martedì 30 marzo 2010

IN BREVE

Scusatemi per la mancanza di aggiornamenti, ma al momento ci sono quattro fattori che mi stanno bloccando dal scrivere alcunché. Giusto per mantenervi informati ve li elenco:

1) carenza d'entusiasmo. È un periodo in cui la poca musica che ascolto è quella già recensita (sia le ultime robe che Illmatic o Infamous, per dire), mentre se volessi scrivere di materiale nuovo dovrei (ri)prendere in mano dei dischi specificamente con uno scopo esterno al piacere dell'ascolto.
2) assenza di possibili miglioramenti. Intendo dire che il formato che m'ero proposto da solo non s'evolve, epurtroppo al momento mi pare che abbia raggiunto il massimo dei risultati in rapporto all'impegno che voglio/posso metterci. Insomma: bene tutto, ma dopo due anni e qualcosa vorrei trovare un modo di far evolvere il blog in più direzioni, ma in parte la mia pigrizia (più altre mancanze) ed in parte una sorta di "difetto congenito" mi bloccano dal farlo. Anche perchè in un certo senso non posso permettermi di far diventare RNS un blog celebre, dato che almeno un 70% del suo valore è dato dall'offrire download illegali.
3) circa quest'ultimo punto: ultimamente mi sono arrivati più avvisi di infrangimento del DMCA di quanti sia disposto a tollerare in quanto "fisiologici" (l'ultimo dalla Def Jam per Bacdafucup, ma si può?). Insomma, sono un po' preoccupato, tant'è che se la situazione va avanti così quasi quasi faccio un backup di tutte le pagine e chiudo la baracca prima che succeda qualche casino serio.
4) fattore tempo libero. Questa è fin troppo ovvia: pur scrivendo le recensioni di getto, e pur limitandomi ad una sola rilettura per togliere i refusi, alla fine mi rubano all'incirca un'ora e mezza-due del mio tempo. Il che, lavorando, non è pochissimo. Certo, potrei scrivere un post a settimana, ma oprmai che senso avrebbe?

Insomma, sono in una sorta di "crisi dei sette anni" [no homo], per cui devo decidere un po' che fare.

lunedì 22 marzo 2010

AA.VV. - RHYME & REASON (Priority, 1997)

In teoria questa dovrebbe essere una settimana abbastanza impegnativa al lavoro, e per giunta oggi non mi sento troppo bene; ne consegue che, al di là del numero di recensioni in quanto tale, ridurrò di molto la lunghezza delle stesse optando ovviamente per dischi che mi consentano di far questo. Questo a mo' di disclaimer -ora veniamo al disco.
Primo della serie è una delle tante colonne sonore che uscirono intorno alla metà degli anni '90 e che, salvo rarissime eccezioni, spesso si tradussero in discrete cacatielle di nessuna utilità; con al massimo una o due canzoni carine che facevano traino ad un carico di gentaglia strappata ai cantieri stradali. Ebbene, se Rhyme & Reason non fa parte di questa categoria già solo per via del calibro dei nomi coinvolti, è però pur vero che l'andamento qualitativo scostante del disco nemmeno lo può rendere paragonabile a piccole chicche del genere come Soul In The Hole o America Is Dying Slowly. Difatti, ad ascolto terminato è più che probabile che noteremo innanzitutto uno squilibrio che pende a favore della prima metà di R&R, dove si trovano quattro dei cinque pezzi belli di questa colonna sonora; e poi, in secondo luogo che, ad eccezione dei suddetti, il resto del materiale non è neanche «passabile», ma proprio brutto ed incoerente.
Ma laddove l'incoerenza si può giustificare col fatto che il film è un documentario che si occupa del rap a livello nazionale (e dunque è giusto che ad essere rappresentata sia l'America tutta e le varie differenze stilistiche legate alle regioni di provenienza degli MC), meno si comprende come mai siano stati accettati brani da parte di artisti rispettati come MC Eiht o KRS One che indiscutibilmente si collocano sotto la media del loro output. Perchè se posso accettare che un Master P produca schifezzuole in odore di funk californiano, se non mi stupisce che delle brutte copie dei Bone Thugs 'N' Harmony come i Crucial Conflict partoriscano una cacata immonda come Bogus Mayn, e se posso tollerare che Nyoo & DeCoca (chi!?!) rientrino nella categoria dei raccomandati di turno, quello che -no, proprio no- non posso comprendere è come mai RZA perda il senno e se ne esca con una Tragedy. Oppure, che KRS One campioni Don't Play That Song di Ben King (identica alla più famosa Stand By Me, peraltro) per lanciarsi in una delle sue prediche più fiacche di sempre. E che dire dei Lost Boyz, allora?, che se da un lato non sono mai stati famosi per aver prodotto canzoni di spessore, dall'altro perlomeno sapevano concepire pezzi come Music Makes Me High che facevano il loro dovere. Mah: sta di fatto che su quindici tracce almeno otto o nove vanno buttate nel cesso per direttissima e senza possibilità d'appello.
Ma per fortuna ci sono quelle cinque che un po' salvano la baracca e, anzi, conservano un che di memorabile anche a distanza di tanto tempo. La prima è la sconosciuta The Way It Iz, in cui Guru, Lil' Dap e tale Kai:Bee si cimentano in un pezzo «street conscious» di chiara matrice gangstarriana che fa del beat -autoprodotto dal signor Elam- la propria forza; il campione di flauto di pan è infatti assolutamente spettacolare, e il suo alternarsi con una linea di basso filtrata è indiscutibilmente magnifico. Le batterie picchiano sui timpani e questo, se aggiunto a pause e svuotini piazzati sempre al punto giusto (vedi la seconda strofa di Guru), oltre ad un ritornello semplice ma efficace, la rende indubbiamente il pezzo più bello di Rhyme & Reason nonché una delle mie tracce preferite degli anni '90. Non esagero: quel beat è qualcosa di superbo e non conosco nessuno che l'abbia ascoltata restandovi indifferente. CA-PO-LA-VO-RO, non si discute, ascoltare per credere.
Più in basso, ma sempre in zona «molto bello», si trova la collabo tra Busta Rhymes e Q-Tip intitolata Wild Hot. Incentrata su un arpeggio tratto da The Human Fly di Lalo Schifrin, la traccia regge benissimo l'età grazie ai due MC in perfetta forma e la breve durata del tutto (due strofe appena), che ne sottolinea il minimalismo ed al contempo enfatizza l'ottima strofa di Busta. Stesso coefficiente di apprezzamento si ritrova in Nothin' But The Cavi Hit, uno dei pochi esempi di tarda scuola Death Row che non risulta invecchiato come aceto. Il merito principale va all'ottimo emceeing di Kurupt, certo, ma anche il beat prodotto da Daz (che sceglie un tiro veloce per le batterie ed un bel sample di xilofono, limitando al minimo i synth) gioca una sua parte, così come in fondo anche Mack 10 riesce a fare la sua sporca figura.
Le ultime due canzoni degne di essere ricordate provengono invece da artisti distanti anni luce gli uni dagli altri: sto parlando di Ras Kass, gli Heltah Skeltah e Canibus, che si riuniscono per la buona ma un po' troppo fracassona Uni-4-Orm, e 8Ball & MJG, che invece ci regalano un classico esempio di Dirty South di classe. Il loro pezzo, intitolato Reason 4 Rhyme, è esattamente ciò che il titolo suggerisce: una spiegazione tutt'altro che banale del loro amore per l'hip hop, infarcita di aneddoti autobiografici e voglia di riscatto sentita. Ottimo anche il beat, melodico quanto basta e soprattutto non troppo invadente, cosa che consente ai due di dimostrare soprattutto una cosa: che anche a sud della linea Mason-Dixon c'è gente capace di fare a pezzi un microfono come se nulla fosse. Tant'è vero che quando si arriva a Uni-4-Orm si resta quasi un po' delusi da quello che in teoria avrebbe dovuto essere un sabba del liricismo; il problema è semplicemente che il beat è troppo epicheggiante e caotico, col risultato che le prestazioni degli MC (soprattutto di quelli che hanno le voci meno possenti, Sean Price e Ras Kass) vengono soverchiate da tutto quel casino che si sente in sottofondo. Intendiamoci: a conti fatti il pezzo regge anche se troppo lungo, eppure è impossibile osservare come questo avrebbe fatto una «figura» migliore se si fosse avvalso di una base dei Beatminerz e se avessero scremato quei quaranta secondi di troppo.
Detto questo, come potrete ben notare, complessivamente il bilancio non è particolarmente positivo. Tuttavia, nella logica delle colonne sonore gli esiti non sono nemmeno da buttar via, e per quanto il voto corretto sarebbe due e mezzo, un mezzo zainetto va aggiunto vista la bontà di quelle poche tracce davvero di classe. Personalmente mi spingo addirittura a consigliarvene l'acquisto: già solo The Way It Iz lo giustifica.





