"The idea concerns the fact that this country wants nostalgia. They want to go back as far as they can - even if it's only as far as last week. Not to face now or tomorrow, but to face backwards". Così scriveva Gil Scott-Heron riguardo all'elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca, ma ovviamente il discorso era più ampio. Non a caso, gli anni '80 (ed in minor misura i '90) vanno ricordati per essere stati il decennio in cui buona parte dei diritti civili acquisiti dalla fine degli anni '50 fino ai '70 sono stati metodicamente cancellati o aggirati per vie legislative, mentre al contempo le idee fondanti che avevano portato a quei cambiamenti venivano considerate semplicemente démodé con grande plauso delle cosiddette "maggioranze silenziose" (per quel che mi riguarda, da questo punto di vista la marcia dei 40.000 è stato uno dei momenti "unici" più bassi della storia recente italiana). Da un punto di vista politico e sociale è stato indubbiamente così, e difatti oggi ne stiamo pagando le conseguenze, ma da quello musicale no. O comunque non in maniera così totalitaria e asfissiante.
Sappiamo tutti infatti che mentre le classifiche di Billboard ed epigoni internazionali straripavano delle varie Belinda Carlisle o Huey Lewis & The News, che a dispetto delle vendite milionarie oggi vivaddio non s'incula più nessuno (salvo gli ex yuppie col Silver Wing, ma sono casi irrecuperabili), negli Stati Uniti maturava un genere che a nonostante i mille ostracismi di tipi culturale e discografico negli anni successivi si sarebbe imposto come la musica di riferimento. Comprensibilmente, ciò diede (e da) sui nervi a tutti coloro che invece il genere non lo apprezzano e che (altrettanto comprensibilmente) non ne poterono più sapere dei vari Fiddy e compagnia bella; paradossalmente, anche i tanto vituperati puristi non gradirono il vero e proprio boom che l'hip hop ebbe tra il 1999 ed il 2005, visto che esso portò ad un continuo "taglio" della merce fino al suo completo annacquamento. Ora, nel 2009, in piena stagnazione artistica e commerciale, molti si grattano la testa indecisi sul da farsi e ad eccezione di pochi movimenti che in questi ultimi anni hanno saputo dare un colpo di reni (mi viene in mente la Stones Throw e, più di recente, Detroit tutta), molti di noi aficionados sono rassegnati a cercare la qualità nelle vecchie glorie.
Sia ben chiaro che m'includo tra queste persone: negli ultimi anni spendo quasi più soldi per dischi pubblicati dieci o vent'anni or sono che non per quelli contemporanei. Tuttavia, di tanto in tanto non disdegno vedere cosa succede "alla giornata", e quando una delle sopracitate "vecchie glorie" decide di pubblicare un disco nuovo tendo a dargli perlomeno una chance. Per Prince Po questa è addirittura la seconda, che viene dopo il suo ritorno alla ribalta con il solista The Slickness del 2004. Non spenderò parole in merito perchè magari lo redensirò nel prossimo futuro, ma mi limiterò a dire che non mi aveva convinto più che tanto, sicché quando mi sono trovato Prettyblack tra le mani il mio approccio è stato estremamente prudente. Ebbene, dopo qualche anno posso dire che, per quanto di poco superiore al precedente album, Prettyblack riesce a risultare solamente discreto e con un andamento che definire altalenante sarebbe poco. Difatti, il disco si alza in volo con i primi pezzi, traballa nella sua parte di mezzo e si conlude dignitosamente con due bei pezzi. Questo riguarda sia i beat che Prince Po stesso, il quale non manca di manifestare diversità qualitative nella scrittura: così come può apparire ispirato in The City Sleeps, così sembra col pilota automatico attivato in Right 2 Know oppure platealmente fiacco in Breaknight, col risultato che alla fin fine l'unica cosa che puoi fare con Prettyblack è definirlo un disco "carino" (il che è in realtà terribile).
