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martedì 13 gennaio 2009

AZ - DOE OR DIE (Emi, 1995)

Siccome ieri qualcuno nei commenti aveva manifestato una certa soddisfazione nel mio recente riprendere in mano i "classici" (inteso, immagino, più in termini di memoria che di qualità vera e propria), oggi decido di chiudere questa breve parentesi con un bel pezzo da novanta: l'esordio di AZ.
A questo punto è pero obbligatoria una riflessione: all'epoca in cui Doe Or Die uscì, ben pochi lo considerarono un futuro classico; anzi, la delusione provata rispetto alle aspettative -generate ovviamente dalla sua storica strofa su Life's A Bitch- fu tale che in molti lo bollarono come sòla malgrado la presenza di un paio di tracce davvero niente male; del resto, non ho timore ad ammettere che io rientro tra quelle persone, eppure devo anche inchinarmi di fronte al fatto che negli anni Doe Or Die mi pare essere invecchiato come il vino quantomeno per quel che riguarda l'ascoltabilità del lavoro nel suo complesso. Ciò dipende forse dal fatto che negli anni le mie orecchie si sono addolcite e che i beat di gente come Buckwild e Pete Rock, che all'epoca reputavo troppo leggeri e melensi, oggi appaiono del tutto normali ed in fin dei conti coerenti sia con lo stile che con i contenuti di AZ. Ma forse sto correndo.
Sta di fatto che l'album si apre davvero molto bene con la breve Uncut Raw, che di fronte ad un beat costituito pressoché unicamente da basso e batteria vede Anthony Cruz destreggiarsi con insolita aggressività tra i colpi di rullante e far sfoggio della sua tecnica assai reminescente del classico trio Rakim/G Rap/Kane. Il campione di scorrimento del carrello di armi non è in sè una genialata -Throw Your Gunz docet- ma è certamente il benvenuto in quanto non fa altro che evidenziare ulteriormente la ruvidità dell'insieme. Bene, promossa con lode. Seguono poi Gimme Yours e Ho Happy Jackie, prodotte rispettivamente da Pete Rock e Buckwild, le quali fanno sterzare l'album in quella zona ghettobling che presto sarebbe degenerata in autentici mostri; infatti, per l'epoca e per lo stile dei sopranominati beatmaker queste due basi sono curiosamente melodiche e leggere, specie la seconda. Tuttavia, al di la dell'impressione che AZ abbia loro detto "famolo strano", non posso negare che l'alchimia tra Anthony e Pete funzioni meravigliosamente e che la produzione di Buck sia tutto sommato dignitosa e perlomeno funzionale alla tematica esplorata dal nostro.
Decisamente meglio, però, la successiva Rather Unique; qui finalmente si vede riaffiorare il taglio tipico del Pete Rock di quegli anni, sia per via della scelta e del taglio del campione che per le batterie -e, del resto, la giustapposizione tra un suono "pesante" e lo stile compassato di AZ conferisce maggiore interesse alla canzone. Cosa che peraltro viene riconfermata dalla successiva We Can't Win (dove una strofa resta inspiegabilmente senza paternità) ma soprattutto dall'apparente tranquilla Mo' Money Mo' Murder, autentica perla di D/R Period, costruita interamente attorno ad un lento loop di archi dotata di basso batteria giusto per sottolineare il ritmo naturale imposto dal campione. Sarà per questo, o forse per la presenza di Nas, ma sta di fatto che negli anni è stato questo il pezzo ad imprimersi indelebilmente nella memoria collettiva, con buona pace dei tentativi sparsi di AZ di creare tracce commerciabili e facilmente memorabizzabili.
Difatti -guardacaso- sono proprio le cose più smaccatamente radio-friendly ad abbassare la media dell'album: Sugarhill, dal punto di vista della produzione, non è altro che una Life's A Bitch 2.0 (anzi, visto che è meno bella direi una 0.6) e nemmeno il remix, nonostante il noto campione dei Stylistics così meglio utilizzato altrove, riesce a risollevarla dalla mediocrità e lo stesso dicasi per la noiosa e melensa Feel For You. Più interessante e con risultati meno drammatici è invece Doe Or Die, che grazie al beat dello houstoniano N.O. Joe rappresenta a suo modo uno dei primi incroci tra New York e Dirty South; tuttavia, l'esito finale non si può minimamente paragonare al successo raggiunto da altre composizioni e pertanto sarei propenso a relegare anche questo pezzo nel dimenticatoio (tanto più che a seguirla e rimarcare le differenze c'è la bella Your World Don't Stop).
Insomma, a conti fatti i beat non sono malaccio. Certo, manca il colpo di genio o il cosiddetto "pezzone" che dir si voglia, ma i candidati ci sono eccome: Mo' Money Mo' Murder, Rather Unique o Gimme Yours sono decisamente buone canzoni che, pur non potendo competere nello stesso girone di una qualsiasi Shook Ones, è comunque difficile non apprezzare. Inoltre, secondo me l'assenza di una traccia storica è anche dovuta al fatto che per quanto AZ si dimostri un MC più che capace, non riesce ad imprimersi nella memoria. Come mai? Un po' perchè la sua tecnica, per quanto indubbiamente affinata e precisa, non sa certo di nuovo; ma soprattutto perchè non è capace di scrivere né strofe dal grande contenuto (sono fico, ricco, bravo, tutte troie a parte la mamma ecc.), né -e questo pesa- singole frasi che fanno da marchio di un artista. Pensate, che so, a Shook Ones: a parte il beat, sono frasi come "I got you stuck off the realness" o "For every rhyme I write it's 25 to life" a sparare nell'immortalità la canzone; e lo stesso dicasi per qualsiasi traccia che noi oggi reputiamo storica, sia che si parli dei Run DMC che di Jay-Z.
Tuttavia, queste lacune sono di gravità relativa. A distanza di quattordici anni me la sento di affermare che all'epoca Doe Or Die venne complessivamente stroncato più sulla base di eccessive aspettative che di qualità sic et simpliciter. La media delle canzoni è decisamente buona e per quanto suoni un po' datato -in particolar modo, ripeto, nei club banger dell'epoca- resta un ascolto ben più che semplicemente gradevole.




