Innanzitutto benttornati a voi ma soprattutto bentornato a me stesso su queste pagine: dopo un capodanno passato all'insegna dell'anzianità, dell'alcol e della malattia, stamane mi ritrovo in ufficio nella remota speranza che non si ritorni immediatamente al lavoro cosicché possa scrivervi du' righe su un altro buon album uscito nel 2009: In The Ruff dei Diamond District. Ora, a meno che già non lo conosciate, dubito che il nome di questo gruppo vi possa dire un granché in quanto tecnicamente si tratta di un esordio. Tuttavia, la presenza al campionatore (e al microfono) del già noto Oddisee potrebbe aiutarvi ad avvicinarvi al trio, composto per i restanti due terzi dagli MC Y.U. e X.O., e a far scaturire la canonica fiammella della curiosità; curiosità che potrebbe/dovrebbe accentuarsi nel momento in cui prendiamo in considerazione il fatto che i tre provengono da Washington, una città conosciuta per milioni di motivi fra i quali però non rientra l'hip hop e che pertanto si può dire essere ancora terra di conquista.
E i Diamond District, il cui nome deriva da una definizione urbana concettualmente rapportabile alla nostrana MiTo (vedi QUI), si propongono proprio come portabandiera della capitale statunitense: partendo dal nome e passando per localismi di vario genere, essi giungono infine all'efficace rappresentazione della maggior fascia demografica del luogo -i cosiddetti colletti blu- e delle sue peculiarità così come dei suoi problemi. Vorrei allora cominciare col sottolineare il primo dei tanti pregi di In The Ruff: la «personalità» in senso lato. I testi dei tre, infatti, non possono in nessun modo essere confusi con quelli di qualche collega di Brooklyn, Detroit o San Francisco; e non solo perchè i riferimenti a D.C. abbondano, ma anche e soprattutto perchè man mano che si prosegue nell'ascolto si viene a conoscenza di una popolazione tipicamente working class che finora solo in rare occasioni era stata descritta, e men che meno si era lasciato così tanto spazio ai suoi problemi, alle sue ambizioni e soprattutto al sue peculiarità. E, sempre restando all'interno dell'aspetto scritto del disco, il secondo motivo per le sue meritate lodi va senz'altro alla sua attualità: i Diamond District infatti non solo fotografano un gruppo sociale nei suoi tratti più archetipici, ma lo inseriscono nel contesto attuale di crisi economica; facendolo, però, non propendono né verso una fredda analisi sociopolitica, né verso una banalizzazione di qualche tipo. Se volessi riassumere il loro stile espositivo in una sola parola, questa sarebbe senz'altro neorealismo.
Ma non vorrei ora perdermi in troppe disquisizioni dal carattere pseudosociologico; lascio il piacere di scoprire i dettagli a chiunque si prenderà la briga di ascoltare (e, spero, comprare) In The Ruff; piuttosto, vale la pena soffermarsi un po' sulle produzioni di Oddisee, essendo queste non solo il pilastro che regge tutto il progetto, ma anche essendo queste il motivo principale per cui diverse persone si sono lasciate incuriosire dal prodotto. Oddisee, dicevamo: i più lo conosceranno per i passati lavori svolti assieme alla cricca della Halftooth -Kev Brown, Kenn Starr, Wordsworth ecc.- in cui ad onor del vero s'era distinto più per competenza che non per originalità o, se vogliamo, individualità; le sue basi insomma si rifacevano alla seconda golden era, e quand'anche alcune di esse riuscivano ad essere molto belle (penso a If di Kenn Starr), il loro principale difetto era una fastidiosa sensazione di déjà vu.
