in questo album e che difatti viene ulteriormente valutato dagli stessi produttori del disco mediante l'inclusione di un CD con le strumentali -scelta che ho molto apprezzato, detto tra parentesi. Ripeto: no, il problema non sono le singole tracce, che anzi hanno un bel suono vivo e curato, quanto il loro assemblamento apparentemente schizoide. E questo è secondo me abbastanza grave nel momento in cui abbiamo tra le mani un disco che guadagna in fruizione tanto più attentamente si ascolta; peccato che pur provandoci, alle volte la voglia di skippare è troppo grande perchè, in effetti, ti chiedi che straminchia c'azzecchi la salsa tra due pezzi classici. In conclusione, Watts Happening presenta dei difetti di montaggio che mi rendono impossibile applaudirlo come altri invece hanno ritenuto di fare. Tuttavia, gli concedo il beneficio del dubbio (leggi: magari sono io che so' strano) e pertanto consiglio comunque di ascoltarlo, vuoi anche solo per quei cinque gran bei pezzi che esso contiene.
Voglio cominciare questa recensione con una breve e, volendo, anche banalotta riflessione sulla differenza che passa tra l'acquisto di dischi oggi e prima dell'avvento di internet. Infatti, benchè io reputi comodissimo Amazon e soprattutto ne sappia valutare l'importanza per quanto riguarda certi album esclusi dai circuiti commerciali ai quali s'appoggiano Vibra (o Goody Music, per dire), quando posso preferisco comunque recarmi di persona in negozio. Questo perchè, da romanticone decadente quale talvolta sono, mi piace dare la possibilità di associare un dato momento della mia vita alla musica; non a caso, posso facilmente ricordarmi di dove e quando acquistai la maggior parte dei CD che fanno parte della mia collezione. Esempio: so che Jealous One's Envy e Once Upon A Time In America li comprai insieme in un giorno di giugno del '96 durante il quale venne giù un acquazzone da tirare porchiddèi senza sosta; Mr. Smith lo presi all'ormai defunto Virgin di piazza Duomo (come molti altri, incluso The Awakening di Finesse), i Real live al WOM di Berlino centro, Stakes Is High ed il primo Sadat X a Monaco, War Report alla Tower Records di Piccadilly Circus eccetera eccetera. Nel 2000, invece, mi imbarcai con due miei amici nell'immancabile interrail e, durante l'altrettanto obbligatoria sosta ad Amsterdam (ebbene sì, sono un luogo comune ambulante), non solo feci visita alla Fat Beats locale (come da indirizzo scansito dall'agendina che tutt'oggi porto nel portafogli) ma trovai per puro colpo di culo in un negozietto questo Diabolique, del quale avevo sentito parlare in precedenza in una recensione apparsa su Blaze. 44,95 fiorini olandesi -un casino coi cambi- e via; purtroppo queste mie spesucce mi costrinsero ad accorciare la vacanza e vabbè, ma intanto a distanza di quasi dieci anni posso dire di conservare un tot di ricordi anche grazie ai souvenir reperiti nei paesi bassi. Bene: tutto questo per dire cosa? Assolutamente niente, è solo che ogni tanto mi piace piazzare du' palle autobiografiche, così, tanto per soddifare il mio ego. Ma ora arriviamo finalmente al succo del discorso: il secondo album da solista di Godfather Don, Diabolique. Questo arrivò nei negozi nel '98, durante una fase cruciale per il futuro del rap, in cui il mainstream non era più solo definibile come tale per via del successo commerciale, ma per via del suono: vale a dire che mentre fino a pochi anni prima -tolte alcune eccezioni irrilevanti ai fini della regola- era possibile che un album riscuotesse un buon successo ma ciò non significava automaticamente che esso si distinguesse particolarmente da altre produzioni meno fortunate (pensate anche solo a Tical, disco di platino nel '95). Nel '98, invece, il divario nel sound tra i dischi di successo e quelli relegati al secondo e terzo piano andava vieppiù allargandosi e conseguentemente gli alfieri delle due squadre consolidavano le loro rispettive identità in maniera sempre più forte ed urlata. Godfather Don esce in parte da questa logica, in quanto bene o male non si lascia andare a particolari dichiarazioni d'intenti, favorendo piuttosto l'autoesaltazione più classica e tradizionale. Questo è poi sostanzialmente il limite di Diabolique, e cioè che salvo gli addetti ai lavori dubito che qualcuno potrà trovarlo di particolare interesse se non per questioni puramente tecniche. Ma essendo ciò in fondo uno dei fondamenti dell'hip hop, di cosa ci possiamo lamentare? Per citare Phonte: "Dope beats, dope rhymes... what more do ya'll want?" E difatti questo è l'approccio che ha Godfather Don per tutto il disco, sia per quel che riguarda le liriche che per ciò che concerne i beat, da lui interamente prodotti e mixati. Questi ultimi sono senz'altro la parte più interessante del disco, dato che il suo gusto è decisamente particolare sia nella scelta dei campioni che nel modo di adoperarli. Sintetizzando, si tratta di brevi loop sulle cui origine è difficile per me pronunciarmi anche con l'ausilio di the-breaks.com: si tratta sicuramente perlopiù di funk e fusion con qualche incursione nel soul e nel jazz classico, ma visti i suoni che egli decide di estrarre è francamento ardua per un profano come il sottoscritto intuire cosa si celi dietro (beh, Dip Dip Die credo che adoperi lo stesso campione di 10 Sacchi Per Ogni Smi, se vi può interessare). Le atmosfere che ne risultano sono comunque particolari e -passatemi il termine, vi prego- urbane; perchè è vero che di allegro non vi sia pressoché nulla, ma è altrettanto vero che non si può paragonare Diabolique a The Infamous: innanzitutto perchè il tiro è generalmente più veloce, e poi perchè la brevità dei sample, il tagliarli più volte per chiudere la misura ed il modo di effettarli si avvicina quasi di più all'elettronica. Che si tratti di pianoforte, archi, fiati o chitarra, Godfather smanetta di pitch ed equalizzatore fino a quando è talvolta difficile riconoscere l'esatta natura di un suono (cfr. Diabolique, Pick Up The Mic, Burn RMX e altre). Tutto ciò comunque si traduce -essendo lui uno capace- in un'estrema godibilità ed omogeneità del disco: il