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martedì 9 settembre 2008

BLACK MOON - ENTA DA STAGE (Wreck, 1993)

Nella precedente recensione avevo definito il 1996 come uno degli anni migliori per l'hip hop: grandi dischi vennero pubblicati in quell'anno e sicuramente pochi possono negare che sia stato uno dei saltuari canti del cigno (passatemi la contraddizione logica) che produce questo genere musicale; tuttavia, ancor meglio e certamente più rilevante è stato il 1993. I più giustificheranno quest'affermazione facendo riferimento alla pubblicazione di 36 Chambers, il che è tanto giusto quanto inesatto in quanto ciò relega automaticamente l'altro grande classico di quell'anno in secondo piano. Ma se il rap degli anni a venire ha avuto certe sonorità o date influenze, questo lo si deve anche a Enta Da Stage.
Tanto per dirne una: avete presente i cori urlati da un mucchio di persone, che così bene caratterizzano il suono nuiorchese di quegli anni? Beh, ringraziate i Black Moon. E cosa dire delle produzioni filtrate da ogni tono alto e praticamente "abbandonate" alla sola batteria e basso? Beatminerz, miei cari. E, certamente, se da un lato erano stati i Tribe e i De La Soul (con Buhlōōne Mindstate) ad usare pionieristicamente massicce quantità di campioni jazz nelle loro produzioni, si può dire che solo con Enta Da Stage questi vennero reinterpretati in una chiave decisamente più cupa ed alienante. Insomma, per farla breve, questo disco è una delle migliori colonne sonore esistenti per descrivere in note l'atmosfera urbana di una città in novembre. Non esistono aperture: basso e batteria scandiscono i passi mentre i campioni riflettono lo stridio delle rotaie delle metropolitane e delle gomme delle macchine, mentre la descrizione verbale dell'insieme viene affidata in gran misura al solo Buckshot e agli occasionali ospiti.
Tutto ciò avviene senza soluzione di continuità, anche prendendo in considerazione la suddivisione dell'album in due fasi (il che non è un semplice vezzo ma riflette effettivamente un diverso "taglio" musicale): sia l'iniziale Powaful Impak che la conclusiva U Da Man rientrano nell'estetica ruvida così fortemente distintiva di questo disco. Il merito di ciò va alle produzioni dei Beatminerz, non c'è dubbio: il filtraggio dei campioni di cui dicevo prima, abbinato ad un'equipaggiatura poco più che casalinga, conferisce ad ogni singolo pezzo un timbro cupo, oscuro, quasi come se si sentisse il beat provenire da un lontano scantinato. E la marea di campioni usati vengono usati non per conferire una melodia alle canzoni, bensì unicamente per "spezzarli" con una certa regolarità o per separare i ritornelli dalle strofe. Tuttavia, si può notare una variazione nell'approccio produttivo tra le prime sette tracce e le altrettante che le seguono: nel "first stage" il sound è più legato agli anni precedenti e risulta, in generale, più "energetico" (vedi Who Got Da Props, Niguz talk Shit e la sublime Buck 'Em Down); per converso, nel "second stage" le atmosfere virano verso una ruvidità meno gridata e certamente più vicina ai dischi che sarebbero usciti in seguito (ne sono ottimi esempi Shit Iz Real, I Gotcha Opin e -soprattutto- l'eccezionale Slave). La spiegazione pare essere questa: a cavallo tra il '92 ed il '93, durante le sessioni d'incisione i Black Moon s'imbarcarono in un tour con Kool G Rap e Nas e, sentendoli, Buckshot decise di rendere meno serrato il suo flow. Di rimando, i Beatminerz optarono per un adattamento a questo cambio di stile virando così le sonorità verso toni più smorzati. Ed in fin dei conti la scelta si rivelò vincente oltre che attuale: non è un caso, infatti, che Buckshot sia oggi come allora immediatamente riconoscibile già solo dall'uso della voce, mentre 5ft si può facilmente perdere nel marasma degli MC competenti o poco più. Sia come sia, il punto è uno solo: le produzioni sono perfette, stop. Da Frank Zappa a Cannonball Adderley, passando per Miles Davis e Barry White, i Beatminerz piegano qualsiasi campione alle loro necessità ed alla loro personalissima estetica come ben pochi -specialmente se esordienti- sanno fare.
A questo punto, di fronte all'enfasi che ho dato nell'elogiare il lavoro, è curioso notare come, storicamente (fin dalla sua uscita, cioè), Enta Da Stage abbia ricevuto il plauso del pubblico grazie all'abilità di Buckshot al microfono. Intendiamoci: non voglio sminuire il suo contributo e men che meno mettere in dubbio il suo straordinario talento, semplicemente trovo che di fronte ad un'esecuzione perfetta (rime, controllo del respiro, stile tout court) non vi sia quell'innovazione o quella capacità di influenzare altri ottenuta, che so, dai membri del Wu o da Biggie. Ma questo non fa parte di eventuali difetti oggettivi; tralasciando dunque queste mie "critiche alla critica" di scarsa rilevanza, ciò che conta è che il nostro nanetto (è, tipo, alto come Berlusconi) fa letteralmente a pezzi il microfono su ogni traccia. E nel fare questo, raramente incappa negli stilemi dell'epoca, risultando ancor'oggi godibilissimo da ascoltare pur nella (in realtà, soprattutto grazie alla) sua sbruffoneria e nelle evidenti esagerazioni nel narrare la cosid. street life.
Insomma, tre sole parole per definire Enta Da Stage: classico, influente, imprescindibile.