AA.VV. - Rhyme And Reason

VIDEO: RHYME & REASON DOCUMENTARY (PT.1/9)

venerdì 19 marzo 2010

ROYCE DA 5'9'' - STREET HOP (One/M.I.C., 2009)

Confesso che, pur seguendo la carriera di Royce The 5'9'' fin dal giorno in cui comprai il singolo di Scary Movies, questo Street Hop è l'unico suo album in mio possesso. Il motivo è presto detto: la qualità a dir poco altalenante dei suoi lavori, la quale dopo dieci anni mi aveva quasi portato ad abbandonare ogni qualsivoglia speranza nei suoi confronti (come già successo per Ras Kass, ad esempio). Ma la pubblicazione di un EP promettente, le apparizioni su diversi brani dove puntualmente assassinava il collega di turno e, infine, l'annuncio che Street Hop sarebbe stato supervisionato da Premier sono i tre motivi che mi hanno spinto a dare una chance a questo Street Hop. Che sia la volta buona che riesco a godermi un album di Royce?
In breve, la risposta è no. Nuovamente, il Nostro da un lato dimostra di aver capito che genere di audience è interessata a lui, ma dall'altro continua -con una pervicacia che ha dello sconfortante- a scivolare nel cattivo gusto del ritornello cantato male, del beat uptempo privo di qualsiasi gusto e, più in generale, in tutti quelli che erano i cliché del rap mainstream di fine anni '90. Per sua fortuna, però, l'essere un liricista fenomenale conferisce un valore aggiunto di immensa importanza, rendendo quest'album un oggetto di culto per qualsiasi otaku della metrica. E, tanto per essere chiari, l'altra «fortuna» di SH è di non assomigliare quasi per niente a quella vaccata indegna che è l'album degli Slaughterhouse: contrariamente a quest'ultimo, qui potrete infatti trovare molto più che versi su versi su versi messi insieme alla cazzo su basi fiacche. Qui potrete trovare battle rap eseguito in maniera eccellente non solo dal punto di vista della tecnica -le punchline funzionano- ma soprattutto dello storytelling ME-RA-VI-GLIO-SO e alcuni beat che variano dall'ottimo al buono. Increduli? Lo sarei anch'io, ma seguitemi.
Uno: il singolo Shake This è qualcosa di indiscutibilmente strepitoso. Prodotto da Premier, esso non ha nulla in comune con i suoi recenti standard e vi basti sapere che stavolta viene usato un intero loop tratto da The Smile di David Axelrod. Niente tagli strani, ritornelli cuttati o assenza di charleston: proprio un loop completo. Ed il bello è che malgrado il campione non sia esattamente nuovo, il tutto suoni piuttosto fresco. E, naturalmente, il fatto che su una simile base ci sia un MC del calibro di Royce non può che aiutare; al di là dei contenuti autobiografici espressi più che bene, ad affascinare è la metrica ed il crescendo del tono vocale che, accompagnando il suono in levare del campione, rende l'ascolto una vera gioia per le orecchie.
Due: anche quando Primo ritorna ad una formula più legata al boombap tradizionale, i risultati si distanziano nettamente dalla pochezza esibita fino a solo poco tempo prima. Something 2 Ride To coincide alla perfezione con la volontà espressa nel titolo, e pur non avendo nulla di facilmente melodico riesce ad essere una colonna sonora perfetta per un giro in macchina. E la riproposizione di queste atmosfere riesce così bene anche grazie ad un ritornello cantato da un Phonte sul quale stavolta non posso dire proprio nulla di male: la sua voce è qui perfetta, e nel momento in cui questa s'appoggia al campione di flauto pare quasi di sentire la brezza che entra dal finestrino... e sappiate che se vi sto dando una descrizione così emo è perchè i risultati sono oggettivamente eccellenti.
Tre: volete un po' del "vecchio" Royce, quello che sminuzzava qualsiasi MC gli si mettesse di fianco? Bene, allora sappiate che sono almeno quattro i pezzi che dovete ascoltare. Il primo è Gun Harmonizing (con un ottimo Crooked I), dove la prevedibilità della metafora voce-pistola passa in secondo piano grazie ad una bella produzione di Emile e alle impressionanti metriche dei due, che fanno a gara per superarsi in pulizia e inventiva (anche se lo scat del ritornello talvolta mi sembra fesso). Poi viene l'esperimento -riuscitissimo- di Dinner Time, in cui lui ed un ottimo Busta Rhymes giocano con metrica e voce spezzando i flow serratissimi in chiusura di verso; che, detta così, sembra una robetta ma vi garantisco che dovete ascoltare per capire la grandiosità di questa traccia, in cui l'altrimenti triviale produzione di Quincy Tones si rivela essere la famosa ciliegina sulla torta. Segue sulla via «sperimentale» la title track, in cui Royce lavora su dizione e libera associazione di pensieri in maniera indiscutibilmente creativa, mentre molto più tradizionale (ma non meno bella) è Hood Love, che vede nel beat di Primo e nella collaborazione di Joell Ortiz e Bun B due valori aggiunti di non poco rilievo.
Quattro: se invece volete prendere delle lezioni di storytelling, ci sono tre pezzi che fanno per voi. On The Run è forse il più prevedibile di essi, sia nella trama che nella struttura del racconto, ma questa prevedibilità aiuta noi ascoltatori a comprendere la differenza che passa tra un MC affabulatore ed un semplice rapper che sa fare il suo mestiere. Le immagini che Royce dipinge sono vivide ma mai troppo descrittive, costantemente a cavallo tra la narrazione più lineare ed i flash dati dalla situazione. Una caratteristica che vede il suo zenith nella successiva Murder, ancora più brillante nello svolgimento e nei toni, e che poi sconfina in un territorio di estrema creatività (e immaginario weirdo, se posso aggiungere) con la fantastica Part Of Me, che non intendo spoilerare qui ma di cui vi suggerisco di vedere anche il fichissimo video.
Bene, ciò detto, basta fare quattro conti e vediamo che (perlomeno a mio dire) le tracce davvero degne sono ben nove, a cui aggiungo in extremis la clipsiana Soldier, che da un lato merita grazie al beat che echeggia assai Grindin', ma dall'altro viene un po' rovinata da una strofa di tale Kid Vishis (???) e da un ritornello non proprio brillante. Insomma, siamo a nove tracce e mezzo che posso definire a metà tra lo «strepitoso» ed il «degnissimo».
Purtroppo, però, Street Hop è composto anche da altre otto canzoni, ed esattamente come quelle citate finora sono belle, le altre sono delle cazzatone che lèvati. Dalla boiata che grida al mondo la sua bruttezza -Mine In Thiz- a quelle più sottili come Thing For Your Girlfriend o Far Away, passando naturalmente per l'oggettiva mediocrità ed inutilità di una Gangsta o una New Money e per giungere infine all'ennesima posse cut deludente a nome Slaughterhouse, ossia The Warriors. E dunque, considerata l'estrema lunghezza del lavoro, è inevitabile giungere alla conclusione che avere ben otto canzoni brutte che diluiscono la bontà delle altre dieci è un colpo basso letale per Street Hop, che se solo avesse usufruito di un maggior controllo sulla lunghezza forse avrebbe potuto aspirare all'eccellenza.
Così come, invece, è un prodotto strano: scremate la tracklist dalla monnezza (come ho fatto io) e vi trovate con in mano una sorta di EP da pieni voti, assolutamente geniale e che farebbe capire persino a un sordo quanto Royce sia uno degli MC più bravi degli ultimi dieci anni. Ascoltatelo per intero, invece, e sarà come uscire con una ragazza che dalla vita in su ha il fisico di Megan Fox e dall'ombelico in giù quello di Orietta Berti: certo, potrai sempre vedere il bicchiere mezzo pieno, ma questo non riuscirà mai a soddisfarti pienamente. Peccato, davvero peccato.





Royce The 5'9'' - Street Hop

VIDEO: SHAKE THIS

giovedì 18 marzo 2010

SUNZ OF MAN - THE LAST SHALL BE FIRST (Red Ant Ent., 1998)