AZ - Doe Or Die

VIDEO: MO' MONEY MO' MURDER (HOMICIDE)

lunedì 30 giugno 2008

AZ - MEMPHIS SESSIONS: THE REMIXTAPE (Streetcore, 2007)

La linea qualitativa di AZ appare nel corso degli anni sempre più vicina ad un elettrocardiogramma; non appena Anthony Cruz vi pompa nuova energia grazie a belle cose come il recente A.W.O.L., il secondo dopo inevitabilmente incappa in una sorta di sincope e delude con prodotti discutibili come The Format. Ma per fortuna il cuore è in sè sano, per cui anche dopo la canonica défaillance si ha sempre la certezza che qualcosa di buono avverrà. Puntualmente, questo evento ha avuto luogo nel 2007, a cavallo tra le due sòle The Format e Undeniable, con questo eccellente Memphis Sessions.
Il disco s'inserisce con bruta violenza nel filone del remixtape/blend tematico à la Grey Album o Q-Unit [no homo], senonché qui l'idea finalmente viene superata dalla sostanza; vale a dire, cioè, che il plauso è meritato non perchè qualcuno abbia avuto un'ideona original-affascinant-curiosa che fa rizzare l'uccello ai recensori di Pitchfork ma semplicemente perchè il risultato è ottimo a prescindere -cosa che non si può dire per i predecessori del genere (fatemelo dire: il Grey Album è una stronzatona col botto). E la ragione che sta alla radice di questo successo è secondo me semplice: anzichè mescolare cose che tra loro non c'entrano assolutamente nulla per il gusto di sentirsi eclettici si è scelto uno dei pilastri che stanno alla base di tanto hip hop, alias la musica di Al Green. Dunque una decisione non coraggiosa ma senz'altro rispettosa dei fan del genere, i quali mi auguro si preoccupino più di ascoltare buona musica che non di viaggiare dietro l'ego o la megalomania del produttore emergente XYZ a prescindere dai risultati.
Bene: ammesso e non concesso che sia così, andiamo a esaminare più in profondità Memphis Sessions. Cos'è stato fatto? Sono state prese una serie di a cappella di AZ dai suoi due precedenti album e sono state appoggiate sopra a loop tratti da vari dischi di Al Green, senza aggiungere fondamentalmente nulla. Proprio così: se una batteria c'è è solo perchè era presente nell'originale... pigrizia? Eh no, non direi. Anzi, nella sua semplicità trovo che questo lavoro di taglia&incolla sia stato ben complesso perchè in fin dei conti si è lavorato molto sulla ricerca d'archivio, per così dire, sfruttando le melodie originali cercando di alterarle quanto meno possibile. E per quanto vi siano un paio di episodi che inizialmente sanno di già sentito (il remix di The Format è praticamente 260 di Ghostface, persino il dialogo all'inizio è il medesimo; Love & Happiness e The Letter ormai le conoscono pure i sassi), persino in questi casi s'è inserito un bridge o una fetta di campione che riesce a rivitalizzarli e a dar loro un tocco di freschezza. E poi ciò che stupisce è quanto sembri naturale la presenza di AZ su canzoni vecchie di quasi quarant'anni; la fusione tra rappata e "beat" -all'infuori di pochissimi casi dove il Nostro va fuori battuta di qualche millisecondo- è infatti perfetta e spesso gestita talmente bene da risultare ancor più d'effetto che nell'originale.
E parlando di originali, un altra lancia ha da essere spezzata in favore di Memphis Sessions. Mi riferisco al fatto che il peccato originale di AZ è quello di saper scegliere un beat valido su tre ciofeche, per cui spesso si ha di fronte il suo spiccato talento e lo si vede macellato da una base semplicemente atroce; se pensate a The Format o Sosa vi renderete conto di quanto un piccolo accorgimento -cioè l'avere un buon orecchio- sarebbe bastato a rendere quei dischi dieci volte migliori di quanto non siano effettivamente. Ecco, grazie a Memphis Sessions molti dei crimini commessi in passato vengono cancellati onde darci la possibilità di godersi le acrobazie liriche del Nostro su musica finalmente degna di questo nome. E come avevo già accennato, persino canzoni che già partivano bene o benissimo (The Format, The Come Up, New York) non perdono di fronte agli originali ed in alcuni casi -New York su tutte, assolutamente eccezionale- riescono persino a superarli.
Bene: a questo punto persino un ritardato dovrebbe aver capito che non solo ho apprezzato quest'album, ma anche che è oggettivamente uno degli esperimenti del genere meglio riusciti (se non il migliore) nonchè un pezzo imprescindibile da aggiungere nella collezione di chiunque apprezzi la buona musica. A maggior ragione se si vorrebbe tanto essere fan di AZ ma proprio non ci si riesce, appunto a causa delle sue disgraziate scelte in materia di beat -e se volete capire cosa intendo, ascoltatevi il secondo CD. Sfido chiunque a non prendere a testate lo stereo sentendo quella porcheria di The Love Of Money.