materiale skippabile è veramente pochissimo e, fatta salva Make'Em Suffer (davvero una cacata a spruzzo), ciò dipende perlopiù da gusti personali che non da questioni di qualità intrinseca. Ma gusti o non gusti, dubito che qualcuno non potrà apprezzare alcune tracce che si fanno notare per potenza: prima fra tutte la stranota Properties Of Steel, ma poi anche Connections (ed il suo campione a metà tra David Axelrod e Gary Byrd), la cupa Connections e le ottime collabo con Scaramanga e Mike L (Life Ain't The Same e No Competition) e Kool Keith (Voices). Il successo di queste poi dipende anche da come esse riescono a "funzionare" se messe insieme all'emceeing. Fa piacere scoprire che Don deve avere ben chiare le sue capacità, perchè confeziona beat che calzano a pennello con il suo stile a metà tra Big Daddy Kane -velocità ed intrecci di rime- e Kool Keith -libera associazione del pensiero. Una buona sintesi di quello che il Nostro sa fare è rappresentato da Live & Let Die, in cui si può capire che a fronte di una piattezza vocale totale abbiamo di fronte un intreccio di rime relativamente semplice ma di grande impatto, essendo l'esecuzione veloce, pulita e, soprattutto, piena. Un esempio: "You wish you was half the lyricist that I persist to be/ Don't say shit to me, Godfather like Sicily/ The misery's consistency through similees will blemish these abnormalities in the industry". In quest'ottica è naturale che i pochi ospiti invitati gli siano artisticamente vicini: non solo Kool Keith, che fa la sua porca figura in Voices, ma anche tale Mike L (non eccezionale ma valido) e Sir Menelik alias Scaramanga, il quale in Life Ain't the Same caccia la strofa migliore del disco ed in generale regala una prestazione da lasciare a bocca aperta tutt'oggi. Come già detto prima, non sono i contenuti -che quando ci sono rientrano nei cliché del genere- a contare quanto la pura esecuzione tecnica, e da questo punto di vista non posso dire che Don sia la miglior cosa che mi sia mai capitata di sentire. Però il pregio del suo stile è di correre assieme alla traccia, risultando dunque quasi d'accompagnamento, ed in quest'ottica si può facilmente sorvolare su alcune sue manchevolezze (una su tutte: la pronuncia zoppicante nelle parti più tirate delle strofe). In conclusione, Diabolique è pesantemente soggetto -molto più di altri dischi- ai gusti dell'ascoltatore. Il punto fermo è che come produttore è inngabilmente capace (sai che scoperta), un po' meno come MC; ma anche a distanza di undici anni dall'uscita originale, per godere appieno di questo prodotto si deve necessariamente essere aficionados del rap più essenziale e, dico sul serio, hardcore. Posto che si rientri quindi in questa categoria, allora non si corrono rischi. In caso contrario, meglio rivolgersi altrove.
[N.B. Scusate se la scansione fa cacare, ma essendo il digipack stampato perlopiù in lamina argentata esso riflette la luce dello scanner. Ad ogni modo il packaging è potente, credete a me, QUI si capisce meglio]
Per un tradizionalista come me è generalmente difficile accettare grosse sterzate stilistiche da parte di artisti che apprezzo, e questo è specialmente vero nel caso del rap, dove spesso e volentieri un cambio di rotta va a tradursi o in un semplice e talvolta fallimentare ammiccamento alle tendenze del momento, o in una ciofeca pura e semplice. In altre parole, è estremamente raro che qualcuno riesca semplicemente ad evolversi ed al contempo progredire come invece tranquillamente accade in altri generi (cfr. QUI e QUI) e perciò tendo in genere ad avere forti pregiudizi quando leggo di "nuove visioni" o "nuove sonorità" da parte di un artista; il rovescio della medaglia è però abbastanza pesante e si riassume in manierismi di vario genere che possono anche andarmi bene la maggior parte delle volte, ma che di certo non possono essere l'unico piatto di una dieta musicale. E qui entra in gioco Tronic. Vi confesso che proprio a causa dei timori di cui sopra non mi sono tuffato a comprarlo a scatola chiusa, favorendone piuttosto il download ed una serie di ascolti preventivi; inizialmente non mi piaceva -lo trovavo un po' plasticoso e raffazzonato (pensa te!)- ma durante le vacanze di natale ho finalmente potuto godere della tranquillità necessaria per potergli prestare maggiore attenzione e per poterne assimilare perbenino le sfumature, giungendo infine alla conclusione che questo non solo è un disco eccellente ma è anche il migliore dell'anno appena conclusosi. Vedete, di evoluzioni e progressi in senso positivo ce ne sono: prendete Hell's Winter di Cage e Piece Of Strange dei Cunninlynguists. La differenza tra questi e Tronic, però, è che Black Milk né compie un'inversione a 180°, né perfeziona il suo stile: grossomodo fa ambedue le cose, andando a pescare campioni da sonorità ben diverse rispetto persino al recente lavoro compiuto per The Preface, limando contestualmente suoni e programmazione delle batterie. Aggiungiamoci che vi inserisce l'utilizzo di strumenti suonati live e che il suo emceeing compie un bel balzo in avanti e, voilà, ecco uno dei pochi casi in cui qualcuno riesce ancora a stupirmi. E allora, visto lo sforzo da lui compiuto, provo ad imitarlo cominciando la recensione dalla fine: volete sapere qual è l'unico vero neo che sono stato capace di trovare in Tronic? La scaletta delle ultime tre tracce, che sono messe in modo tale per cui prima trovate una strumentale (Tronic Summer), poi un pezzo pressoché di solo cantato (Bond 4 Life), ed infine un'outro anch'essa strumentale. Vorrei far notare però che, per quanto io detesti i cantati in generale, reputo altresì che la qualità dei suddetti pezzi è del tutto all'altezza del resto di Tronic; il problema è semmai che essi, infilati in questa sequenza, rendono l'ultimo quinto del disco skippabile già dal terzo ascolto o quantomeno ne rallentano enormemente il ritmo che, per il resto, è molto equilibrato, come si può notare man mano che si "insiste" nel far girare l'album nel proprio stereo. L'apertura è dedicata, con una certa logica, alla propria carriera: in Long Story Short Milk decide