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mercoledì 3 marzo 2010

A.G. - THE DIRTY VERSION (Silva Dom/Landspeed, 1999)

Volendo suddividere la mia collezione di dischi secondo criteri diversi da quelli alfabetici o cronologici, favorendo piuttosto un approccio cognitivo in cui si tiene conto prima di tutto della qualità, le categorie che ne risulterebbero sono quattro: album classici, album validi magari da riascoltare, album «meh» eventualmente da rivalutare e, infine, inclassificabili merdacce in polimeri degne al massimo d'una spernacchiata. Ora, anche in questo caso la celebre teoria degli opposti estremismi si manifesta in tutta la sua potenza e, per quanto risulti altrettanto inesatta quanto la sua controparte politica, almeno un punto di convergenza lo riesce a trovare: contrariamente alle categorie di mezzo, la prima e la quarta non richiedono da parte mia un riascolto per ricordarmi della loro identità. E così come potrei recensire Liquid Swords ad occhi chiusi, visti i tanti momenti di soddisfazione che mi ha dato, ecco che altrettanto posso fare con The Dirty Version di AG. Ovviamente, però, per motivi ben diversi.
Quest'opera, o per meglio dire quest'operetta, venne da me comprata in un tiepido mercoledì pomeriggio del settembre 1999 dopo averne visto la pubblicità sulla Source. All'epoca con la scuola s'andava a nuotare alla piscina che c'è in via Arena e, trovandosi il TimeOut sulla strada verso la suddetta, decisi così di lasciar giù quelle quarantamila lire che l'acquisto richiedeva. Lo feci senza fiatare, sapete, perchè memore della bontà di Full Scale mai avrei potuto pensare cosa mi avrebbe aspettato da lì a poche ore. Insomma, si può dire che il mio stato d'animo fosse puro ed innocente come quello di un bimbetto del catechismo che agita il turibolo seguendo il prete, simbolo di bontà e saggezza.
Peccato che sempre lo stesso bambino avrebbe scoperto a sue spese che il prete tanto buono era in realtà un orco (cit.). Metaforicamente attirato nella canonica di AG dalla più che promettente Muddslide, da lì in poi mi si sarebbe spalancato di fronte un'esperienza sonora a dir poco traumatica: dai synth formaggiosi e il mood jiggy-wannabe di Rude Awakening -da sentire per crederci- alla folle posse cut intitolata Rock Star, in cui non c'è uno dei miserabili ospiti che sappia rappare decentemente; dal funk da supermercato di Be With al beat trivialmente prodotto di Ishisms (campione di Stevie Wonder sentito quante volte, cento?); dalle surreali ospitate di tale Kool Chuck, un coglione talmente incapace da rendere letteralmente inascoltabile qualsiasi traccia ove egli appaia, alla insultante We Do That Too, in cui già il titolo qualifica il tutto. Tutto di quest'album fa schifo. E fa schifo due, tre volte più di quanto non sia tollerabile se prendiamo in considerazione che si tratta di AG! Con molte basi prodotte da Buckwild e Showbiz (ve possino!!!), Finesse e altri! Ma come si fa, porca-della-vostra-madonna, solamente a concepire un simile delirio?
Esempio: su uno di quei eterni beat di merda che vede un loop semimelodico ripetersi all'infinito -nella fattispecie quello di Do You- il fantasioso produttore Wali World (che per me poteva restare solo un MC) riesce a stendere alcune delle batterie non solo peggio equalizzate degli ultimi dieci anni, ma per giunta le mette insieme in una combinazione in cui il rullante è quasi a tempo -troppa grazia!- mentre tutto il resto sembra inseguirlo faticosamente, con cassa e hihats che inciampano l'una sull'altra come se si stessero ascoltando contemporaneamente due canzoni diverse... non so come descriverlo meglio, è davvero un risultato di una bassezza tale che va ascoltato in prima persona onde potersi rendere conto della gente con cui abbiamo a che fare. E quanto all'emceeing, a parte una rosa di personaggini che stanno al rap come il Cervia sta al calcio, a indignare più di tutti (escluso naturalmente quell'Attila, quel Gengis Khan del microfono che è Kool Chuck) è spesso lo stesso AG che, non pago di ridare alcune delle performance peggiori della sua carriera -Be With, A 2 Da G, We Do That Too- si fa accompagnare in dosi massicce dai Ghetto Dwellas che, diciamocelo, funzionano solo ed esclusivamente se il beat è cupo e minimalista. Altrove fanno solo ridere, insomma, e comunque D-Flow sempre marcio è stato e sempre marcio rimarrà.
Alla fine, le sole eccezioni in tutto questo delirante cumulo di sterco musicale -Muddslide, Underground Life, Weed Scented (hey, tre belle canzoni contro quindici spruzzi di diarrea, mica male per 40000 lire!)- non solo non possono riabilitare l'album, ma anzi ne sottolineano la pochezza. Un po' come quando vedi un cesso di ragazza mitragliata dall'acne e con la ricotta tra le dita dei piedi e ti vien detto "sì, ma ha dei bei occhi"... ESTICAZZI GLI OCCHI!
Chiudo dicendo solo che l'inclusione truffaldina di Drop It Heavy, che lascia intuire un senso di colpa del tutto giustificato da parte di AG, non rappresenta altro che il patetico tentativo di salvare in corner uno dei momenti più bui della storia della D.I.T.C. Francamente non so cosa sia peggio, se questo o quell'altra graziosa operuccia che è Bon Appetit; è un bel derby tra porcherie, intendiamoci, ma personalmente la coppa di "Stronzatona col fischio e col botto" l'assegno a questo a suo modo memorabile Dirty Version in quanto più lungo e dunque ancor più traumatizzante.
Ma vaccaghèr, va.