Bene: scordatevi quello che avete sentito finora, perchè il Nostro qui fa un lavoro al campionatore a dir poco eccellente, da un lato scordandosi di tutti i manierismi legati al campionare soul, e dall'altro, contestualmente, rinvigorendo le produzioni con casse e rullanti potenti ed anche "sporche", quasi che si trattasse d'un omaggio all'old school prima ancora che al lavoro di un Pete Rock. Per carità, non pensate all'ennesimo riutilizzo dell'808; pensate invece a quello che potrebbe essere una fusione degli stili di Pietrino Roccia e Dilla. L'eccezionale Streets Won't Let Me Chill, per esempio, combina i pattern di batteria del secondo ad un campione di tromba tipicamente riconducibile al primo, aggiungendoci poi un breve sample vocale che non può non far pensare ai Gangstarr di Daily Operation o Hard To Earn (non a caso omaggiati esplicitamente in I Mean Business). Ancora, i loop ipnotici di Who I Be o Back 2 Basics fanno correre il pensiero alla scuola di Detroit, ma conservano comunque un modo di far suonare i campioni più tradizionalmente nuiorchese; aspetto, quest'ultimo, che prende poi il sopravvento in brani come Get In Line o Make It Clear, in cui il Marley Marl di Mama Said Knock You Out fa un'apparizione tutt'altro che fugace. Insomma: Pete Rock, Dilla, Premier, Marley Marl... Oddisee non solo ha ottimi referenti culturali, ma li sa anche sintetizzare in maniera tale da renderli orgogliosi. E, pur non avendo ancora sviluppato un'identità immediatamente riconoscibile, il Nostro qui dimostra una crescita artistica notevole sia nella teoria che nella pratica.
Ma malgrado tutto, In The Ruff non è perfetto: come prima cosa, gli MC non sono propriamente carismatici, e per quanto le loro liriche risultino funzionare più che bene, come interpretazione e diversità stilistica il lavoro da fare è ancora molto. Vale a dire, cioè, che a meno che non ci si concentri in stile tibetano sulle rime e sui contenuti, l'album rischia di suonare pesante e/o monotono già a partire dall'ottava o nona traccia. Anche perchè non tutti i beat di Od riescono a tener su da soli le canzoni, e sfortunatamente quelli che ce la fanno (i primi sette, assolutamente superlativi) sono concentrati nella prima metà del disco, mentre la seconda, più calma e rilassata, soffre appunto della suddetta pesantezza. Non aiuta poi il fatto che i ritornelli si salvino solo la metà delle volte, così come un'ulteriore ostacolo all'ascolto viene dato dal mixaggio, che letteralmente soffoca delle voci di loro non proprio d'impatto sotto i mille strati di clap, rullanti e campioni vari del caso.
Ciò detto, il mio suggerimento è di prendere in seria considerazione questo In The Ruff, perchè pur con tutte le sue smagliature esso merita senz'altro l'acquisto e anche -almeno secondo me- l'inclusione tra i dieci dischi da avere del 2009. Certo, liricamente si può e si deve ancora crescere, ma anche solo per le basi questo materiale è davvero grasso che cola.
Diamond District - In The Ruff
E i Diamond District, il cui nome deriva da una definizione urbana concettualmente rapportabile alla nostrana MiTo (vedi QUI), si propongono proprio come portabandiera della capitale statunitense: partendo dal nome e passando per localismi di vario genere, essi giungono infine all'efficace rappresentazione della maggior fascia demografica del luogo -i cosiddetti colletti blu- e delle sue peculiarità così come dei suoi problemi. Vorrei allora cominciare col sottolineare il primo dei tanti pregi di In The Ruff: la «personalità» in senso lato. I testi dei tre, infatti, non possono in nessun modo essere confusi con quelli di qualche collega di Brooklyn, Detroit o San Francisco; e non solo perchè i riferimenti a D.C. abbondano, ma anche e soprattutto perchè man mano che si prosegue nell'ascolto si viene a conoscenza di una popolazione tipicamente working class che finora solo in rare occasioni era stata descritta, e men che meno si era lasciato così tanto spazio ai suoi problemi, alle sue ambizioni e soprattutto al sue peculiarità. E, sempre restando all'interno dell'aspetto scritto del disco, il secondo motivo per le sue meritate lodi va senz'altro alla sua attualità: i Diamond District infatti non solo fotografano un gruppo sociale nei suoi tratti più archetipici, ma lo inseriscono nel contesto attuale di crisi economica; facendolo, però, non propendono né verso una fredda analisi sociopolitica, né verso una banalizzazione di qualche tipo. Se volessi riassumere il loro stile espositivo in una sola parola, questa sarebbe senz'altro neorealismo.