Coloro che hanno cominciato ad interessarsi al hip hop dopo il '99 non potranno capire -per loro fortuna- ma c'è stato un periodo in cui chiunque tra i 15 ed i 25 anni smaniava per qualsiasi puttanata che recasse da qualche parte il logo del Wu-Tang: dischi, portachiavi, calze, tazze da cesso -tutto. In particolare, i soggetti più impressionabili e fessi come lo ero io erano propensi a spendere cifre esorbitanti in CD senza prima appurarne la qualità; e se questo da un lato li ha aiutati ad imparare il valore del denaro, dall'altro ha lasciato loro in eredità una serie di cazzatone macroscopiche dal dubbio valore.
Il primo disco ufficiale dei Sunz Of Man a stento non rientra tra queste cazzatone, ma solo per un soffio; e difatti, conoscendolo bene ma non trovandoci un granché di degno, la mia voglia di recensirlo sta a zero. Ogni promessa è debito, però, e allora quantomeno vediamo di farla breve: uscito nell'estate del '98 pochi mesi dopo il solista di Killah Priest (una mossa che nei testi di marketing rientra alla voce «WTF?») e anticipato dal singolone Shining Star, The Last Shall Be First è stato forse il flop esiziale per la combriccola degli affiliati al Wu. Le aspettative erano infatti talmente alte che, quando i fan si sono trovati in mano una robetta al cui confronto qualsiasi peto dei Killarmy svetta, la delusione è stata tale che da lì in poi praticamente tutti i side projects del gruppo di Staten Island hanno toppato clamorosamente (anche perchè, salvo un par di eccezioni e contrariamente ai vari Pillage o Heavy Mental, si trattava di complete schifezze).
E si capisce bene il perchè. Vedete, su diciassette pezzi direi che quelli davvero belli sono due, quelli buoni quattro, ed il resto si colloca su una linea sinusoidale dove le ordinate positive variano tra il "accettabile" ed il "vabbè pazienza", mentre quelle negative stanno tra il "faccio finta di niente" ed il "incircolabile". E ciò non tanto per via del emceeing, che ad eccezione del tremendo 60 Sec. Assassin si mantiene su buoni livelli, quanto per i beat: i più sembrano difatti scopiazzature delle cattive idee di RZA, prive di qualsivoglia intuizione melodica o perizia tecnica. Sembrano, in poche parole, un ibrido tra gli stereotipi del sound di Staten Island e le relative caricature, con risultati che si concretizzano nelle ignobili Can I See You, The Grandz (che pure usa lo stesso campione di Recognize & Realize Pt. I) e nella cacofonica Inmates To The Fire. E se la colpa di questi scempi va data perlopiù a True Master ed un RZA già scoppiato -Supreme e 4th Disciple qualcosa di buono lo tirano fuori- bisogna aggiungere che in moltissimi casi un pezzo di per sè non brillante viene definitivamente assassinato da ritornelli di una bruttezza sesquipedale, in cui la tendenza pare essere quella di ripetere fino al rincoglionimento il titolo della canzone o lasciarsi andare a cori urlati o lamentosi (vedi ad esempio Not Promised Tomorrow o The Grandz). Insomma, siamo ben lontani dai buoni livelli di Fear Love And War e Heavy Mental e, col senno di poi, in TLSBF si possono cogliere (a partire dall'orrido singolo prodotto da Wyclef) i primi segni della sventura che da lì in poi s'abbatterà sulle vendite e sulla fama del Wu-Tang.
Epperò, va detto, assieme alle premonizioni negative vi sono alcuni echi della bontà che aveva contraddistinto il suddetto Wu fino a quel punto. Nella fattispecie si tratta di Natural High e The Plan, ossia le uniche due canzoni davvero belle e che meritano di essere ricordate anche da chi non è mai stato un grande fan dei Sunz Of Man. La prima è costruita su un irresistibile campione di tromba (di Al Green, secondo alcuni, ma a me non risulta) e su una linea di basso eccezionale su cui gli MC hanno tutto lo spazio di cui necessitano per lasciarsi andare al misticismo cazzaro che caratterizza i loro testi. In particolare, è il sottovalutato Prodigal Sunn a brillare, con un attacco di strofa fantastico: "A young king at the age of 15, caught up in things/ The golden scorpio sportin' material diamond rings/ Physical, historical, mystical, shinin' crystal-like/ Stackin, packin pistols, FA and they brought the crystal meth". Ascoltatela e ditemi se il fatto che tutto ciò non significhi pressoché nulla non diventi pressoché irrilevante.
L'altro gran pezzo, invece, è la magnifica The Plan: stavolta il sample è di Ann Peebles (la stupenda I'm Gonna Tear Your Playhouse Down, che scoprii propprio grazie a questo pezzo) e praticamente consiste in un loopaggio puro e semplice di alcune misure dell'originale. Non un grande lavoro dal punto di vista del beatmaking più puro, forse, ma a giudicare dai risultati ugualmente degno di plauso. Peccato solo per il mostruoso bridge di 60 Sec. Assassin, che sta ai Sunz Of Men come Islord sta ai Killarmy, e che a momenti rischia di mandare a ramengo una canzone altrimenti godibilissima.
Meno eccitanti ma comunque apprezzabili sono poi Cold ed il suo mood minimalista, l'epicheggiante Flaming Swords, Illusions ed infine -undici tracce dopo- Next Up, che a momenti si salva solo grazie al semplice beat e ad un featuring di Method Man particolarmente ben riuscito. Per il resto, come vi dicevo, meglio far finta di nulla. Il che è un peccato, perchè dal punto di vista del solo emceeing i Sunz Of Man sono sicuramente tra i più dotati del nutrito parco dei weed carrier; Killah Priest lo conosciamo e non c'è bisogno di aggiungere altro,mentre Prodigal Sunn si fa notare per la metrica serrata e la maggior linearità delle descrizioni, ed infine Hell Razah risulta essere quello più ghettuso fra tutti ma comunque favorito da una bella voce ed una presenza al microfono di tutto rispetto. E così come dell'altro scemo non voglio nemmeno parlarne, nemmeno mi pare il caso di snocciolare uno per uno i temi affrontati dai nostri Eroi: si tratta come al solito di un amalgama di misticismo da baraccone, oscuri riferimenti al movimento/religione della Nation Of 5%, un po' di street rap e ammiccamenti di vario genere all'hip hop. Solita roba, insomma, ma che a me non stanca mai.
Insomma, cosa posso aggiungere ora che non abbia già detto? Il disco pare essere fuori stampa e, fatte salve due o tre canzoni, non mi sembra una gran perdita per la storia del rap. Se proprio doveste morire dalla voglia di possederlo io vi sconsiglio di spenderci più di una decina di yuri, e comunque ascoltatelo per bene prima di prendere una qualsiasi decisione. Tre zainetti di cui mezzo praticamente ragalato.





Sunz Of Man - The Last Shall Be First

VIDEO: THE PLAN

mercoledì 17 marzo 2010

EVIDENCE - THE WEATHERMAN LP (ABB Records, 2007)

Come anticipato nei commenti di ieri, dato che ultimamente il nome di Evidence e del suo Weatherman LP sta venendo menzionato con una certa regolarità, mi pare d'uopo procedere con una regolare recensione che ne evidenzi i pregi ed i difetti. A scanso d'equivoci, vi anticipo che non ho mai reputato Ev un MC particolarmente brillante nella metrica, e nemmeno l'ho mai considerato dotato di una penna particolarmente valida; tutte le conclusioni alle quali giungo nel corso della recensione partono dunque da questo mio (pre)giudizio.
Ora, la prima di queste conclusioni è che Michael Perretta -questo il nome di battesimo del Nostro- per questo suo debutto da solista ha intrapreso una strada molto chiara che consiste nella rifinitura del suo stile, nalla pulizia della sua tecnica ed in un approccio talvolta più intimo della sua scrittura; una scelta di per sè apprezzabile, anche se per poterla attuare ha dovuto trascurare un po' il campionatore, che però è andato a finire nelle sapienti mani di Jake One, Alchemist e Sid Roams. Sia come sia, se l'obiettivo era crescere come rapper senza perdere la qualità nei beat, questo è stato raggiunto in pieno: rispetto al passato egli è migliorato molto -anche come carisma- ed è impossibile negare che sia dotato di una personalità assolutamente unica, mentre le basi picchiano come e più che in passato, proseguendo oltretutto sulla strada (da me tanto apprezzata) intrapresa a partire da Neighborhood Watch.
Canzoni come Mr. Slow Flow, Down In New York City, Chase The Clouds Away, Born In LA o Hot & Cold dimostrano che Weatherman LP non è un album dei Dilated a scartamento ridotto e che, anzi, rispetto a certe loro opere più recenti (20/20) è la miglior valvola di sfogo per un MC a cui forse la formula del trio cominciava a stare un po' stretta. Dico ciò perchè al di là di una certa ripetitività dovuta alla continua reiterazione della sua figaggine, Ev ha qui un po' di spazio per spingersi oltre ai cliché del caso ed uscirsene con tracce un po' più concettuali, in cui lo spazio per costruire atmosfere ed attirare l'attenzione dell'ascoltatore diventa più ampio. E se questo non sempre viene sfruttato al massimo, con pezzi come Chase The Clouds Away che dimostrano che egli è ancora ben lontano dal saper dipingere immagini con le parole come saprebbe fare un Nas (o anche un Fashawn, per fare un esempio meno intimorente), è anche vero che i pezzi più autobiografici stupiscono: l'inizialmente prevedibile A Moment In Time si rivela essere un gioiellino di narrativa, ma soprattutto è la dedica alla madre (morta) intitolata I Still Love You che fa capire quanto potenziale sia ancora nascosto nella zucca di Perretta. Un potenziale di narrativa che aspetto di veder espresso nel prossimo lavoro, ma che per ora mi faccio bastare anche in virtù dei miglioramenti tecnici così evidenti non solo nel singolone Mr. Slow Flow (in cui giustamente viene omaggiato l'originale, cioè PMD, peraltro presente nel remix), ma soprattutto nelle collabo.
Collabo che meritano una nota a parte, in quanto generalmente ben scelte e caratterizzate da ottime performance degli ospiti. Tolti infatti gli irrecuperabili Big Pooh, Joe Scudda e Mad Child, i pezzi con Planet Asia (sempre eccelso, ma ahimé solo nei dischi altrui), Slug, e soprattutto Chace Infinite e Sick Jacken, rientrano tutti tra i momenti più alti di Weatherman. Voci diverse e flow diversi difatti sono un toccasana per un album così lungo in cui a fare da padrone è qualcuno comunque non caratterizzato dallo stile più eccitante di questa terra, ed evidentemente Ev questo lo ha capito molto bene invitando gente più che degna. Persino Alchemist non fa la solita figura da cioccolataio, vi lascio immaginare.
Purtroppo, però, mi chiedo come mai abbia compreso benissimo il fattore «noia della madonna» solamente sotto questo aspetto; o, per meglio dire, mi chiedo come non abbia potuto rendersi conto che 16 pezzi della durata media di 4'10'' sarebbero pesanti per chiunque (o quasi), ma diventano addirittura assassini se prendiamo in considerazione il fatto che musicalmente si assomigliano parecchio. Intendiamoci: non dico nulla sulle basi, che anzi in media sono decisamente ben prodotte e raggiungono spesso vette d'eccellenza -vedi Alchemist con la sua Chase The Clouds Away o Sid Roams e la loro Mr. Slow Flow, solo per citare le due più belle- però la matrice è sempre quella: campione soul -occasionalmente accompagnato o sostituito da synth ottantoni-, charleston quasi del tutto assenti, bpm mai superiori ai 90 e basso coincidente col rullante. Ergo, le differenze sono minime e per quanto siano anche facilmente riscontrabili l'impressione finale è di eccessiva omogeneità; e per quanto preferisca questo tipo di sound alla reiterazione premierana presente sull'album di Blaq Poet (giusto per fare un esempio chiaro), uno arriva al sessantanovesimo minuto di ascolto con un'orchite galoppante.
Per avere un album molto più bello sarebbe secondo me bastato fare due cose: da un lato eliminare i fastidiosissimi skit, accorciare la durata media delle canzoni e scremare almeno quattro pezzi sostanzialmente identici ad altri ma meno belli (Letyourselfgo, Things You Do, Believe In Me, NC To CA), oppure, dall'altro, lasciare tutto così com'è ma suddividerlo in due EP. Ovviamente l'opzione da me preferita è la prima, ma anche la seconda sarebbe andata bene; ed il fatto che Ev in Layover abbia operato una scelta simile, confezionando infatti un EP davvero godibile, mi fa pensare che le mie critiche abbiano qualche fondamento -e comunque, a prescindere da ciò, sono contento che si sia accorto della prolissità.
Ma tornando all'oggetto della discussione, si può dire che Weatherman è un esordio stranamente molto ben fatto se preso in piccole dosi ma afflitto da una specie di «peccato originale» quasi imperdonabile se si pensa all'esperienza decennale di Evidence; ne consegue che, per quanto vi siano tracce eccellenti, per quanto queste siano mille volte più freshe della media dell'underground, e per quanto il Nostro sia dotato di un'originalità fuori dal comune, a conti fatti il disco annoia e questo è forse il difetto più pesante (e paradossale) che possa avere un album altrimenti ben fatto. Discreto ma con margini di miglioramento; se volete un consiglio -sempreché non siate fan accaniti del Nostro- ascoltate sì questo, ma comperate Layover.