difatti di fare un riassunto della propria carriera fino a quel momento, e le lodi che da solo si tesse vengono immediatamente ed automaticamente confermate da ciò che si sente. Innanzitutto la sua scrittura è evidentemente migliorata, dato che riesce a conferire una linearità, una chiarezza ed una capacità di coinvolgimento alla sua autobiografia francamente degna di lode; non parliamo poi della sua tecnica che, per quanto magari inferiore ad altri suoi colleghi (Oh No, per esempio, lo trovo più capace), ora non risulta più al traino del beat ma riesce a starci degnamente su. Non lo domina come potrebbero fare altri -vedi più avanti Pharoahe Monch- ma nemmeno lo intralcia, e questo è indubbiamente un pregio. E poi, beh, non scordiamoci che il Nostro nasce come produttore: Long Story Short è una ottima entrée che consente alle nostre orecchie da un lato di riconoscere al volo le sue eccellenti batterie (la cassa suona un po' sporca o lo-fi, come direbbero alcuni, in contrasto con il rullante dal suono adamantino), e dall'altro preannuncia una svolta che già fa capolino nell'incrocio tra l'epicheggiante melodia del Moog ed il suono di un flicorno, affidato per l'occasione al crooner e partner di lunga data Dwele. Svolta, questa, che diventa ancor più evidente nella successiva Bounce: se l'originalissimo titolo dovrebbe far capire che i contenuti ne saranno all'altezza (alias: zero), sappiate però che qui comincia un regno di synth che fortunatamente ben poco a spartire con alcuni dei più esecrabili esperimenti svolti in tal senso. Innanzitutto perchè vengono effettati in modo tale per cui non risultano così orrendamente plasticosi come altrove, e soprattutto perchè più tipi di essi vengono sovrapposti in brevi loop e crescendi di melodia quasi che fossero campioni tagliati; e poi, soprattutto, perchè al contrario di tanta robaccia dirrrty south qui le batterie giocano un ruolo fondamentale e se ne possono apprezzare le varie componenti, dagli schiocchi di dita alle interruzioni per giungere, nuovamente, al modo di equalizzarle caratteristico di Milk. E questo suo talento di fonico e batterista -spero che dopo l'utilizzo del termine non passi di qui qualche metalluso inviperito- raggiunge uno zenith con il singolo Give The Drummer Sum. Inizialmente, e molto più dell'epigone Sound The Alarm, essa lascia un po' spiazzati per la sua apparente scarnitura e per l'utilizzo nel ritornello di una vocina cazzuta alla Quasimoto; in seguito, però, si cominciano ad apprezzarne tutte le sfumature ed in particolar modo i fiati (tromba, trombone e clarinetto) che entrano nel ritornello per evidenziarlo e "regolare" l'intera composizione. L'emceeing a questo punto inevitabilmente si sposta in secondo piano, e forse nemmeno è così necessario -al contrario della più rilassata Without U, in cui un beat ben più regolare consente a Milk di mostrare il suo dito medio all'intera categoria di hater, leccapiedi e zoccole varie che a suo dire lo importunano ogni singolo giorno della sua vita. E se con Hold It Down pare di tornare ad un suono più smaccatamente elettronico, Losing Out ci fa tornare ad un certo tipo di campionare vocine pitchatissime che, in tutta onestà, comincio a non sopportare più. Se non fosse per un'eccellente prestazione di Royce The 5'9'' reputerei questa come la canzone tecnicamente meno riuscita in tutto Tronic, e pertanto posso solo essere contento che il piglio futurista (ovviamente non in senso di movimento artistico) torni a far capolino con l'eccellente Hell Yeah. Di primo acchito un semplice ammasso di suoni, essa è in realtà un'ottima sintesi di come il Nostro riesca a tirar fuori dalla sua strumentazione delle atmosfere che non si spingono esclusivamente nell'area del bounce: difatti questa potrebbe provenire dalla colonna sonora di qualche film di fantascienza a sfondo distopico, dato che la sua angosciante melodia e l'incessante accompagnamento di batteria non stonerebbero in un eventuale remake di Blade Runner. Lo stesso giudizio si potrebbe esprimere per The Matrix, e non solo per via del titolo: nemmeno essa si fa notare per un'allegria delle atmosfere e, per quanto più regolare e "calma" i suoi synth paiono un incrocio stilistico tra Vangelis e Giorgio Moroder. Aggiungiamoci poi che al microfono Milk viene accompagnato da Sean Price e Pharoahe Monch con due gran belle strofe, che il ritornello è affidato al taglia e cuci di Premier, ed ecco che un altro bel pezzone (seppur onestamente inferiore alla somma delle parti) va ad aggiungersi alla lista. Ultima curiosità: tralasciando le ultime tre tracce, fa sorridere il fatto che l'unico pezzo in cui il Nostro campiona del soul (Try) presenti perfino delle sue SCUSE per averlo fatto; decisamente delle scuse non necessarie, visto l'eccellente lavoro svolto coi suoi bravi Rhode, Moog e chi più ne ha più ne metta. E allora, riassumendo, mi preme sottolineare un po' di cose. La prima è che Tronic è superiore al pur validissmo Popular Demand per almeno due motivi: dimostra una maturazione sia nell'emceeing che nella capacità di beatmaker. La seconda cosa riguarda invece Black Milk come artista, che con Tronic progredisce notevolmente ed appunto comincia ad uscire dall'ombra di Dilla che in molti -per me esagerando- vedevano sopra la sua testa. La terza è che il suono di Detroit, di per sè già molto particolare e a parer mio originale negli intenti come nei risultati, grazie a quest'album trova un nuovo spiraglio di evoluzione. E scusate se è poco. Un acquisto obbligatorio, dunque e, date retta: tronic va assimilato con la dovuta attenzione e la dovuta calma perché, come in molti casi di dischi storici, i suoi pregi si fanno notare con un effetto valanga il cui principale vantaggio è poi di conferire una notevole longevità al prodotto nel suo insieme. Peccato solo non poter ibridare il valore lirico di Preface con i suoni di Tronic, perchè non ho remore a dire che quello sarebbe un classico istantaneo. Così com'è preferisco non sbilanciarmi e darlo a 4 e 1/2, ma sappiate che se proprio doveste scegliere tra i due, io vi consiglio il lavoro di Black Milk.