AZ - Memphis Sessions Disc 1
AZ - Memphis Sessions Disc 2

mercoledì 7 maggio 2008

AZ - THE FORMAT (Quiet Money/ Fast Life, 2006)

La mia missione pro-capitalismo si è conclusa mezz'ora fa con risultati relativamente deludenti: dei dischi che avevo in mente di comprare non ce n'era mezzo e per giunta ho trovato la camiceria chiusa, cosa questa che forse mi ha seccato di più. Ma pazienza: sono comunque tornato a casa con un paio di dischi non esattamente essenziali da avere ma comunque degni di ascolto: Classic dei Living Legends -che però non intendo recensire, almeno per ora- e, appunto, The Format di AZ.
Per introdurre il disco potrei fare molte cose, del tipo citare la sua strofa su Life's A Bitch e quanto questa sia stata leggendaria ma al contempo l'abbia danneggiato e bla bla bla; oppure potrei tessere elogi ad libitum per quanto riguarda la sua tenacia e per il fatto che sia uno dei pochi nuiorchesi di metà anni '90 a non essere scomparso pur non avendo ricevuto il successo meritato e cazzimazzi e mongolfiere. Ma ambedue questi discorsi sono triti e ritriti, e visto che la mia piccola audience è ferrata in materia mi parrebbe di tenere una lezione di educazione sessuale a Franco Trentalance (a proposito, Il Mucchio Selvaggio di Swaitz è da vedere per credere) e quindi evito. Molto meglio buttarla sul personale, quindi, e cominciare col dire che se c'è un MC che mi piace abbastanza ma del quale non compro mai i dischi, questo è AZ. Il primo suo album lo comprai nel '96, il secondo nel 2001 ed infine questo, appunto, nel 2008. Perchè? Ma perchè, molto semplicemente, i suoi sono generalmente album discreti con due pezzi ottimi, cinque validi, due brutti e qualche altro assortito- e anche questo non fa eccezione, tant'è che avrebbe potuto intitolarlo The Formula, visto che sono ormai più di dieci anni che inconsciamente Anthony Cruz la segue.
Ma non vorrei sembrare troppo criticone: formulaici quanto si vuole, ma i suoi dischi sono senz'altro migliori di moltissima merda che esce con maggior plauso di pubblico e critica; è solo che se c'è un rapper che davvero necessiti di un greatest hits, questo è AZ (che peraltro vedo essere uscito, ma il solo fatto che sia assente Pieces Of A Black Man lo rende inutile). Non fosse che in genere i greatest hits amo farli ciucciando solo da dischi originali lo farei io, ma... sto divagando, torniamo a The Format.
L'album si apre con la consueta entrata in grande stile, e difatti I Am The Truth ricorda le intro dei vecchi dischi di Jigga; molto pomposa, con un fiorir di campioni soul, archi ed un bridge che in realtà è la parte migliore del pezzo. Sul beat di Lil' Fame AZ se la capeggia egregiamente, e la cosa non dovrebbe sorprendere perchè tutto si può dire di lui fuorché che non sia bravo. La successiva traccia non solo è curata nuovamente da Fizzy Womack, ma vede come ospiti i suoi vicini di Brooklyn, gli M.O.P., i quali accompagnano il Nostro sull'ennesimo campione di Mary Jane di Rick James. Ora, già arrivati al secondo pezzo mi viene da evidenziare il primo difetto dell'album: vuoi per colpa dei produttori, vuoi per colpa del fonico, ma i beat non pestano come dovrebbero. Sembra infatti che abbiano segato rullanti e bassi poco prima che questi potessero risultare incisivi, e se la cosa può risultare innocua su certe produzioni più leggere, su altre -come questa Sit 'Em Back- la faccenda risulta fastidiosa. Prova in casa: ho messo su i Living Legends ed il pavimento vibrava continuamente, mentre con The Format sento alle volte un timido quanto breve "bbbrp" vicino alle casse; essendo il budget per i due dischi probabilmente simile, non posso quindi far altro che indirizzare un mortacci de tu madre a Arnold Mischkulnig (il tale che si è occupato di registrazione, mixaggio e quant'altro).