Partiamo però dalle cose buone: contrariamente a Slickness, qui Po è concettualmente più focalizzato: grossomodo vive tra amarcord personali e meditazioni reminescenti dell'afrocentrismo vecchia maniera mesolato a considerazioni più attuali. Questa combinazione funziona egregiamente sia perchè egli non sembra essere un cretino (anche se manca della lucidità analitica di un Mr. Lif), sia perchè ovviamente egli gode di una credibilità dovuta non solo ai propri trascorsi bensì anche alle sue attuali capacità. Tracce come Mecheti [sic] Lightspeed, U Right Hear, The City Sleeps o la title track non fanno altro che confermare la bontà della sua penna, la quale, una volta accostata ad uno stile ed una tecnica indubbiamente encomiabili, riesce a vincere & convincere. Degna di lode è anche la capacità acquisita di variare flow e giocare con la dizione a seconda che si tratti di un pezzo dal tiro veloce o uno più calmo; un'abilità, questa, che contribuisce a far salire il coefficiente di varietà che così si apre a ventaglio andando dal convincente throwback di Prettyblack alla contemporaneità di Mecheti Lightspeed, passando naturalmente per quelle strane canzoni "senza tempo" come The City Sleeps. Purtroppo, però, sovente egli cade nei cliché più beceri di questa terra: e da questo punto di vista mi dà quasi più fastidio il jovanottismo -ascoltare per credere- di una Right 2 Know che non la crassa povertà di idee stante dietro a Holla. Non voglio infatti mettere in dubbio la buona fede ma l'impegno: se uno decide di scrivere di argomenti potenzialmente profondi che lo faccia con la dovuta perizia, ed eviti invece di scadere in banalità e rotorica degne tutt'al più di un demo della gruppo ska del Berchet.
E anche i produttori: pur essendo gli eventuali difetti meno palpabili ciò non significa che essi non vi siano. Difatti, salvo rare eccezioni, la norma vuole che sia difficile trovare basi che ti facciano esclamare stupito "minchia, ma che è 'sta shhhchifezzah!?!". Almeno nei casi di dischi presentabili, il che esclude ovviamente i vari Shawty Lo e compagnia bella. Ma sto divagando; il fatto è che buona parte dei beat non riesce ad andare oltre al tanto temuto "carino", saltuariamente scadendo peraltro nell'altrettanto ingiurioso "banale". Right 2 Know, per dire, sembra più un inno che un vero e proprio beat; e non me ne abbia Large Pro, ma alla lunga diventa pure monotono. Analogamente, una Holla o una Family possono anche non far venir voglia di skippare ma di certo nemmeno possono spingere chi già conosce bene il rap (ovverosia il target effettivo di Prince Po) a premere il tasto rewind. Stando così le cose, dunque, alla fine della favola mi viene da menzionare positivamente ben poca roba: Mecheti Lightspeed è la prima, grazie ad un Madlib che mescola con gusto un loop ipnotico di violino ed un breve sample vocale, ambedue sorretti da alcune delle batterie e da una linea di basso più d'impatto che gli abbia sentito usare di recente. Ask Me, poi, ricicla il concetto di campione vocale usato come elemento attivo per la stesura del testo (cfr. Dreams di Game) ma, data l'atmosfera più futuristica dell'insieme, il risultato è senz'altro positivo (grazie anche ad una delle performance più impressionanti dell'intero disco da parte di Prince Po, va detto); così come anche il piglio rétro di Prettyblack funziona benissimo tanto che pare di essere tornati davvero al '92. Lodi finali vanno invece dedicate all'evocativa The City Sleeps, in cui grazie all'eccellente beat il messaggio dato dal didascalico titolo riuscirebbe a far breccia nell'immaginario del più prosaico degli ascoltatori senza nessun problema, e al tributo a J Dilla, U Right Hear, dove Prince Po omaggia il leggendario beatmaker di Detroit con un beat che in qualche modo -set di batterie e campione- lo evoca alla lontana.