Siccome ieri qualcuno nei commenti aveva manifestato una certa soddisfazione nel mio recente riprendere in mano i "classici" (inteso, immagino, più in termini di memoria che di qualità vera e propria), oggi decido di chiudere questa breve parentesi con un bel pezzo da novanta: l'esordio di AZ. A questo punto è pero obbligatoria una riflessione: all'epoca in cui Doe Or Die uscì, ben pochi lo considerarono un futuro classico; anzi, la delusione provata rispetto alle aspettative -generate ovviamente dalla sua storica strofa su Life's A Bitch- fu tale che in molti lo bollarono come sòla malgrado la presenza di un paio di tracce davvero niente male; del resto, non ho timore ad ammettere che io rientro tra quelle persone, eppure devo anche inchinarmi di fronte al fatto che negli anni Doe Or Die mi pare essere invecchiato come il vino quantomeno per quel che riguarda l'ascoltabilità del lavoro nel suo complesso. Ciò dipende forse dal fatto che negli anni le mie orecchie si sono addolcite e che i beat di gente come Buckwild e Pete Rock, che all'epoca reputavo troppo leggeri e melensi, oggi appaiono del tutto normali ed in fin dei conti coerenti sia con lo stile che con i contenuti di AZ. Ma forse sto correndo. Sta di fatto che l'album si apre davvero molto bene con la breve Uncut Raw, che di fronte ad un beat costituito pressoché unicamente da basso e batteria vede Anthony Cruz destreggiarsi con insolita aggressività tra i colpi di rullante e far sfoggio della sua tecnica assai reminescente del classico trio Rakim/G Rap/Kane. Il campione di scorrimento del carrello di armi non è in sè una genialata -Throw Your Gunz docet- ma è certamente il benvenuto in quanto non fa altro che evidenziare ulteriormente la ruvidità dell'insieme. Bene, promossa con lode. Seguono poi Gimme Yours e Ho Happy Jackie, prodotte rispettivamente da Pete Rock e Buckwild, le quali fanno sterzare l'album in quella zona ghettobling che presto sarebbe degenerata in autentici mostri; infatti, per l'epoca e per lo stile dei sopranominati beatmaker queste due basi sono curiosamente melodiche e leggere, specie la seconda. Tuttavia, al di la dell'impressione che AZ abbia loro detto "famolo strano", non posso negare che l'alchimia tra Anthony e Pete funzioni meravigliosamente e che la produzione di Buck sia tutto sommato dignitosa e perlomeno funzionale alla tematica esplorata dal nostro. Decisamente meglio, però, la successiva Rather Unique; qui finalmente si vede riaffiorare il taglio tipico del Pete Rock di quegli anni, sia per via della scelta e del taglio del campione che per le batterie -e, del resto, la giustapposizione tra un suono "pesante" e lo stile compassato di AZ conferisce maggiore interesse alla canzone. Cosa che peraltro viene riconfermata dalla successiva We Can't Win (dove una strofa resta inspiegabilmente senza paternità) ma soprattutto dall'apparente tranquilla Mo' Money Mo' Murder, autentica perla di D/R Period, costruita interamente attorno ad un lento loop di archi dotata di basso batteria giusto per sottolineare il ritmo naturale imposto dal campione. Sarà per questo, o forse per la presenza di Nas, ma sta di fatto che negli anni è stato questo il pezzo ad imprimersi indelebilmente nella memoria collettiva, con buona pace dei tentativi sparsi di AZ di creare tracce commerciabili e facilmente memorabizzabili. Difatti -guardacaso- sono proprio le cose più smaccatamente radio-friendly ad abbassare la media dell'album: Sugarhill, dal punto di vista della produzione, non è altro che una Life's A Bitch 2.0 (anzi, visto che è meno bella direi una 0.6) e nemmeno il remix, nonostante il noto campione dei Stylistics così meglio utilizzato altrove, riesce a risollevarla dalla mediocrità e lo stesso dicasi per la noiosa e melensa Feel For You. Più interessante e con risultati meno drammatici è invece Doe Or Die, che grazie al beat dello houstoniano N.O. Joe rappresenta a suo modo uno dei primi incroci tra New York e Dirty South; tuttavia, l'esito finale non si può minimamente paragonare al successo raggiunto da altre composizioni e pertanto sarei propenso a relegare anche questo pezzo nel dimenticatoio (tanto più che a seguirla e rimarcare le differenze c'è la bella Your World Don't Stop). Insomma, a conti fatti i beat non sono malaccio. Certo, manca il colpo di genio o il cosiddetto "pezzone" che dir si voglia, ma i candidati ci sono eccome: Mo' Money Mo' Murder, Rather Unique o Gimme Yours sono decisamente buone canzoni che, pur non potendo competere nello stesso girone di una qualsiasi Shook Ones, è comunque difficile non apprezzare. Inoltre, secondo me l'assenza di una traccia storica è anche dovuta al fatto che per quanto AZ si dimostri un MC più che capace, non riesce ad imprimersi nella memoria. Come mai? Un po' perchè la sua tecnica, per quanto indubbiamente affinata e precisa, non sa certo di nuovo; ma soprattutto perchè non è capace di scrivere né strofe dal grande contenuto (sono fico, ricco, bravo, tutte troie a parte la mamma ecc.), né -e questo pesa- singole frasi che fanno da marchio di un artista. Pensate, che so, a Shook Ones: a parte il beat, sono frasi come "I got you stuck off the realness" o "For every rhyme I write it's 25 to life" a sparare nell'immortalità la canzone; e lo stesso dicasi per qualsiasi traccia che noi oggi reputiamo storica, sia che si parli dei Run DMC che di Jay-Z. Tuttavia, queste lacune sono di gravità relativa. A distanza di quattordici anni me la sento di affermare che all'epoca Doe Or Die venne complessivamente stroncato più sulla base di eccessive aspettative che di qualità sic et simpliciter. La media delle canzoni è decisamente buona e per quanto suoni un po' datato -in particolar modo, ripeto, nei club banger dell'epoca- resta un ascolto ben più che semplicemente gradevole.