Ma non vorrei ora perdermi in troppe disquisizioni dal carattere pseudosociologico; lascio il piacere di scoprire i dettagli a chiunque si prenderà la briga di ascoltare (e, spero, comprare) In The Ruff; piuttosto, vale la pena soffermarsi un po' sulle produzioni di Oddisee, essendo queste non solo il pilastro che regge tutto il progetto, ma anche essendo queste il motivo principale per cui diverse persone si sono lasciate incuriosire dal prodotto. Oddisee, dicevamo: i più lo conosceranno per i passati lavori svolti assieme alla cricca della Halftooth -Kev Brown, Kenn Starr, Wordsworth ecc.- in cui ad onor del vero s'era distinto più per competenza che non per originalità o, se vogliamo, individualità; le sue basi insomma si rifacevano alla seconda golden era, e quand'anche alcune di esse riuscivano ad essere molto belle (penso a If di Kenn Starr), il loro principale difetto era una fastidiosa sensazione di déjà vu.
Bene: scordatevi quello che avete sentito finora, perchè il Nostro qui fa un lavoro al campionatore a dir poco eccellente, da un lato scordandosi di tutti i manierismi legati al campionare soul, e dall'altro, contestualmente, rinvigorendo le produzioni con casse e rullanti potenti ed anche "sporche", quasi che si trattasse d'un omaggio all'old school prima ancora che al lavoro di un Pete Rock. Per carità, non pensate all'ennesimo riutilizzo dell'808; pensate invece a quello che potrebbe essere una fusione degli stili di Pietrino Roccia e Dilla. L'eccezionale Streets Won't Let Me Chill, per esempio, combina i pattern di batteria del secondo ad un campione di tromba tipicamente riconducibile al primo, aggiungendoci poi un breve sample vocale che non può non far pensare ai Gangstarr di Daily Operation o Hard To Earn (non a caso omaggiati esplicitamente in I Mean Business). Ancora, i loop ipnotici di Who I Be o Back 2 Basics fanno correre il pensiero alla scuola di Detroit, ma conservano comunque un modo di far suonare i campioni più tradizionalmente nuiorchese; aspetto, quest'ultimo, che prende poi il sopravvento in brani come Get In Line o Make It Clear, in cui il Marley Marl di Mama Said Knock You Out fa un'apparizione tutt'altro che fugace. Insomma: Pete Rock, Dilla, Premier, Marley Marl... Oddisee non solo ha ottimi referenti culturali, ma li sa anche sintetizzare in maniera tale da renderli orgogliosi. E, pur non avendo ancora sviluppato un'identità immediatamente riconoscibile, il Nostro qui dimostra una crescita artistica notevole sia nella teoria che nella pratica.
Ma malgrado tutto, In The Ruff non è perfetto: come prima cosa, gli MC non sono propriamente carismatici, e per quanto le loro liriche risultino funzionare più che bene, come interpretazione e diversità stilistica il lavoro da fare è ancora molto. Vale a dire, cioè, che a meno che non ci si concentri in stile tibetano sulle rime e sui contenuti, l'album rischia di suonare pesante e/o monotono già a partire dall'ottava o nona traccia. Anche perchè non tutti i beat di Od riescono a tener su da soli le canzoni, e sfortunatamente quelli che ce la fanno (i primi sette, assolutamente superlativi) sono concentrati nella prima metà del disco, mentre la seconda, più calma e rilassata, soffre appunto della suddetta pesantezza. Non aiuta poi il fatto che i ritornelli si salvino solo la metà delle volte, così come un'ulteriore ostacolo all'ascolto viene dato dal mixaggio, che letteralmente soffoca delle voci di loro non proprio d'impatto sotto i mille strati di clap, rullanti e campioni vari del caso.
Ciò detto, il mio suggerimento è di prendere in seria considerazione questo In The Ruff, perchè pur con tutte le sue smagliature esso merita senz'altro l'acquisto e anche -almeno secondo me- l'inclusione tra i dieci dischi da avere del 2009. Certo, liricamente si può e si deve ancora crescere, ma anche solo per le basi questo materiale è davvero grasso che cola.
Diamond District - In The Ruff
2 commenti:
Mi è piaciuto, Oddisee tra i migliori producers dell'anno. Peccato che gli mcs non siano esattamente dei Rakim, il risultato sarebbe stato ancora migliore, come hai detto tu.
Comunque è già sulla lista della spesa da qualche mese, aspetto che scendano un po i prezzi eheh.
Reiser, sempre di Uòscinton che ne pensi dei Panacea, se li conosci?
Simone
Da mettere ei dieci dischi da avere dell'anno? Boh, sai che non ci avrei mai pensato?
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