Black Moon - Enta Da Stage

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giovedì 19 giugno 2008

BLACK MOON - TOTAL ECLIPSE (Duck Down, 2003)

Quando uscì Enta Da Stage, il primo, fondamentale album dei Black Moon, il sottoscritto aveva 12 anni e mai si sarebbe aspettato un futuro come l'attuale presente. Non solo non potevo prevedere che sarei rimasto sotto col rap, ma nemmeno avrei potuto immaginare di trovarmi in un ufficio la mattina del 19 giugno 2008 a cercare di sopravvivere al costante assalto alla baionetta alla mia intelligenza perpetrato dalla radio di turno. Sapete, fin dalla più tenera età non son mai stato un grande fruitore della modulazione di frequenza a causa della ripetitività della programmazione; in più, ad ogni estate che s'avvicinava, cominciavo a sospettare -beata innocenza!- che qualcuno volesse prendermi per il culo passando in serrata ripetizione una ben specifica canzone. E così, tormentone dopo tormentone (All That She Wants, What Is Love, Lemontree...), mi sono sempre più isolato da quello che era "hot" al momento. Un backpacker ante litteram, insomma. La mia maschia resistenza passiva [no homo] prosegue anche in questi giorni di estrema sfrangiatura dei testicoli, e così, mentre i danesi Alphabeat ci regalano la solita cacatiella-allegra-perchè-siamo-in-estate-dobbiamo-divertirci, io controbatto nell'intimità delle mie cuffie con l'ultimo album dei Black Moon. E il cerchio si chiude.
Dopo la parziale delusione di Warzone ed una generica assenza dalle scene della Boot Camp Clik tutta, durata -ahimè- circa cinque anni, il 2003 verrà ricordato come l'anno in cui il collettivo di Brooklyn cominciò a recuperare i vecchi fan e ad aggiungerne di nuovi, ingranando una marcia produttiva che si concretizzerà nella pubblicazione di opere collettive così come individuali, in ambo i casi reputate (quale più quale meno) di buon valore. Tuttavia, per quanto possano piacere i dischi di Sean Price, Buckshot e dei Smif 'N' Wessun, non si può ignorare il fatto che dietro a Total Eclipse ci siano principalmente i Beatminerz, cioè coloro che per una buona metà hanno contribuito a decretare il successo della cricca a metà anni '90.
Una differenza vuoi anche solo psicologica, può darsi, ma non posso nascondere il fatto che introdurre l'ascolto di un album partendo dal ruvido boombap di Stay Real anzichè dall'ennesimo campione soul pitchato dia tutt'un'altra verve. Il minimalismo degli anni '90 è stato riveduto & aggiornato, ma la "sporcizia" del campione, l'imponente linea di basso sfondawoofer e le batterie secche sono Beatminerz genuini al 100%, e così è solo logico sentire il suadente flow di Buckshot nella prima strofa: "On the block that I'm from, late night is a hustle hour/ Anything gets sold, weed, clothes, plus the powder..." Puro Brooklyn, insomma. Nel tempo, inoltre, il Nostro è riuscito a trovare una via di mezzo tra l'aggressività degli esordi e la (secondo me) eccessiva calma di molti pezzi di Warzone, creando in questo modo una sintesi efficace e personalissima tra Snoop e O.C. Diciamo che è uno dei pochi veterani che anche a dopo dieci anni di onorata carriera è riuscito a perfezionare il suo stile guadagnando punti sia dal punto di vista tecnico (dizione, rime, stile) che da quello contenutistico. Perchè, sì, ammetto che è difficile trovare enormi spunti