[Prima di spendere qualsiasi parola su questo disco, lasciatemi andare ad un seghino di autocompiacimento dovuto al fatto che stamane, malgrado il solito guasto sulla linea 2, grazie alla mia superba conoscenza dei mezzi di trasporto sono riuscito ad andare da Garibaldi a Cadorna in soli venti minuti. Garibaldi-Lanza a piedi, Lanza-Cairoli col 7 e poi Cairoli-Cadorna con la rossa: nessuno avrebbe saputo fare di meglio.]
Se avete letto la mia precedente recensione avrete notato il mio accenno alla filosofia del backpacker duro e puro, così ben sintetizzata da O.C. e così legata al 1994 tutto grazie alle uscite di Word Life, per l'appunto, così come di Resurrection, The Sun Rises In The East, Main Ingredient e chi più ne ha più ne metta. Tra gli esclusi di questa lista, però, figurano due "underdogs" già all'epoca ritenuti materiale strettamente per appassionati: gli Artifacts. El Da Sensei e Tame One, oriundi di Newark, diedero alle stampe il loro disco d'esordio proprio in quel fortunato anno e, grazie all'ode al writing Wrong Side Of The Tracks (una delle migliori in assoluto, secondo me), fecero breccia nei cuori dei bibbòi di mezzo mondo. Ma si può dire che entrarono nella storia? Forse no, ma di sicuro c'è che il loro esordio è forse uno degli ultimi genuini tributi de facto all'hip hop ed alle sue cosiddette quattro discipline -senza naturalmente scordare la stritlàif, che però qui viene solo accennata e di certo più come una sorta di condanna che non un mezzo tramite il quale farsi belli. In ogni caso, a far da sfondo alle evoluzioni liriche del duo (a dire il vero più di Tame One, dato che all'epoca El era legnosetto anzichenò) ci sono le basi di due giganti del beatmaking: Buckwild da un lato e l'ora semidimenticato T-Ray dall'altro. Il primo si fa subito notare con il singolo C'mon Wit Da Git Down ed il relativo remix, campionando nel primo caso la stupenda Ripped Open By Metal Explosions e nel secondo l'immarcescibile Holy Thursday; ma la parte del leone la fa T-Ray che, già alla terza traccia, regala al pubblico una delle linee di basso più memorabili che la storia ricordi (Bubble Gum, per chi dovesse essere interessato) oltreché una fusione tra strofa e ritornello del tutto perfetta e che in tal modo partorisce materiale che all'epoca veniva salutato come purissima jeep music e che ora resta una ficata puntebbasta. Più avanti, Buck cerca di rispondere con Attack Of New Jeruzalem e What Goes On, ma purtroppo anche quest'ultima, la più riuscita delle due, deve cedere il passo a quanto concepito da Ray (complice il fatto che lo stesso campione era stato utilizzato -meglio- da Large Pro per Halftime di Nas). E per quanto ciò sembri strano oggigiorno, è proprio quest'ultimo che, lavorando di taglia e cuci, butta fuori una serie impressionante di beat i quali, pur rielaborando ad libitum la combinazione bassopesante+batteriasostenuta+brevesample e risultando saltuariamente monotoni, riescono a fornire un suono omogeneo e virtualmente ideali per Tame ed El. Pur non trovando tracce all'altezza di Wrong Side Of The Tracks, anche oggi è difficile sorvolare sulla potenza di una Heavy Ammunition o di una Dynamite Soul: estremamente ruvide nei suoni, queste non concedono pressochè nulla alla melodia (almeno in apparenza) preferendo limitarsi a fornire un ritmo regolare ed innegabilmente incisivo in modo tale da lasciar spazio agli MC ed alle loro liriche. Le quali liriche sono come minimo perfette per questo tipo di sound: analogamente ad alcuni loro illustri predecessori (Run-DMC, Das EFX e De La Soul su tutti), Tame ed El giocano molto di sponda, scambiandosi spesso il microfono e riuscendo così a fornire una varietà sonora che altrimenti risulterebbe un po' latente. In più, ciò che manca loro come diversità vocale ,(Tame, tra l'altro, ricorda un po' Grand Puba) lo compensano con la metrica: piuttosto fluida, complessa e tendente a bei incroci A-B-B-A quella di Tame, un po' più semplice quella di El ma pur sempre sopra la media e dunque nient'affatto d'intralcio al piacere d'ascolto nel suo complesso (il che è un bene in sé, certo, ma diventa ancor più importante nel momento in cui gli ospiti si contano sulle dita di una mano). Le tematiche, come accennato precedentemente, sono perlopiù strettamente orientate verso l'hip hop ed i suoi derivati: da qui la dichiarazione d'amore verso il writing così come l'ode alla marijuana e le