Evidence - The Weatherman LP

VIDEO: CHASE THE CLOUDS AWAY

martedì 16 marzo 2010

SUPERBA INTERVISTA A ICE-T

Da non perdere per nessun motivo: QUI.

KIDZ IN THE HALL - SCHOOL WAS MY HUSTLE (Rawkus, 2006)

Prima di cominciare a scrivere questa recensione piuttosto anomala, lasciate che premetta una cosa: non solo trovo il cosid. «hipster rap» una delle sottocategorie più abiette che il genere musicale «rap» e la cultura/movimento «hip hop» abbiano mai generato, ma per di più reputo che i Kidz In The Hall siano uno dei più disgustosi esempi di paraculismo misto ad assenza di personalità che si siano visti di recente. Il loro essere camaleontici e riplasmabili a piacimento, oltre ad essere un difetto di per se, nel tempo si è reso ancor più insopportabile in virtù del fatto che -nonostante ciò sia lampante- essi amino proporsi come depositari di una qualsiasi Identità (con la maiuscola). Peccato però che gli sfugga che non si può essere nativetonguesiani nel 2006, nostalgici dell'88 nel 2008 e fashionclubbeggianti nel 2010. Non senza arrossire, almeno -cosa che naturalmente non fanno, e anzi sostengono la cristallinità della loro evoluzione.
Ma pazienza. Quando nel 2006 acquistai questo disco, sull'onda del ben riuscito tributo a '93 Til Infinity, ancora credevo che i KITH fossero perlomeno dotati di una personalità, e d'altro canto l'avere alle spalle una Rawkus e l'appoggio di Just Blaze poteva significare, se non qualità garantita, quantomeno dei motivi d'interesse. Il tempo ha dimostrato che mi sbagliavo, ma contrariamente a quanto fanno loro, non fingerò di aver provato disgusto fin dall'inizio, e anzi, vi dirò che il disco mi piacque allora e mi piace ancor'oggi, pur con tutti i suoi difetti (primo fra tutti, guarda un po', la poca personalità).
Ma alla luce del mio astio nei confronti del duo di Chicago, per descrivere School Was My Hustle prferisco usare frasi più brevi del solito e la libera associazione; probabilmente, se adoperassi la solita prosa finirei per inveire contro i due più di quel che serve.

Insomma: Double O, il produttore, deve molto a Just Blaze ma l'orecchio musicale è tutto suo ed è sorprendente. Come sente una melodia accattivante la fa sua riuscendo a convincermi: i fiati di Wassup Jo, il funk solare di Cruise Control, il flauto di Go Ill... magari lo stile di produzione non sarà del tutto originale, ma il ragazzo ci sa fare.
Anzi, a ben pensarci School Was My Hustle scorre principalmente proprio grazie a questo collage di campioni soul.
Perchè Naledge, il rapper, per quanto ogni tanto dimostri qualche sprazzo di vivacità, non mi sembra nulla di speciale. A parte che -davvero- non imbrocca un ritornello bello nemmeno a minacciarlo di morte, ma più che altro mi sembra più occupato a dimostrare all'ascoltatore che lui è uno genuino che a portare prove di questo fatto. Del cosiddetto «show and prove» c'è solo lo «show», insomma.
Tutti questi riferimenti ai classici di primi anni '90, poi, mi puzzavano già nel 2006, e oggi come oggi mi appaiono come prove incriminanti del suo essere un parruccone.
Epperò 'sticazzi, rappa abbastanza bene: la voce è nasale ma non da fastidio, mentre la metrica e la tecnica sono pulite come raramente avviene per un esordiente. Peccato che a scrivere sia una mezza pippa... apprezzo i tentativi di storytelling (Dumbasstales) così come il materiale più autobiografico (Move On Up, Day By Day, la ghost track), ma non mi pare che ci metta l'anima. Insomma, mi lascia del tutto indifferente, come se stesse recitando un copione scritto da altri.
E in quanto a battleraps, metafore e frasi ad effetto... mamma mia, meglio lasciar perdere. Quando Naledge dice di spaccare non ci crede nemmeno lui, e più che un sano vecchio egotrippin' mi sembra training autogeno.
Oggettivamente, poi, per essere uno che frequentato un college ha un vocabolario ingiustificatamente povero.
Tuttavia, apprezzo la scelta di evitare qualsiasi ospitata di rilievo al microfono; e poi, in fin dei conti, il disco è talmente corto che a meno che non si presti attenzione alle scemenze che dice (ah, già, in più passaggi pretende di passare per semirivoluzionario, portatore dell'orgoglio nero... ma mavaccaghèr, pèèèrla) anche l'emceeing fila via senza grossi intoppi.
Ma come dicevo, sono i beat a fare la parte del leone. Certo, Ritalin dopo poco asciuga (ma è breve: 1'57'', una scelta ovviamente consapevole), Don't Stop ricicla per la zilionesima volta il campione usato per la fiacca Show Me What You Got di Jay-Z, e il campione di Hypocrite non va da nessuna parte. D'accordo. Però cosa non sono le batterie e il tiro di Ms. Juanita (ovviamente un omaggio a Bonita Applebum, cfr. il campione)? E quanto non è azzeccato ed elegante il sample di xilofono che appare a metà di Go Ill?
Senza poi contare il fatto che non mi stancherò mai di ascoltare un campione tratto da We Almost Lost Detroit di Gil Scott Heron, anche se non usato benissimo, come nella traccia nascosta.

Insomma, per farla breve, abbiamo un emceeing forse mediocre nel suo complesso, ma che non sottrae piacere all'ascolto complessivo e talvolta riesce a riprendere vita per donare 40" di soddisfazioni. Per converso, il beatmaker Double O sfoggia tutta una serie di campioni gustosissimi e credo che pochi potranno resistere alla loro orecchiabilità; certo, l'originalità non è la sua cifra, ma per essere un debuttante mi pare che mostri abbastanza stoffa. Peccato che ---
Peccato che tutto quel di buono che avevo ravvisato in quest'album sia stato sconfessato dai fatti avvenuti negli anni successivi all'uscita di School Was My Hustle. La carenza di personalità di Double O non è dovuta alla giovane età ma semplicemente alla propensione a scopiazzare quel che più gli gira al momento -da Just Blaze ai Cool Kids senza soluzione di continuità, senza vergogna! E Naledge, dal canto suo, qui si presenta come un continuatore della tradizione dei repponi conscious e bla bla palle varie, ma alla fine s'è rivelato essere un cazzaro come mille altri, per giunta nemmeno così brillante. E mi spiace, ma queste considerazioni andavano necessariamente fatte nel momento in cui ho deciso di ritirare fuori quest'album; non potevo fingere di non vedere. Sputtanare questi due imbecilli nella recensione va fatto, allora, e spero di esservi riuscito. Ma come glielo do il voto? Questo è il dilemma.
Ebbene, ho deciso. Fermo restando che la mia considerazione artistica nei loro confronti si attesta intorno a quella che nutro per Ja Rule, alla fine School Was My Hustle è un album proprio piacevole da ascoltare. Orecchiabile, dalle atmosfere solari, della giusta durata e con un andamento qualitativo che rapisce la tua attenzione: nulla di meglio da ascoltare durante questi primi giorni di primavera. Per cui scaricatelo ed ascoltatelo: con ogni probabilità vi piacerà, così com'era piaciuto a me quattro anni fa e ancor'adesso può vantare qualche giro nel walkman. Ma perchè ciò avvenga dovete completamente anestetizzarvi alla strabordante ipocrisia insita in quest'opera.