Ma, come detto, i momenti di luce sono pochi e neppure poi tanto abbaglianti. Sono, cioè, belle canzoni e non capolavori. Ne consegue che, per quanto non siano presenti grossi svarioni qualitativi, questo Prettyblack non può spingersi oltre la soglia dei tre zainetti. Dategli un ascolto anche solo per The City Sleeps o Ask me, quindi, ma non aspettatevi una rivelazione.
Prince Po - Prettyblack
Sappiamo tutti infatti che mentre le classifiche di Billboard ed epigoni internazionali straripavano delle varie Belinda Carlisle o Huey Lewis & The News, che a dispetto delle vendite milionarie oggi vivaddio non s'incula più nessuno (salvo gli ex yuppie col Silver Wing, ma sono casi irrecuperabili), negli Stati Uniti maturava un genere che a nonostante i mille ostracismi di tipi culturale e discografico negli anni successivi si sarebbe imposto come la musica di riferimento. Comprensibilmente, ciò diede (e da) sui nervi a tutti coloro che invece il genere non lo apprezzano e che (altrettanto comprensibilmente) non ne poterono più sapere dei vari Fiddy e compagnia bella; paradossalmente, anche i tanto vituperati puristi non gradirono il vero e proprio boom che l'hip hop ebbe tra il 1999 ed il 2005, visto che esso portò ad un continuo "taglio" della merce fino al suo completo annacquamento. Ora, nel 2009, in piena stagnazione artistica e commerciale, molti si grattano la testa indecisi sul da farsi e ad eccezione di pochi movimenti che in questi ultimi anni hanno saputo dare un colpo di reni (mi viene in mente la Stones Throw e, più di recente, Detroit tutta), molti di noi aficionados sono rassegnati a cercare la qualità nelle vecchie glorie.
Sia ben chiaro che m'includo tra queste persone: negli ultimi anni spendo quasi più soldi per dischi pubblicati dieci o vent'anni or sono che non per quelli contemporanei. Tuttavia, di tanto in tanto non disdegno vedere cosa succede "alla giornata", e quando una delle sopracitate "vecchie glorie" decide di pubblicare un disco nuovo tendo a dargli perlomeno una chance. Per Prince Po questa è addirittura la seconda, che viene dopo il suo ritorno alla ribalta con il solista The Slickness del 2004. Non spenderò parole in merito perchè magari lo redensirò nel prossimo futuro, ma mi limiterò a dire che non mi aveva convinto più che tanto, sicché quando mi sono trovato Prettyblack tra le mani il mio approccio è stato estremamente prudente. Ebbene, dopo qualche anno posso dire che, per quanto di poco superiore al precedente album, Prettyblack riesce a risultare solamente discreto e con un andamento che definire altalenante sarebbe poco. Difatti, il disco si alza in volo con i primi pezzi, traballa nella sua parte di mezzo e si conlude dignitosamente con due bei pezzi. Questo riguarda sia i beat che Prince Po stesso, il quale non manca di manifestare diversità qualitative nella scrittura: così come può apparire ispirato in The City Sleeps, così sembra col pilota automatico attivato in Right 2 Know oppure platealmente fiacco in Breaknight, col risultato che alla fin fine l'unica cosa che puoi fare con Prettyblack è definirlo un disco "carino" (il che è in realtà terribile).