relative speranze di legalizzazione (quando ancora farle non aveva rotto i coglioni, mind you), ma anche la promozione della propria città, l'amore verso il rap (Whayback è uno degli Amarcord più riusciti del genere) e l'autoesaltazione più classica. In tal senso non si può certo dire che concettualmente ci troviamo di fronte a chissà che -anzi, chiunque non condivida la loro passione almeno al 90% troverà Hard Place una mattonata d'album- però bisogna ammettere che non solo la realizzazione del tutto è ben fatta ma, soprattutto, risulta indubbiamente sincera. Oggi come oggi viene quasi da sorridere se si pensa come il tutto suoni talvolta naïv, specie se si prende poi in considerazione che le loro brave dosi di merda le devono pur aver ingoiate, ma in fondo da tutto ciò deriva una visione d'insieme che da un lato conferisce loro un'identità di rappresentanti dell'hip hop a tutto tondo, e dall'altro segna uno degli ultimi colpi di coda di un genere che già in quegli anni stava abbandonando con sempre maggiore rapidità gli stilemi da b-boy vecchia scuola per favorire l'emergere del ghettuso più incazzato o del megalomane pacchiano che usa le banconote per accendersi i sigari. Insomma, come dire: Between A Rock And A Hard Place vale oggigorno quasi più come "segnalibro" culturale e musicale che come musica tout court, ma è proprio questo a renderlo per me importante. Per di più, avendo vissuto quell'epoca in prima persona, non riesco ad essere obiettivo come dovrei e pertanto lo giudico come l'avevo giudicato quindici anni fa (13, in realtà, perchè nel '94 m'era sfuggito): quattro ed una bella lode per il fattore nostalgia che evoca in me.
In alcune delle passate recensioni ho più volte menzionato alcuni dei criteri che rendono classico un determinato disco. Volendo riepilogare grossolanamente, potrei per esempio citare la presenza di uno o più pezzi forti capaci di distinguersi dal resto delle tracce presenti, che comunque debbono essere tutte di alta qualità; poi, l'innovazione gioca un forte ruolo, certamente, ma non va scordato che anche la "sola" perfezione può bastare; in aggiunta a ciò si può scoprire che nella maggioranza delle pietre miliari si può notare la presenza dello Zeitgeist dell'epoca; infine, la coesione ha da essere presente affinché si possa notare una sorta di visione artistica complessiva, senza la quale si avrebbe una mera compilation e non il ritratto di un artista. Fermi restando questi punti, vorrei però aggiungere un elemento forse non fondamentale ma anch'esso sovente rintracciabile in album come It Takes A Nation Of Millions, AmeriKKKa's Most Wanted o The Infamous: la presenza di un concetto forte, personale, dichiarato per tutto il disco. Esso può essere estroverso (vedi l'afrocentrismo di fine anni '80) come introverso (l'arroganza e l'ultratamarria del fare bbrutto dei Mobb Deep) ma, a prescindere da ciò, questo se espresso bene andrà a creare schiere di accoliti ed anche "imitatori" e contribuirà in seguito a definire un certo modo di pensare. E Word Life fa esattamente ciò: principalmente attraverso il singolo Time's Up ma anche con pezzi tipo O-Zone o la traccia omonima, questi sintetizza il pensiero dei cosid. puristi, lo amplifica in un primo tempo, ed infine diviene esso stesso una sorta di Segno convenzionale. Senza scomodare De Saussure, basti andare col pensiero a qualsiasi backpacker degno di questo nome ed alla sua collezione di dischi... e TUTTI sono stati backpacker almeno una volta nella vita. Paradossalmente proprio io, che invece zainettaro continuo ad esserlo ininterrottamente da quindici anni e più, solo recentemente ho aggiunto ai miei dischi una copia originale di Word Life. Fino a poco tempo fa, difatti, a causa dell'irreperibilità dell'album e dei pregiudizi altrui (il "mentore" che mi iniziò al rap diceva che O.C. era solo bravino, pensate che coglione lui e più coglione io a dargli retta. Ma s'era sbarbi), l'esordio di Omar Cradle aveva girato prima su cassetta, poi su Minidisc, poi in Mp3 ma mai su ciddì. Fortunatamente, quella stessa buonanima di O.C. ha ben pensato di dare alla luce una sontuosa ristampa in cui oltre agli originali troviamo pure un paio di remix, inediti e chicche oramai introvabili; sicché a questo punto l'acquisto è divenuto obbligatorio e pertantoi eccomi qua a svelare per un'ennesima volta la bellezza di questo prodotto. Il singolo, per esempio, lo conosceranno cani e porci ma come esimersi dal tesserne le lodi e sottolinearne la magnificenza? Negli anni Time's Up non solo è diventato un punto di riferimento concettuale per molti, ma soprattutto è uno dei rari esempi di vera perfezione: la produzione di Buckwild, che campiona Dolphin Dance, è nel tempo giustamente assorta a pietra miliare del beatmaking in quanto non solo riesce a dare un taglio squisitamente hardcore al pezzo originale (paragonare per credere: Resurrection di Common), non solo lavora di batteria in un modo tale da astrarsi dal sound tipico dell'epoca, ma come ciliegina sulla torta vi inserisce dei cut di Slick Rick che raramente come in quest'occasione s'imprimono nella