Kidz In The Hall - School Was My Hustle

VIDEO: WHEELZ FALL OFF ('06 TIL...)

lunedì 15 marzo 2010

DILATED PEOPLES - NEIGHBORHOOD WATCH (Capitol/Emi, 2004)

Quando ci si trova di fronte a un caso come quello dei Dilated Peoples, un gruppo indubbiamente amato e riverito da una fetta consistente dell'audience hip hop, la prima cosa che si vorrebbe fare è procedere per tesi. Ossia dire: «bocce ferme, loro nel complesso non saranno male ma la cosa finisce lì -i grandi gruppi sono altri- e adesso vi dimostro perchè». Tuttavia, ciò sarebbe ingeneroso nei confronti di un gruppo che forse posso non adorare ma che di sicuro non mi ha mai tirato particolari pacchi, e perciò preferisco inaugurare la loro discografia con il loro album che più mi è piaciuto: Neighborhood Watch.
Per quanto esso sia stato infatti considerato il loro lavoro meno riuscito ai tempi della pubblicazione, penso che a distanza di anni possiamo tranquillamente affermare che così non è e che, anzi, in un certo modo esso sia stato il loro maggior punto di svolta. Vado a spiegarmi: fino a quel fatidico 2004 i Dilated avevano mietuto una cospicua schiera di fan nell'underground più ortodosso cavalcando la formula del boombap classico, ma alla lunga mantenere questo sound probabilmente non li avrebbe portati da nessuna parte se non ad una ripetizione ad nauseam di forme espressive già collaudate e, ammettiamolo, non particolarmente fresche già al momento della loro prima applicazione. Con Neighborhood Watch hanno invece optato per una selezione di beat meno prevedibile che in passato, arruolando sì alcuni loro collaboratori storici (Alchemist e Joey Chavez su tutti) ma scegliendo basi mediamente più fresche e dalle atmosfere meno cupe ed ossessive. Aggiungiamoci un featuring da parte di Kanye West (in doppia veste di produttore e MC), ed ecco che quella sorta di autismo musicale che rinchiude molti gruppi all'intero dei loro gusci sicuri viene debellato. E, per una volta tanto, l'apertura ad una maggior base d'utenza non si traduce in una sorta di tradimento bensì in un miglioramento della qualità musicale e del gruppo stesso.
Come sempre nel loro caso, la prima cosa che si nota è che senza beat di qualità i Dilated Peoples non esisterebbero, e stavolta questo aspetto viene coperto meglio di quanto non fosse avvenuto nel precedente Expansion Team. Anche stavolta il primo a stupire è Alchemist, che con quattro tracce è il maggior fornitore di beat dell'album; e se World On Wheels risulta passabile e Neighborhood Watch valida ma nulla più, si comprende come Poisonous e Marathon siano diventati ambedue dei singoli. La prima è costruita interamente su un semplice loop di piano, molto lento, che in realtà scandisce il tempo per basso e batteria che ne accompagnano le singole note assieme a sporadiche entrate di synth; e su un simile tappeto sonoro sia Evidence -il cui flow calza a pennello sui bpm bassi- che un Rakaa onestamente ineccepibile dal punto di vista contenutistico e tecnico regalano delle ottime strofe che vedono nel ritornello di Devin un buono stacco. Marathon, invece, potrebbe quasi fare a meno di qualsivoglia strofa da tanto che la linea di basso è bella spessa e corposa: impossibile rinunciare quindi ad un po' di sano headnodding per quella che forse è la miglior canzone dell'intero disco.
A contenderle la palma c'è però l'eterea Reach Us, prodotta da un Joey Chavez ancora molto lontano dallo stile attuale, e che qui richiama cori soul, pianoforti e campanelle per creare una trama acustica tanto complessa quanto comunque raffinata. E quel che apprezzo di più, o per meglio dire ciò che reputo emblematico della bontà di questo beatmaker, è il fatto che malgrado l'atmosfera soave egli non rinunci a fornire il tutto di bassi e batterie di tutto rispetto. Last but not least, tra le basi degner di nota vi sono ancora la discreta Caffeine e le più orotodosse Love And War e Tryin' To Breathe: quest'ultima, però, pur usando campioni soul velocizzati va elogiata in quanto ben costruita, con un incalzante ritornello in crescendo sottolineato da trombe, e le sezioni delle strofe più rilassate e semplici con il solo piano a dettare la melodia.
Ciò detto, però, i meriti musicali si esauriscono qui: Who's Who infatti crolla sotto un sample di Gary Wright strasentito e mortalmente monotono/fastidioso se reiterato per più di due minuti, cosa che qui appunto avviene; Big Business viaggia invece su un loop la cui unica variazione è il cambio di ottave e per il resto sembra essere un abbozzo di (cattiva) idea; Closed Session è uno degli esempi più lampanti di posse cut rovinata da un beat cacofonico e noioso per cui dobbiamo ringraziare Babu. Ma la maggior delusione è data da This Way: per quanto io detesti Kanye come rapper e come personaggio, non ho mai nascosto il mio apprezzamento per diversi suoi beat, specialmente quelli prodotti conto terzi come Throw Your Hands dei Mobb, Selfish dei Slum Village o Down & Out di Cam'Ron. Anzi, ho sempre pensato -almeno fino a Gradutaion- che Kanye valesse come beatmaker più nei progetti esterni che sui solisti. Ma This Way costituisce una prove dell'esatto opposto: le uniche due cose che si salvano sono il pattern di batteria con la relativa accoppiata bonghi+clap, e il campione di flauto; il resto è una schifezza innominabile, a partire dalle trucide tastierine Bontempi per giungere al ritornello, che dopo la prima strofa oltretutto termina in un bridge cantato di una pacchianaggine tale da far pensare ai peggio musical anni '50.
Insomma, musicalmente direi che abbiamo un 40% di cose degne o degnissime, un 30% di materiale discreto ed un 30% di sincere porcherie. Ebbene, anche come emceeing le percentuali sono più o meno queste. Vedete, Ev e Rakaa per me sono stati al massimo competenti ma mai (o quasi) davvero bravi -singole strofe irrilevanti ai fini della regola escluse; ciò che li ha sempre salvati, prima ancora dei pregi personali, è l'alchimia che oggettivamente sussiste tra i due. Il flow lento e la metrica semplice di Ev compensano quelli più aceyaloniani di Iriscience, e viceversa la voce piatta e priva di carisma del secondo compensa quella caratteristicamente bassa e metallica del primo. E va bene: peccato che come scrittori non valgano molto, e ciò si nota in maniera molto forte in questo Neighborhood Watch, in cui (diamogliene atto) cercano di affrontare un numero di temi piuttosto vario; la loro inconsistenza si palesa ad esempio in una Big Business (sembra scritta da Daniele Silvestri), Love And War (inutilmente fintoprofonda) o Tryin' To Breathe (inutilmente lagnosa e confusa). Il che è scocciante, perchè laddove invece riescono ad avere dei momenti di lucidità -la già citata strofa di Rakaa in Poisonous, Reach Us, i battleraps di Caffeine e Marathon- si può intuire il vero potenziale del gruppo.
Così come sono, invece, i Dilated continuano ad essere un buon trio capace di oscillare tra underground e mainstream di gusto, e magari anche uno di quei «marchi di fiducia» che pur non eccellendo riescono a lasciare sulla loro strada sempre un quattro-cinque pezzi belli ad album, ma poi morta lì. Neighborhood Watch tutto sommato funziona perchè -numeri alla mano- gli aspetti positivi sopravanzano quelli negativi, ma se devo essere sincero credo che i Dilated siano un gruppo a cui un greatest hits farebbe davvero molto ma molto bene.





Dilated Peoples - Neighborhood Watch

VIDEO: THIS WAY

venerdì 12 marzo 2010

EPMD - BUSINESS NEVER PERSONAL (Def Jam/RAL, 1992)

Quando si parla di EPMD gli album che vengono tirati in ballo sono, a seconda dell'età dell'interlocutore, fondamentalmente due: Strictly Business (1988) e Back In Business (1997). E anche nella remota eventualità che si parli con una persona più che competente, difficilmente Business Never Personal viene citato tra le grandi opere del duo di Long Island. Un fatto francamente incomprensibile.
L'ultima carta del loro poker di capolavori rappresenta difatti una svolta stilistica non comune e certamente non scontata, in cui Erick & Parrish ridipingono il loro suono adoperando tinte fosche, senza però con ciò snaturarne l'essenza; in altre parole, il funk fino a quel momento piuttosto solare vira verso note più cupe e con esso l'attitudine dei due MC. E per quanto all'epoca vi fu chi li criticò per una serie di «licenze poetiche» similgangsta (cose che risentite oggi fanno sorridere: erano proprio altri tempi), nemmeno i critici più feroci poterono negare la potenza dei beat di Erick Sermon e la bellezza di pezzi come Crossover, Nobody's Safe Chump e LA posse cut Headbanger.
Inequivocabilmente votati alla cultura dell'underground, inteso come unico spazio dove poter creare musica libera e di qualità, gli EPMD mostrano tutte le loro capacità fin dal singolone Crossover, in cui un bel campione degli Zapp (ripreso anche da Mauro Repetto, ci terrei a ricordarlo) prende una piega più vicina a Kool G Rap che non a Dr. Dre, il tutto mentre i due si scagliano senza esitazioni contro qualsiasi tentativo di diluire la purezza dell'hip hop. Una dichiarazione d'intenti, questa, che pur non venendo esplicitata altrettanto chiaramente nelle restanti dieci tracce del disco, traspare pressochè da ogni singola di esse: sia che si tratti dell'ode alla loro Long Island (Boon Dox) che del tipico pezzo ufficialmente anti-troie ma ufficiosamente misogino (Play The Next Man), sia che si concedano un unusuale tough talk (Nobody's Safe Chump) che un semplice battle rap (Head Banger, Cummin' At Cha).
Come sempre, anche in quest'occasione molte delle basi hanno retto benissimo al tempo ponendosi talvolta all'avanguardia nella scelta dei campioni: Chill, per esempio, non avrebbe bisogno di tante modifiche per poter essere riutilizzata oggigiorno (e il campione degli ESG non era esattamente nuovo già allora), mentre Nobody's Safe Chump ha come bonus la freschezza del campione di Bobby Womack, riutilizzato negli anni a venire dai Real Live a Casual, passando persino per il nostrano Inoki. Idem per Boon Dox, quasi un'antesignana dello stile di Black Milk, e Cummin' At Cha coi suoi charleston "strascicati" e contrapposti a cassa e rullante netti e regolari. Unica macchia sotto quest'aspetto è la conclusiva Who Killed Jane, indubbiamente l'episodio della saga più brutto, che soffre di un beat che pur volendo chiaramente rimandare la memoria alle precedenti Jane alla fine risulta solamente ripetitivo e privo d'inventiva.
In conclusione: d'accordo che l'album è breve (38'57'') e che considerato ciò anche solo una traccia non riuscita si fa sentire, ma come posso dargli solamente quattro? Headbanger è una bomba ancor'oggi e la strofa di Redman è la consueta bomba; Crossover è capace di insegnare diverse cose ancor'oggi su come si dovrebbe fare un pezzo purista che funzioni (non a caso riscosse un ottimo successo) e persino le tracce cosid. «minori», come Boon Dox o Chill, risultano di uno spessore non comune.