Partiamo però dalle cose buone: contrariamente a Slickness, qui Po è concettualmente più focalizzato: grossomodo vive tra amarcord personali e meditazioni reminescenti dell'afrocentrismo vecchia maniera mesolato a considerazioni più attuali. Questa combinazione funziona egregiamente sia perchè egli non sembra essere un cretino (anche se manca della lucidità analitica di un Mr. Lif), sia perchè ovviamente egli gode di una credibilità dovuta non solo ai propri trascorsi bensì anche alle sue attuali capacità. Tracce come Mecheti [sic] Lightspeed, U Right Hear, The City Sleeps o la title track non fanno altro che confermare la bontà della sua penna, la quale, una volta accostata ad uno stile ed una tecnica indubbiamente encomiabili, riesce a vincere & convincere. Degna di lode è anche la capacità acquisita di variare flow e giocare con la dizione a seconda che si tratti di un pezzo dal tiro veloce o uno più calmo; un'abilità, questa, che contribuisce a far salire il coefficiente di varietà che così si apre a ventaglio andando dal convincente throwback di Prettyblack alla contemporaneità di Mecheti Lightspeed, passando naturalmente per quelle strane canzoni "senza tempo" come The City Sleeps. Purtroppo, però, sovente egli cade nei cliché più beceri di questa terra: e da questo punto di vista mi dà quasi più fastidio il jovanottismo -ascoltare per credere- di una Right 2 Know che non la crassa povertà di idee stante dietro a Holla. Non voglio infatti mettere in dubbio la buona fede ma l'impegno: se uno decide di scrivere di argomenti potenzialmente profondi che lo faccia con la dovuta perizia, ed eviti invece di scadere in banalità e rotorica degne tutt'al più di un demo della gruppo ska del Berchet.
E anche i produttori: pur essendo gli eventuali difetti meno palpabili ciò non significa che essi non vi siano. Difatti, salvo rare eccezioni, la norma vuole che sia difficile trovare basi che ti facciano esclamare stupito "minchia, ma che è 'sta shhhchifezzah!?!". Almeno nei casi di dischi presentabili, il che esclude ovviamente i vari Shawty Lo e compagnia bella. Ma sto divagando; il fatto è che buona parte dei beat non riesce ad andare oltre al tanto temuto "carino", saltuariamente scadendo peraltro nell'altrettanto ingiurioso "banale". Right 2 Know, per dire, sembra più un inno che un vero e proprio beat; e non me ne abbia Large Pro, ma alla lunga diventa pure monotono. Analogamente, una Holla o una Family possono anche non far venir voglia di skippare ma di certo nemmeno possono spingere chi già conosce bene il rap (ovverosia il target effettivo di Prince Po) a premere il tasto rewind. Stando così le cose, dunque, alla fine della favola mi viene da menzionare positivamente ben poca roba: Mecheti Lightspeed è la prima, grazie ad un Madlib che mescola con gusto un loop ipnotico di violino ed un breve sample vocale, ambedue sorretti da alcune delle batterie e da una linea di basso più d'impatto che gli abbia sentito usare di recente. Ask Me, poi, ricicla il concetto di campione vocale usato come elemento attivo per la stesura del testo (cfr. Dreams di Game) ma, data l'atmosfera più futuristica dell'insieme, il risultato è senz'altro positivo (grazie anche ad una delle performance più impressionanti dell'intero disco da parte di Prince Po, va detto); così come anche il piglio rétro di Prettyblack funziona benissimo tanto che pare di essere tornati davvero al '92. Lodi finali vanno invece dedicate all'evocativa The City Sleeps, in cui grazie all'eccellente beat il messaggio dato dal didascalico titolo riuscirebbe a far breccia nell'immaginario del più prosaico degli ascoltatori senza nessun problema, e al tributo a J Dilla, U Right Hear, dove Prince Po omaggia il leggendario beatmaker di Detroit con un beat che in qualche modo -set di batterie e campione- lo evoca alla lontana.
Ma, come detto, i momenti di luce sono pochi e neppure poi tanto abbaglianti. Sono, cioè, belle canzoni e non capolavori. Ne consegue che, per quanto non siano presenti grossi svarioni qualitativi, questo Prettyblack non può spingersi oltre la soglia dei tre zainetti. Dategli un ascolto anche solo per The City Sleeps o Ask me, quindi, ma non aspettatevi una rivelazione.
Prince Po - Prettyblack