A.G. - The Dirty Version

VIDEO: RUDE AWAKENING

AG feat DITC - Rude Awakening - MyVideo

martedì 16 febbraio 2010

DIAMOND D - HATRED, PASSIONS & INFIDELITY (Mercury, 1997)

Come ogni anno, i mesi che vanno da gennaio a marzo tendono ad essere piuttosto poveri di uscite interessanti e di conseguenza risultano anche i migliori per rinfrescarsi la memoria con gli ascolti delle vecchie glorie. E se ultimamente mi sto ripassando i primissimi anni '90 -vedi la recente recensione di Stunts Blunts & Hip Hop- non mi disgusta andare a riprendere in mano le opere minori di artisti oggigiorno altamente quotati. È questo il caso di Hatred Passions & Infidelity di Diamond D, album noto oggigiorno più per la difficile reperibilità che per i contenuti musicali (una delle tante distorsioni dell'idolatria nei confronti deigli anni '90, IMHO).
Esso è la seconda opera solista dell'obesoide del Bronx e, uscito a ben cinque anni di distanza dal precedente, all'epoca lasciò l'amaro in bocca a molti estimatori del suddetto che ne denunciarono l'anonimità del suono ed una pur relativa mediocrità. La Source gli appioppò tre microfoni e mezzo, certo, ma non si può nascondere che se si mettono insieme la bontà del suo primo disco nonché l'eccellente qualità delle produzioni fatte conto terzi negli anni tra il '92 ed il '97 (cito solo il remix di Soul On Ice, The Score dei Fugees, Da Fat Gangsta di Fat Joe) le aspettative avrebbero dovuto ricevere ben altra soddisfazione che non una raccolta di beat e liriche francamente accettabili ma non molto di più. Ad onestà del vero -sia detto- a me questo disco all'epoca piacque ben più di quanto non sia disposto ad ammettere, ma col tempo mi è bastato imparare a conoscere Stunts Blunts & Hip Hop e le tante altre produzioni di D per farmi cambiare giudizio fino ad arrivare alla conclusione, magari un po' ingenerosa, che di tutte le opere firmate D.I.T.C. degli anni '90 questa è una delle più deboli.
Possibile? Certamente sì, soprattutto se si nota fin troppo un ammorbidimento dei suoni e delle atmosfere che non si confa troppo ad un membro della prestigiosa crew nuiorchese. Intendiamoci, Diamond D è sempre stato quello con il flow più rilassato e l'attitudine più pimpaiola, e di conseguenza ha un senso che lui non rappi costantemente su beat pestoni à la Big L o A.G. Epperò, quando nel corso di un unico album ci s'imbatte nella fiacca J.D.'s Revenge -tragico il ritornello cantato ed i relativi muggiti di sottofondo di Gina Thompson- nella revivalistica Can't Keep My Grands To Myself (sulla quale ci vedrei bene un Ma$e, per dire) e, soprattutto, nell'angosciantemente manieristica Cream 'N' Sunshine, dove a fianco del solito tremendo ritornello cantato si arriva al campionare alla cazzodicane Moonshine di Rick James, beh... allora c'è un problema, e bello grosso anche. Problema grosso che rischia di diventare enorme in un nonnulla quando ci accorgiamo dello sbilanciamento qualitativo del disco: HP&I comincia infatti bene con Flowin', cresce con MC Iz My Ambition, prosegue liscio con No Wonduh e l'originale di Hiatus (che non è di molto inferiore all'eccezionale remix, sia ben chiaro); fa una pausa di tre canzoni in cui includo anche la deludente Painz & Strife con un Phife decisamente loffio, e poi giunge finalmente al piatto forte del menu, ossia la straordinaria 5 Fingas Of Death (su cui ritornerò più avanti). Bene: da lì -nona tarccia- fino all'eccellente Epilogue, il nulla o quasi. Vale a dire che magari Gather Round, Never o This One sono anche carine e si lasciano ascoltare, ma io da Diamond D mi aspetterei qualcosa più che un semplice "carino". Anche perchè se prendiamo questi suoi pezzi «meh» e li paragoniamo a canzoni curate da artisti meno noti e/o celebrati, ad esempio i Blahzay Blahzay, notiamo uno scompenso qualitativo decisamente sospetto. Insomma, non ci siamo: manca l'estro, la freschezza, il tocco di classe mostrato invece più e più volte in quasi tutte le sue produzioni antecedenti quel fatidico 1997.