EPMD - Business Never Personal


VIDEO: THE HEADBANGER

giovedì 11 marzo 2010

FREEWAY & JAKE ONE - THE STIMULUS PACKAGE (Rhymesayers, 2010)

Volendo attuare un'opera di cosmesi della mia prosa, credo che non via siano al momento dischi più idonei di questo Stimulus Package, un'inedita collaborazione tra il produttore di Seattle Jake One e l'MC di Philadelphia Freeway pubblicata poche settimane or sono e che finora ha raccolto giudizi tendenzialmente positivi da più parti.

Il termine più corretto per definire l'esperienza d'ascolto di quest'opera è «solida», laddove questa solidità si manifesta in beat piuttosto freschi nella forma ma ortodossi nella sostanza, e in un emceeing da cui traspare tutta l'esperienza dell'ex discepolo di Beanie Siegel. In poche parole, Stimulus Package mantiene la promessa insita nel titolo e -pur seguendo la parabola discendente nel tempo analogamente alla sua controparte economica- alla fine si risolve essere un'altra aggiunta di rilievo nel buon panorama musicale di questo inizio 2010.

La prima persona con la quale complimentarsi è senz'altro Jake One, che tesse una trama di sonorità capace sia di evidenziare i pregi di Freeway che di nasconderne i difetti. Uscito -spero per sempre- dal vortice dell'eccessiva tamarraggine esibito sul suo deludente White Van Music, per Stimulus Package il produttore di Seattle torna predominantemente ai campioni soul riuscendo però ad utilizzarli in una chiave meno nostalgica degli emuli di Pete Rock. Le batterie danno una cadenza marziale al tutto, le melodie originali vengono spezzate e ricomposte in maniera omaggiando apertamente Marley Marl, ed il basso serve quasi solo per enfatizzare le prime: questi i tratti distintivi di uno stile di produzione che deve sì molto ai maestri di New York, ma che come potenza e pienezza del suono guarda chiaramente a Dr. Dre.

Eccezionali in tal senso sono il secondo singolo Throw Your Hands Up, ottimo sia come pezzo da concerto che come «jeep music», l'incalzante Microphone Killa (bella la combinazione tra piano e fiati e azzeccato l'omaggio a Guerrillas In The Mist) e Money, il cui giro di violino riecheggia non poco il gusto del Wu intorno al '97. Ma la qualità del beatmaking non si ferma di certo qui: che dire del crescendo di synth di Follow My Moves o dei bassi à la DJ Spinna di Freekin' The Beat? Non si scappa: Jake One mostra al contempo un ritorno alle sue origini ed un'evoluzione del suo caratteristico stile, il che si concretizza in quindici beat la cui qualità va di pari passo con la loro freschezza e la loro godibilità. Persino piccoli faux pas come il banale riutilizzo di Mary Jane di Rick James (in She Makes Me Feel Alright) o l'inclusione di Free People -quasi un a cappella che fa a pugni con il resto delle basi- passano in secondo piano, rendendo così questo disco l'ennesima conferma che utilizzare un unico produttore è ormai una scelta che difficilmente potrà risultare perdente.

E questo è doppiamente vero se tra MC e beatmaker c'è una vera alchimia, come in questo caso. Se difatti è secondo me vero che Freeway, a fianco di indubbi pregi come la precisione del flow e la pulizia della metrica, presenta difetti non da poco (come un vocabolario ristretto ed una certa monotonia vocale), è anche vero che questi spesso vengono celati da Jake One grazie ad un sapiente uso di pause, distacchi o sample vocali. Due esempi: i numerosi controtempi di Never Gonna Change ed il campione di Know What I Mean (senza il quale non mi sarei accorto che è lo stesso di 125 Grams Pt.1 di Joell Ortiz). E quand'anche questi non dovessero bastare, ecco che nella seconda metà del disco saltano fuori diversi ospiti ad alleggerire l'inevitabile pesantezza insita nello stile di Free: Raekwon regala una strofa bella pulita in One Thing, Young Chris corona impeccabilmente Microphone Killa e persino i ritornelli cantati di Freekin' The Beat e Money aggiungono un valore alle rispettive canzoni. A conti fatti, l'unico che sarebbe da abbattere senza pietà -ma questo a prescindere dalla prestazione qui data- è quel cialtrone incompetente di Baby aka Birdman [no homo], il quale non ha nessun titolo per stare dietro ad un microfono e che nuovamente mi offre motivi validissimi per maledire tutta la "scuola" Cash Money per inquinare l'hip hop da ormai troppi anni.

Ma eccetto il sopracitato imbecille, ed una sostanziale vacuità contenutistica di Freeway (altro suo difetto: non ha nulla di lontanamente rilevante da dire), anche il versante lirico di Stimulus Package risulta solido, pur non quanto la controparte musicale. Il risultato finale è che abbiamo tra le mani un disco che funziona, dove quasi ogni rotella dell'ingranaggio s'incastra perfettamente nel meccanismo complessivo e che è capace di fornire un'ottima varietà di atmosfere. Ne consegue che esso va bene sia ascoltato in cuffia, sia in macchina, sia d'inverno, sia infine in estate: francamente non ho nulla di cui lamentarmi. Stupendo anche il packaging (vedere per credere: 1,2,3), che riconferma come la Rhymesayers sia -assieme alla Stones Throw- l'unica etichetta prettamente reppusa dotata di una visione matura di quello che significa avere una comunicazione visuale slegata da standard vecchi di quarant'anni.






Freeway & Jake One - The Stimulus Package

Freeway & Jake One - The Stimulus Package Instrumentals (Mirror, perchè di registrarmi tramite la schedina proprio non avevo voglia)


VIDEO: KNOW WHAT I MEAN

mercoledì 10 marzo 2010

BIG TWINS - THE PROJECT KID (Dirt Class, 2009)

Uno dei vantaggi dell'ascoltare rap è la possibilità di sceglierne la varietà desiderata tra un'infinità di sottogeneri in continua espansione e riformulazione; ad esempio, come muore un g-funk ti salta fuori un crunk e via slanghizzando. Circa questa peculiarità credo infatti che solo il metal abbia più sottogeneri, peraltro dai nomi ancora più buffi e dagli esponenti ancor più privi d'autoironia che nel rap, per non parlare poi dei fan e --- scusatemi, sto divagando, torniamo a noi.
Stavo dicendo: a proposito del numero di diversi stili, o varianti di essi, è sorprendente come anche all'interno di un sottogenere come il rap di matrice nuiorchese vi siano tante varianti da soddisfare persino un palato esigente come il mio. E per quanto io non rifiuti mai una sana pastasciutta -nella metafora rappresentata dalla qualità garantita del boombap più ortodosso- talvolta non disdegno spingermi nei reami più oscuri del gusto, laddove ad un estremo può trovarsi ad esempio un Kid Cudi, e all'altro, l'unico, il mitico e l'inimitabile Twin Gambino. Ma se reputo interessante ascoltare il Sandro Ciotti del QBC ben più di tanti suoi colleghi, stavolta ciò non è dovuto solo alla particolarità del Nostro bensì al fatto che sfrutti per bene le potenzialità offerte dallo stile di produzione dei Sid Roams. Uno stile contraddistinto principalmente dal pesante ricorso a synth e a campioni anni '80 che vanno ad adagiarsi su basi lente dai bassi ben corposi, sovente più d'impatto delle batterie, e da cui trasuda in un certo qual modo l'origine californiana del duo. E per chi dovesse riconoscere in questa sommaria descrizione più l'ultimo Alchemist che non il duo di Joey Chavez e Bravo, gli risponderei che non ha torto ma che i secondi rappresentano il versante più ruvido di questo sound.
Del resto, basta vedere come essi si rapportano agli altri beatmaker che appaiono in Project Kid, cioè il sopracitato Alchemist (tre pezzi), Jake One e Havoc (due cadauno): il suono dei Roams è preponderantemente caratterizzato da sintetizzatori, elementi suonati ad hoc o comunque sample che non hanno pressoché nulla della classica soul o fusion da cui solitamente si campiona. In più, il lavoro svolto con le batterie è decisamente diverso dagli altri, con lunghe pause tra un colpo di rullante e l'altro che possono essere riempite in vari modi ma che tendenzialmente sfuggono alla regolarità di un Havoc o di un Alc (prendete ad esempio l'ottima Get 'Em Dog e paragonatela ad una Wanna Be Down o una Project Kid), così come suonano diverse rispetto alla matrice soul di Jake One e all'uso che quest'ultimo fa del basso, atto più a strumento di percussione che non di "avviluppamento" del beat.
Tutto questo non tanto per dire che Bravo e Chavez schiaccino gli altri contribuenti, bensì per marcare una differenza stilistica relativamente considerevole tra loro e gli altri fautori di questo genere di beatmaking. Se invece volessimo appunto esprimere giudizi qualitativi, direi che proporzionalmente il livello è del tutto paritetico. Ad esempio, Jake One manca il bersaglio con la monotona When I Say G (bella la cassa, però), mentre in How I Feel azzecca pressoché tutto e grazie all'ottimo campione vocale la trasforma in una delle migliori canzoni di tutto Project Kid; Alchemist, invece, riesce a riutilizzare in maniera quasi impercettibile Nautilus per Wanna Be Down, ma è solo con Smart Niggaz e l'eccellente When I Walk Away che si fa valere per il produttore esperto che è, tagliando un campione soul ed accompagnandolo a batterie belle tirate che ricordano (non poco, diciamocelo) Shoot 'Em Up Pt. 1 di Big Noyd. Quanto a Havoc, in Number One egli cazzeggia malamente con uno spregevole campione da videoclip di Bollywood, come solo nelle tivù dei kebabbari più trucidi, ma perlomeno ha il buon gusto di rifarsi con una title track forse non geniale ma assolutamente perfetta per il tipo di testo e soprattutto bella cupa e giocata su di un classico loop di piano.
Ma, venendo a Bravo e Chavez, la palma di pezzo migliore la prende senz'altro Bacon & Cheese, dove un sample di un videogioco a 8 bit crea il mood perfetto per sciogliere le briglie all'ignoranza di Twins e Prodigy; niente male anche la già citata Get 'Em Dog e la Jean-Michel-Jarriana (ne sono certo!) Just Don't Give A Fuck, il cui unico difetto è quello di essere troppo breve. Purtroppo, per Thunn Street e Drop 'Em Off siamo in odore di pilota automatico e viene a mancare un po' la forza e la freschezza dei pezzi precedenti, mentre tutto sommato non ne escono male Trip Thru the PJ's e Can't Call It, unici due aperti ammiccamenti al soul dove la peculiarità dei Roams un po' si perde ma in compenso a guadagnarci è la varietà.
Perchè -parliamoci chiaro- qui l'unica varietà che conta proviene dall'ambito delle produzioni che, analogamente all'epigone chic di Project Kid che è Weatherman di Evidence, sono l'unico motivo serio per comprare il disco. Nel senso che ad eccezione di un paio di rarissimi accenni riflessivi sparsi quà e là, Gambeezy rappa lentamente e semplicisticamente di puttanatone ultragangsta. È chiaro, lo si sa, e chi apprezza questo non può che provar piacere in quanto tutto sommato anche lui una sua unicità ce l'ha; chi riuscirebbe infatti a concepire momenti di estasi poetica come "I got this grimey-ass bitch named Ruthie -YEEEEAAAWRGH- she can move three bricks in her asscrack... WHAAAT UP!" battendosi le palle se ci sia una rima o meno ed emettendo versi gutturali a caso? Nessuno, proprio così. Come Califano, stessa roba, ma con beat migliori. Senonché, ecco, non rappresenta propriamente il nec plus ultra della tecnica.
Al che va da sè che si apprezza molto la breve durata dell'opera -appena 45 minuti, skit e puttanate varie inclusi- perchè altrimenti tutto questo popo' di tough talk e voce raschiata sarebbe potuto venire a noia persino alle orecchie più ben disposte. Così com'è, invece,The Project Kid è un oggettino di culto per i fan del Cinghiale #1 del QB, il quale è riuscito a produrre un album che, al di là degli alti e bassi qualitativi, manca solo di ospiti degni di questo nome (vi dico che gli Hard White sono, eccetto Prodigy, i più bravi. Immaginate il resto!) e magari di un bel pestone alla vecchia maniera. Che poi il tre e mezzo sia attribuibile al 98% alla qualità dei beat... beh, chissenefrega, e io comunque sono di parte.