Tornando ai pezzi, preferisco pigiare sull'acceleratore e liquidare Get High come la prima vera cacata dell'album: a fianco di una produzione alquanto insipida si colloca il braggadocio di un Anthony Cruz in evidente crisi creativa, dato che il massimo di ingegno che si può scorgere è che è riuscito a mettere insieme una bella lista di ciò che lui ha (e gli altri no, si capisce): rispetto, droga, macchine, zoccole, belle case, televisori, quattro album... insomma, il solito approccio Postalmarket che salvo rare eccezioni induce sonnolenza ed anche un po' di fastidio. Segue una discreta quanto formulaica Make Me (featuring tale Fresh, suo protetto tutto sommato competente) e poi la seconda boiata, Games, che a parte i suoni un po' ottantoni viene devastata da un ritornello che la scaraventa di forza negli anni '90 -e non è un complimento. Samson, questo il nome del criminale crooner, non solo canta come se il disco dei Jodeci fosse appena uscito e come se Dick In A Box non avesse messo la parola "fine" a quel periodo e quello stile, ma per giunta se ne esce con "Why you wanna... playa-hate on me?". Capito? Lui si sente playahatato, quando in realtà non se l'incula nessuno. Una roba insomma che speravo sepolta per sempre nei meandri più oscuri della storia dell'hip hop e che invece viene riesumata da questa bella canzoncina. Applausi a scena aperta.
Ma quando tutto sembra perso, ecco invece la prima vera traccia bella del disco: Rise And Fall non solo risalta per la totale assenza di cassa e rullante e per il campione di piano e flauto che non sa di già sentito, ma soprattutto per l'inedita accoppiata AZ-Little Brother, che funziona molto meglio di quanto non parrebbe sulla carta. Veramente bella, ed anche contenutisticamente diversa da quanto sentito finora (sì, sarà il solito mescolone di becchindeddèis e nehovistedituttiicolori ma merita lo stesso). Pure la successiva Animal si difende egregiamente (bello il ritornello scratchato con la frasona di Biggie presa da Ten Crack Commandments: "I've been in the game for years, it made me an animal"), ma proprio quando The Format sembra aver preso il volo arriva puntualmente la boiata fou... ci sarebbe infatti da piangere, se non fosse che Doing That, oltre ad avere uno dei beat più trissshti sentiti negli ultimi anni, vede la partecipazione di Jha Jha. Ebbene sì: qualcuno al di fuori di quegli idioti dei Dips ha avuto il coraggio di ospitare quel incapace cessone dalla testa piatta e dalle zinne divergenti, ci avreste mai creduto? Immancabile perciò l'effetto diarroico della sua strofa (una sorta di Max B al femminile), ma quasi mi viene da dire che senza di lei la canzone sarebbe stata peggiore.
Ad ogni modo, mi sono rotto il cazzo di fare la lista della spesa: da qui in poi le restanti tracce sono tutte mediamente ascoltabili fuorché The Format, che tanto la conoscete già tutti e non mi sembra il caso di perderci battute per dire che è l'altro grande pezzo dell'album (video puzzone, comunque).
Insomma, stringi stringi, siamo alle solite: AZ è un ottimo liricista ed un più che discreto scrittore, ma quando si tratta di scegliere i beat riesce ad avere un paio di guizzi di genio, un altro paio di tuffi olimpionici di stile e, nella maggior parte dei casi, una serie di scelte sicure che se da un lato non provocano ribrezzo nemmeno fanno assumere grande personalità all'opera nel suo insieme. Indi per cui anch'io mi comporterò allo stesso modo: tre microfonini e la pia rassegnazione al fatto che o si decide di affidarsi alle cure di produttori più esperti e talentuosi, oppure continuera a campare egregiamente scrivendo belle cose che però si perdono nella mediocrità musicale da lui scelta.





AZ - The Format

VIDEO: THE FORMAT