mente e diventano parte essenziale della canzone. E O.C., dal canto suo, rilascia due strofe dense di frasi che negli anni sono state più volte campionate -e fin qui nulla di particolarmente eccezionale- ma che soprattutto sono diventate un manifesto di cosa significhi nel concreto l'emceeing. In tal senso citare la celeberrima frase "I'd rather be broke and have a whole lotta respect" è tanto scontato quanto obbligatorio, perchè aggiunge al classico "devi essere bravo" un concetto più vicino a concetti etici che puramente artistici; concetto, questo, che più di una volta era stato implicitamente dichiarato da altri suoi colleghi ma che ora trova la sintesi definitiva. Ma per quanto questa dichiarazione intenti sia decisamente forte in Time's Up, fortunatamente non lo è a sufficienza per gettar ombra sugli altri pezzi. Impossibile infatti non notare la potenza di O-Zone, sì più classica come beat che come esposizione dei concetti ma non per questo meno d'impatto; o la stupenda Word... Life, la cui matrice jazz conferisce una melodia orecchiabile che ben s'accompagna al tiro lievemente più veloce della media. E se i contenuti in ambedue questi pezzi rientrano comunque nella categoria del "vi faccio vedere io chi ci sa fare", bisogna ammettere che O.C. riesce anche a sconfinare in territori con un approccio decisamente personale: Ga Head, ad esempio, di primo acchito potrebbe sembrare il consueto sfogo nei confronti della ragazza macchiatasi di adulterio; ma al di là del fatto che l'esecuzione è comunque degna di nota, il fatto che si scopra che il tradimento è avvenuto seguendo le vie di Saffo rende il tutto meno scontato (e per certi versi più tragicomico). Le fa sponda Let It Slide, ancora più unica della precedente nel suo sostenere che talvolta, anzichè accettare provocazioni, è meglio lasciar correre (se ci pensate, una simile affermazione in un contesto sostanzialmente da bullo come quello del rap è abbastanza clamorosa); o, ancora, Constables, che pur riproponendo il tema già esplorato della violenza da parte delle forze di polizia gli da un taglio meno estremista della media e soprattutto lo fa attraverso uno storytelling che anche nella peggiore delle ipotesi rende più digeribile l'insieme. Per il resto non è che i temi si discostino un granché dagli standard reppusi del tempo, ma al di là dell'esecuzione stessa sono i beat di Buckwild (e di Ogee e degli Organized Konfusion) a fare la parte del leone. Eccetto Born 2 Live -un tentativo di crossover non proprio riuscitissimo- le musiche sono straordinarie. Il punto di riferimento più vicino che posso trovare è Pete Rock (soprattutto in Point O Viewz), ma sarebbe del tutto sbagliato non riconoscere il talento e l'originalità del Nostro, che in questo album riesce a concentrare una varietà di atmosfere considerevole, certamente, ma soprattutto contribuisce attivamente a dettare gli standard del sound nuiorchese dell'epoca. Pensate, infatti, ai nomi di album che inevitabilmente vi vengono in mente quando qualcuno vi chiede degli esempi della New York di metà anni '90: The Infamous, Illmatic, Living Proof, Ready To Die e, appunto, Word Life -non si sfugge. Anche in questo caso, in realtà, le cose da aggiungere in materia sarebbero molte; dal canto mio, però, non solo reputo che vi sia gente che lo ha fatto meglio di quanto potrei io, ma soprattutto che la cosa più logica da fare sia ascoltare il tutto in prima persona (nella rara eventualità che non lo si fosse già fatto). Detto ciò, mi pare evidente che di fronte abbiamo un vero e proprio classico nonchè l'opera migliore di O.C.; una pietra miliare che, al pari di Illmatic (MC Serch è coproduttore di ambedue gli album), pur non raggiungendone la stessa perfezione è imprescindibile per chiunque abbia a cuore un genere musicale in cui da sempre si deve scremare parecchio per trovare autentiche perle.
E' già il secondo giorno di fila che mi scordo di portare il disco che m'interessa, l'alternativa è il doppio degli Smiths che mi son comprato oggi ma francamente si vive anche senza. E allora ecco che vi piazzo due simpatiche foto tanto per fare qualcosa. A domani e, dimenticavo: l'Encores di quest'anno è finito, gli manca solo la grafica.
Dietro casa mia l'altro ieri Il simpatico pupazzo di neve - Hitler che i nostri vicini han ritenuto di creare in cortile
Ricordo che quando The Darkest Cloud uscì nei negozi (uhm, diciamo su Soulseek), la piccola comunità reppusa milanese -che all'epoca frequentavo- era scissa tra coloro che idolatravano il disco e quelli che nemmeno l'avevano mai sentito nominare o lo bollavano come l'ennesima sòla proveniente da una scena underground non esattamente entusiasmante (e poi era il periodo di Get Rich Or Die Tryin'). Io ovviamente propendevo più per la prima opzione, e per quanto all'epoca non è che divorassi album a cura di battle rapper, quello di Vakill aveva certamente un pregio: quello di essere completamente prodotto dal trio dei Molemen, dei quali ho sempre apprezzato il gusto nella scelta dei campioni (sia come melodia che come atmosfera) e l'approccio genuinamente classico.