Big Twins - The Project Kid

VIDEO: BACON & CHEESE

martedì 9 marzo 2010

GANGSTARR - MOMENT OF TRUTH (Noo Trybe, 1998)

Moment Of Truth è, come ogni capolavoro, un insieme di sfaccettature la cui somma delle parti trascende la mera matematica per diventare un qualcosa di assolutamente unico da qualsiasi prospettiva lo si voglia inquadrare. Non è solo un disco oggettivamente perfetto in cui si ritrova la sublimazione di una formula, è anche una specie di "segnalibro" avente un valore al contempo universale e personale: esso segna l'apice di un'epoca, indicando en passant l'evoluzione di quella che la seguirà e lasciando, di sponda, un segno indelebile nella memoria di chiunque lo abbia ascoltato all'epoca.
La pubblicazione di Moment Of Truth contrassegna infatti la definitiva spaccatura tra mainstream e underground, caratterizzando lo stile di quest'ultimo come nessun'opera era riuscita a fare fino a quel punto e nemmeno più vi riuscirà in futuro: pensate solo all'ondata di beat di Premier che avrà luogo tra il '98 ed il 2002 e, durante e dopo di essa, l'ondata di relativi imitatori (che quasi finirà con lo screditare un certo tipo di produzioni). E così si può dunque senz'altro parlare di enorme influenza in ambito musicale, non c'è dubbio; ma sarebbe peccaminoso fermarsi qui, e allora aggiungiamo che esattamente così come sorprendente fu il cambio di rotta di Primo in Daily Operation, ad esserlo qui è quello di Guru. Keith Elam forse non si era mai distinto per capacità di stupire, bensì per qualità e consistenza; ma in MOT è impossibile non riconoscere la vertiginosa crescita avuta da questi, prima ancora che in termini puramente tecnici, in quelli di scrittura.
Bene: questa unione di talenti è riuscita, dodici anni fa, a creare una di quelle poche opere dotate di tale bellezza da farti ricordare esattamente cosa stavi facendo nel momento in cui dalle casse dello stereo cominciavano ad uscire i primi suoni del campione di Flash It To The Beat e si sentiva Primo andare in voiceover gridando "The real... hip hop... emceeing and deejaying, from your own mind you know". Non vi annoierò con inutili note autobiografiche, ma state pur certi che è assai probabile che anche tra vent'anni mi ricorderò di quel pomeriggio di aprile del '98.
E come è già stato fatto notare altrove, il miglioramento di Guru è la prima cosa che si nota dopo essersi ripresi dall'impatto delle batterie di Preem: le sue tre strofe di battle rap purissimo trasudano personalità e confidenza in sè stesso come solo uno come lui potrebbe avere, e ora che si giunge al primo ritornello -cuttato, va da se- si ha abbassato ogni sorta di guardia e ci si è lasciati conquistare ancora una volta da questo duo. Una sorta di ipnosi, questa, che se subisce un microscopico rallentamento nella successiva Robbin' Hoodz Theory, vede da Work in poi un'impennata che prosegue pressoché senza soste fino alla fine del disco. Un fattore raro e che diventa quasi unico se consideriamo la durata dell'opera, cioè 20 tracce per quasi ottanta minuti di musica.
Ora, stabilire quali sono le fondamenta che reggono l'eccezionalità di Moment Of Truth è abbastanza semplice: si tratta di perfezione, varietà e profondità. La prima delle tre è facile da riconoscere ma difficile da spiegare, a meno che non si voglia provare a mettere nero su bianco quello strano «qualcosa» che spinge noialtri ascoltatori di rap a nicchiare con il capo come dei piccioni dementi. Più semplice risulta allora provare ad illustrare le altre due principali caratteristiche di questo disco, partendo dalla varietà. Varietà che si manifesta sia in termine di beat che di contenuti: i primi infatti possono passare con disinvoltura dalla durezza di You Know My Steez al soul di JFK To LAX, dalla malinconia di Betrayal all'aggressività di Militia, dal minimalismo di It's A Setup alla ricchezza di suoni di Royalty. Eppure, in tutti questi si sente il tocco di Premier e soprattutto affiora la convinzione, la certezza, che nessuno eccetto lui avrebbe mai potuto produrre del materiale così efficace oltre che bello: Work, per esempio, cattura l'ascoltatore non solo grazie alla sua forza d'impatto ma anche grazie alla melodia, esattamente così come il loop di piano di What I'm Here 4 attrae grazie alla sua leggerezza pur risultando a conti fatti piuttosto semplice nella struttura. Un'efficacia che si rispecchia anche nelle prestazioni di Guru, che mantiene una personalità a cavallo tra la durezza, la coscienziosità ed un generale coolness che da sempre contribuisce a rendere i suoi testi ancor più interessanti da ascoltare.
E volendo ora spendere due parole sulla terza ed ultima caratteristica di rilievo di Moment Of Truth, ossia la profondità, è doveroso tirare finalmente in ballo Guru e vedere quali sono stati i suoi miglioramenti. Il primo risulta evidente e riguarda la tecnica; laddove egli era sempre stato pulito ma un po' rigido nella metrica, qui ha fatto un notevole salto di qualità costruendo intrecci di sillabe ben più complessi ma che comunque non vanno a scapito del messaggio. Ed è proprio questo messaggio, o per meglio dire le modalità con cui esso viene portato all'ascoltatore, ciò che in realtà alla fine risalta maggiormente nei testi di quest'album. Attraverso gli occhi dell'autore ci viene consegnata una visione su diversi aspetti della vita che passano dai più futili a quelli più seri, col risultato finale di riuscire a stimolare un pensiero senza per questo annoiare o suonare eccessivamente autoesegetico. Difatti, per quanto il Nostro gonfi giustamente il petto in pezzi come You Know My Steez o The Rep Grows Bigga, le numerose autocritiche contenute in JFK To LAX o Moment Of Truth non lo fanno sembrare un abbaione; e se la serietà di una Betrayal o di una What I'm Here 4 potrebbero risultare pedanti se ripetute in ogni traccia, allora ecco che, senza sconfinare nel semplice battle rap, ci pensa un B.I. VS Friendship a riportare il mood su un binario più leggero. Aggiungiamo a tutto questo una serie di pezzi fatti per deliziare il palato del fan di rap duro & puro -la celebre Above The Clouds, It'z A Set Up o The Militia- oltre a numerosi ammiccamenti al mondo femminile, ed ecco che l'equilibrio presente in questi 80 minuti scarsi di musica si guadagna un'importanza pari a quella della tanto acclamata produzione musicale di Premier.
Dal canto loro, gli ospiti spezzano adeguatamente il flusso del disco e nessuno di essi si produce in performance inferiori alle aspettative. Anzi: Deck fa meraviglie e la sua strofa in Above The Clouds è giustamente considerata come una delle sue cose migliori; gli M.O.P. conferiscono una sana dose di aggressività a B.I. VS. Friendship, così come del resto fa Bumpy Knuckles in Militia; Scarface si conferma come uno degli MC più sottovalutati di sempre e Hannibal Stax, infine, scrive sedici misure assolutamente eccezionali dove usa una metrica che ancor'oggi mi lascia a bocca aperta. Unica nota negativa: G-Dep e Sha in the Mall che, come del resto tutta la canzone (francamente fiacca -e stupida- se paragonata al resto dell'album), si producono in versi che fortunatamente il flusso del tempo ha già cancellato.
Conclusione? Massimo dei voti, si capisce; più il mio personale riconoscimento come miglior album dei Gangstarr nonché uno dei dieci dischi fondamentali degli anni '90, accanto a robette come Illmatic, Enter The Wu e Infamous.