cervellotici in un album dei Black Moon e di certo non voglio dire che ci troviamo di fronte a Chuck D, ma quà e là si trovano tracce della maturazione di Buck, ad esempio nella rilettura di Ain't The Devil Happy, Confusion (beat a parte non c'entra nulla con l'originale, ma l'attacco alle logiche del mercato discografico è chiaramente proveniente da una persona che parla a ragion veduta). Infine, per quanto 5Ft non sia mai stato il motivo principale della celebrità dei Black Moon, bisogna dire che risentirlo quà e là fa sempre piacere e spesso aiuta a spezzare bene le prestazioni di Buckshot. In quanto ad ospiti ci viene offerta qualche comparsata da parte dei soci della Boot Camp, i quali -e non dovrebbe stupire- regalano prestazioni quantomeno solide e che alle volte riescono ad oscurare i nostri eroi: ne è l'esempio perfetto Sean Price, che oltre ad anticipare il personaggio del "brokest rapper alive" in What Would U Do, tira fuori una strofa da 90 sull'eccellente Looking Down The Barrel che gli varrà un buon 70% di pubblicità per il suo futuro solista d'esordio.
E, a proposito di Looking Down The Barrel, una menzione speciale va ai beatmaker che saltuariamente vanno a sostituire i Beatminerz alle macchine. L'ineccepibile MoSS, che di Barrel è l'autore, non fa rimpiangere Walt e compagni grazie ad un beat di una semplicità triviale che fa a pezzi le casse e permette agli MC di giostrarsela come meglio par loro, salvo poi far entrare nel ritornello un campione vocale canticchiato reperito chissà come e chissà dove: "Looking down the barrel... of a twelve-gauge magnum...". Perfetto. Non da meno sono Kleph Dollaz e la sua quasi-melodica How We Do It, Coptic (che produce la rilassata This Goes Out To You, con un gran bel loop misto piano e chitarra acustica) e Tone Capone, che per The Fever riprende un campione oramai piuttosto abusato ma allora relativamente fresco (ricordarmi il nome, mannaggia). Nota a parte merita il contributo di DJ Static, che riprendendo paro paro Ain't The Devil Happy di Jeru & Primo non fa nulla di male ma nemmeno rivoluziona la musica. Ma fermi restando i complimenti ai suddetti, va da sè che il ruolo delle star lo giocano i Beatminerz che, come già detto, aggiornano il loro suono dandogli un viraggio più smaccatamente settantone di buon effetto e, pur perdendo così l'unicità che permetteva di collegare I Gotcha Opin a Wrekonize e Headz Ain't Ready a orecchio, risultano al passo dei tempi quanto basta. Certamente vi sono tracce più riuscite di altre, così come va sottolineata l'assenza di una "punta di diamante" tra le varie produzioni, ma nel complesso direi che proprio non ci si può lamentare.
Insomma, per quanto enormemente sottovalutato (in questo i Black Moon mi ricordano gli ultimi Beatnuts), Total Eclipse è un must-have per chiunque desideri ascoltare di tanto in tanto dell'ottimo rap fatto per il gusto di fare rap. Non ci si troverà nient'altro che stile e competenza nel settore -in tal senso è un prodotto per pochi- e di questi tempi è un approccio molto più genuino rispetto a quello del throwback ex post.





Black Moon - Total Eclipse (N.B.: inspiegabilmente, riesco a rippare solo fino alla tredicesima traccia, poi va in bomba Itunes. Ergo, ho fatto un collage tra le "mie" tracce e le restanti. Se ci dovessero essere ciocchi, fateme sape').

VIDEO: STAY REAL