In effetti, a distanza di cinque anni reputo Darkest Cloud come una di quelle opere meglio invecchiate e, in maniera abbastanza analoga a ciò che è successo a Here To Save You All di Chino XL, esso è stato capace di "bruciare" completamente un pur discreto sequel; se ciò gli è riuscito non è naturalmente solo per questioni legate alla novità o alla effettiva qualità finale, ma anche perchè in mezzo a tonnellate di one-liners quà e là si riescono a trovare tracce dal senso compiuto che, seppur "isolate", spezzano l'eventuale monotonia creata dal Nostro. E parlo di monotonia perchè Vakill è sì tecnicamente bravo, ma non è STRAORDINARIO; la sua voce -simile oltre ogni ragionevolezza a quella di Ras Kass- viene usata senza grande inventiva come puro e semplice mezzo attraverso il quale far giungere a noi il piatto forte del menu, ovverosia le punchlines. Peccato però che queste si perdano nel flusso costante e serratissimo (onestamente alle volte lo è fin troppo) del Nostro, il quale pressoché mai cambia tono o inserisce pause ad effetto per sottolineare un'uscita o semplicemente spezzare il ritmo; e basti pensare a quanto questi pur banali trucchetti invece giovino all'ascolto di pezzi concettualmente leggeri come quelli di un Sean Price per capire che c'è un problema. Problema, questo, che viene ulteriormente rimarcato ogni qualvolta il beat e la melodia finiscono con lo stridere con un simile stile: prendete ad esempio Forever e noterete come base e liriche viaggino su due strade parallele che MAI s'intersecano, il tutto a scapito della godibilità che invece si sente appieno con una Sickplicity o una Sweetest Way To Die. In più -e qui chiudo il Vakill-bashing- ci sono momenti in cui 'Kill non riesce ad essere brillante come vorrebbe: o perchè a metà traccia si rompe le palle di essere concettuale e scivola nell'ennesimo abuso di one-liners (The Creed), oppure perchè se ne esce con cagate come "Wife's an acronym for wash, iron, fuck et cetera". Ma non tutto è da mettere in croce: bisogna ammettere innanzitutto che il più delle volte le trovate che ha il Nostro sono delle autentiche perle costruite su solide fondamenta di humor, inventiva ed assonanze; senza star qui a elencarle tutte, per darvi un'idea vi cito solamente "Competition is like parking spots, good ones' hard to find/ And everything else is handicapped" e "Call my style 'c-section' cause I'm a cut above you pussies". Inoltre 'Kill non è affatto malvagio né come storyteller -vedi l'ottima Fallen, in cui lui e Slug riprendono i ruoli di Samuel L. Jackson e Kevin Spacey per proporre una versione reppusa de Il Negoziatore- né come autobiografo (Til The World Blows Up e The Flyer, ambedue sincere ed appassionate pur non risultando melense o impostate). Certo, siamo a diverse spanne di distanza dai maestri del genere, ma al Nostro va concesso che sa intrattenere molto meglio di diversi suoi colleghi e che la sua arroganza risulta comunque apprezzabile nel momento in cui dietro ad essa si trova molta fantasia e competenza; Sickplicity, End Of Days e la posse cut Forbidden Scriptures sono lì a testimoniarlo. Quanto ai beat, devo dire che qui His-Panik e Memo (ma soprattutto il primo) fanno un ottimo lavoro, restando sì sui binari del good ole boombap scegliendo talvolta campioni non scontati (ad esempio arpeggi di chitarra elettrica, oppure qualche roba ottantona), ma principalmente curando molto l'aspetto melodico ed affidandolo in maggior parte ad archi di vario genere. Certamente ci sono escursioni nel funk o nel soul più evidente (Sweetest Day To Die, Dear Life), peraltro validissime, ma la cupezza fa da padrona a Darkest Cloud nella maniera più assoluta: che sia l'Orfeo Negro di Fallen piuttosto che i clavicembali di End Of Days, non sperate di trovare da nessuna parte qualcosa che si discosti di più di un passo dal cosid. hardcore. Una scelta, questa, che ben si sposa col tipo di MC che è Vakill, e che francamente non vedo come potrebbe deludere i fan del genere; casomai, questo sì, l'originalità va a farsi benedire ma questa non sempre è essenziale e forse avrebbe avuto poco senso sentire battleraps come questi su robe storte à la Madlib. Conclusione? Bello, sì, ma solo per aficionados. Gli altri -vuoi per carenze di comprensioni o semplicemente gusti tout court- dubito che potranno trovare in Darkest Cloud qualcosa di particolarmente esaltante salvo, forse, due o tre tracce.
Al contrario di diversi altri audioblog, questo sito non si propone né di tenervi aggiornati sulle ultime uscite in tempo reale, né di fornire guide approfondite e ragionate a determinati artisti. Più semplicemente, non è altro che la graduale messa online della mia collezione di dischi e, in qualche caso, di cose originali fatte da me. Come ogni buon collezionista, tendo a voler avere quanto più materiale su formato originale; non pretendo naturalmente che chiunque la pensi allo stesso modo, ma sarebbe corretto acquistare i dischi che ci piacciono. Credo anche che in questo modo cambi la percezione della musica, che il supporto fisico le attribuisca un valore aggiunto che spinge ad approfondire gli ascolti (vuoi anche solo perchè uno ci ha speso dei soldi). Va da sè che i file vanno cancellati dopo 24h -mi raccomando, eh. Inoltre, salvo rare eccezioni, difficilmente riupperò i link scaduti da tempo -lavorando, purtroppo, il tempo a mia disposizione è quello che è. Commenti e consigli sono sempre ben accetti.