Gangstarr - Moment Of Truth

VIDEO: ROYALTY

lunedì 8 marzo 2010

ALCHEMIST - THE MIXTAPE (2003)

Oggi non avrò molto tempo a disposizione e pertanto, piuttosto che buttar giù una recensione alla cazzodicane, preferisco mantenermi sul breve e girarvi piuttosto un "mixtape" (virgolettato in quanto di professionale c'è poco) fatto diversi anni or sono, quando Alc stava cominciando davvero ad avere un nome sul mercato. Ora, è chiaro che una sorta di raccolta come è questa può facilmente essere datata e quindi perdere di senso/valore se riproposta a una distanza di tempo così lunga, però reputo (immodestamente) che a fianco di scelte inevitabili -e anche un po' banalotte- come Keep It Thoro o E=Mc²- ve ne siano altre più interessanti come uno degli ultimi pezzi di F.Y. (preso dalla colonna sonora di Final Destination 2, pensate un po'), Life Sucks di Poverty e The Red Light dei Smut Peddlers. Certamente, col senno di poi si sarebbe potuta togliere tranquillamente Bangers o Turn It Up per inserire altro, ma cosa volete farci? Meglio di un calcio nei denti...

01. Live On Stage - Dilated Peoples
02. Shoot 'Em Up (Bang Bang) - Big Noyd
03. The Red Light - Smut Peddlers
04. The Man The Icon - Big Daddy Kane
05. Kill It - D&D All Stars
06. Keep It Thoro - Prodigy
07. B.I.G. T.W.I.N.S. - Twin Gambino
08. Say Yes- Saigon
09. The Legacy - Cormega
10. Let 'Em Hang - Lake feat. Nas & V-12
11. Mobb Niggaz Pt.2 - Infamous Mobb feat. Prodigy
12. Bang Bang - Capone 'N' Noreaga feat. Foxy Brown
13. Turn It Up - Sheek Louch
14. Life Sucks - Poverty
15. Top Prospects - The High & MIghty feat. Evidence & Defari
16. John F. Hennessey - F.T.
17. Let's Get Down 2 Bizness - Boot Camp Clik
18. E=Mc² - Mr. Eon & Evidence
19. We Gonna Make It - Jadakiss feat. Styles P
20. Bangers - Lloyd Banks

Alchemist - The Mixtape

VIDEO: WE GONNA MAKE IT

venerdì 5 marzo 2010

JAMAL - LAST CHANCE, NO BREAKS (Rowdy, 1995)

Suppongo che tutti coloro che stanno leggendo queste righe abbiano avuto modo di ascoltare almeno una volta Little Young di Masta Ace e EdO.G, dove i due veterani giocano con tutti quei noms de plume che iniziano per «Lil'» e «Young», e che tanto sono gettonati oggigiorno quanto sovente corrispondono ad un discreto grado d'incapacità. Bene: se i cosiddetti «hater» dei tempi nostri sono più che propensi ad incattivirsi con i suddetti Yung Berg, Lil' Keke eccetera, ci terrei a ricordar loro che in realtà questa gentaglia andrebbe ringraziata: cucendosi addosso un simile marchio d'infamia, infatti, essi ci avvertono del potenziale pericolo d'ascolto esattamente come i pesci velenosi, tramite i loro colori vivaci, ci avvisano della loro letalità.
Non sempre è stato così.
Quando nella prima metà degli anni '90 esplose il fenomeno dei baby rapper grazie ai a causa dei Kris Kross, coloro che cercarono in un qualche modo di ricalcarne i passi alla ricerca di un certo successo avevano in realtà nomi normalissimi. Per cui poteva succedere che l'ascoltatore ignaro si avvicinasse all'album di, non so, un Shyheim o degli Illegal di turno pensando di avere a che fare con gente i cui testicoli erano già ricoperti di pelo, ed invece si trovava a che fare con degli sbarbi poco più sopportabili delle voci bianche dei Wiener Sängerknaben. Quel che è peggio, inoltre, è che -diversamente dalle loro controparti animali- spesso i suddetti tendevano ad adescare l'ascoltatore coinvolgendo nomi integerrimi della scena: Premier, Pete Rock, RZA o comunque gente che mai avresti pensato che avrebbe potuto lasciarsi andare alla pedofilia musicale. Ne consegue che l'aficionado, avido di sentire un nuovo beat di primo o di Erick Sermon, si tuffasse a pesce su quella che con estrema facilità si poteva già definire allora pura e semplice fuffa.
Per mia ventura, e per questioni legate all'anagrafe, questa sfortuna non mi capitò mai: quando uscirono i vari Kris Kross, Illegal e Youngstas io o ancora non ascoltavo rap, oppure ero comunque completamente ignaro della loro esistenza; il rovescio della medaglia di questa mia ignoranza è stato però che quando seppi di tale Jamal (grazie al suo featuring in The Coming di Busta Rhymes) non lo collegai al cosid. kiddie rap. Di conseguenza, alla prima occasione possibile di comprare Last Chance No Breaks a scatola chiusa, anzichè far finta di nulla e tirar dritto per la mia strada non ci pensai due volte e lo feci mio.
Vedete, il problema non è tanto che questo sia un album oggettivamente brutto, perchè non lo è. È molto peggio, in realtà: Last Chance No Breaks rappresenta infatti il benchmark della mediocrità più disarmante e noiosa. La totale impersonalità contenutistica, la fiacchezza stilistica dell'autore ed una pletora di beat al massimo "carucci" hanno giustamente condannato quest'opera all'oblio, e solamente un nostalgico cretino come il sottoscritto potrebbe ritirarlo fuori per ascoltarlo e riproporlo. Ma tant'è. Già che siamo qui vediamo di sprecare due frasi su Jamal e sulla sua unica opera solista.
Reduce dal flop commerciale degli Illegal e dalla innegabile bruttezza del loro album d'esordio, Jamal Phillips si legò per breve tempo alla Def Squad di Erick Sermon & C. e, oramai persa l'allure da baby rapper, nel '95 decise di pubblicare un album che potesse davvero dirsi suo. Al che, sfruttando le conoscenze dell'ambiente, chiamò alle macchine nomi validi e/o eccellenti come Easy Mo' Bee, Erick Sermon e Mike Dean, mentre al microfono decise di farsi aiutare esclusivamente da membri della Def Squad -Redman in primis. E, volendo dare a Cesare quel che è di Cesare, decise di non farla lunga e di consegnare ai posteri un album costituito da sole undici tracce senza nessuno skit. Che dite, sulla carta pare funzionare, o no?
Certamente sì, senonché il suo successo si limita appunto alla pura teoria e, al massimo, a due o tre canzoni. La prima sarebbe indubbiamente Fades 'Em All nella sua versione remixata da Pietrino Roccia, la quale però sfortunatamente non è presente sull'album; peccato, perchè l'originale, priva del tiro dato dal campione effettato dal Soul Brother, perde pressochè interamente la sua ragion d'essere. Pazienza: meglio va con il secondo singolo, quella Keep It Real prodotta da Erick Sermon che fa del loop di piano di Stevie Wonder il suo punto di forza, regalandole un'atmosfera a metà tra un club jazz ed un set di soft porno; per converso, l'iniziale Live Illegal è un pestone semplice ma efficace costruito su un ottimo ritornello cuttato e su quel boombap molto lento che caratterizzava le produzioni di Easy Mo' Bee dell'epoca, e che, con la sua breve durata (soli tre minuti), ai tempi dell'uscita del disco sarebbe stata definita «phat» con la piacca. Last but not least, menzionerei la posse cut Genetic For Terror: non solo perchè il campione di Boogie Man dei Jackson 5 viene sfruttato in maniera senz'altro valida, ma anche e soprattutto perchè qui Keith Murray e gli altri ospiti (portaborse di quest'ultimo, mentre dei pur annunciati E Double e Redman non c'è traccia) rendono finalmente interessante dal punto di vista lirico una delle tracce di questo Last Chance No Breaks.
Perchè sì, il problema principale di quest'ultimo è che Jamal a rappare è una schiappa. Non una schiappa esagerata come, che so, Skee-Lo, ma pur sempre piuttosto fiacco: rigido come una carogna di tonno, la triviale metrica di cui il Nostro fa uso non gode nemmeno delo scudo che può dare -che so- una bella voce o dei testi validi. 'Mal è una sorta di MC a gettone: tu gli dai due soldini e lui rappa, e la cosa finisce lì. E la cosa può anche andar bene se la base che lo regge è di qualità (vedi sopra), ma quando questa s'attesta sui valori medi del genere "90 bpm stile New York millenovecentonovantacinque" allora è inevitabile sprofondare nella sonnolenza più infame e letale. Doppiamente letale se si pensa poi che album come questo non hanno ragione d'esistere al di fuori del puro intrattenimento, e... beh, e francamente piuttosto che farmi intrattenere da Jamal per quarantacinque minuti preferirei fissare una parete bianca. Insomma, non esattamente un fallimento su tutta la linea ma poco ci manca.
Contenuti, zero. Carisma, zero. Competenza, poca. Beat, accettabili. E per giunta non c'è nemmeno il remix di Fades 'Em All: inutile dirvi cosa vale questo disco, no?





Jamal - Last Chance, No Breaks

VIDEO: KEEP IT REAL