Ma per quanto un po' opacizzato, un talento naturale come Diamond D non può scomparire così allegramente: e difatti a ricordacelo più che qualsiasi altra traccia c'è la stupenda 5 Fingas Of Death, una delle posse cut più potenti mai eseguite dalla D.I.T.C. in cui a fare il ruolo del leone è un Big L assolutamente strepitoso (piccolo caveat: non è prodotta dal Nostro, bensì da Kid Capri). La sua strofa è uno dei migliori esempi di thuggery mescolata a liricismo ed esibizione di puro stile, come New York vuole e, più ancora dell'attacco ("Check it, I stay jewel'd up, pockets swelled up from banks I held up/ Plenty bitch-ass niggas Big L stuck") è la chiusura a ricordarci della grandezza di Lamont Coleman: "Your faggot ass better stick to dancing/ Don't even look at me I might break your jaw just for glancing/ That's right, in '97 Harlem kids is blowing/ And we don't trip, we all let a bitch starve til her ribs are showing". E questo a fronte di strofe comunque ottime da parte degli altri ospiti, O.C. e A.G. su tutti.
E sempre restando in tema di emceeing, va detto che se contenutisticamente Diamond D è rimasto tale e qual'era nel '92, tecnicamente è migliorato (soprattutto come struttura metrica e dizione) e sovente è il suo stile a risollevare le sorti di un pezzo oppure a renderlo genuinamente bello. MC Iz My Ambition, ad esempio, godrà sì di un immancabile sample di David Axelrod e di un ritornello semplicissimo ma capace di marchiarsi a fuoco nella memoria, ma a renderla un piacere per le orecchie contribuisce proprio il flow cadenzato di Diamond. Idem dicasi per la sottovalutata Hiatus originale, oppure l'altra hit del disco, cioè la conclusiva Epilogue, in cui il nostro gioca con le parole per un buon quattro minuti filati, e dove il cupo ed elegante campione di vibrafono conferisce all'insieme la tipica ciliegina sulla torta.
Conclusione: mi scoccia rimangiarmi opinioni o idee, anche se queste nacquero in tempi in cui le mie conoscenze ed i miei gusti erano sviluppati meno di un decimo rispetto ad oggi (mi gioco così la dottrina dell'infallibilità, sapete), ma in questo caso il revisionismo è d'obbligo. Fermo restando che Hatred Passions & Infidelity contiene delle buone cose ed anche due pezzi ottimi, è anche vero che rispetto anche solo ad un Awakening ciò che manca è la brillantezza ed il taglio personale. L'ha prodotto Diamond ma poteva produrlo chiunque, all'epoca, non so se mi spiego. Perciò da un lato vi consiglio di dargli un ascolto a sgunfio, casomai non l'aveste già fatto, e dall'altro vi sconsiglio fortemente di spenderci più dei soliti quindici yuri casomai lo doveste trovare in giro.





Diamond D - Hatred, Passions & Infidelity

VIDEO: THE HIATUS

lunedì 8 febbraio 2010

DIAMOND D & THE PSYCHOTIC NEUROTICS - STUNTS, BLUNTS & HIP HOP (Chemistry/Mercury, 1992)

A causa della mia ignoranza per lungo tempo ho reputato il 1992 come un anno piuttosto fiacco per l'hip hop; la mia soddisfazione per i vari Mobb Deep e Heltah Skeltah dell'epoca non mi spingevano a grandi ricerche e/o retrospettive, e così c'è voluto un po' di tempo per farmi scoprire che diciotto anni fa apparvero sul mercato musicale dischi storici (o quasi) come Mecca & The Soul Brother, Don't Sweat The Technique, Live And Let Die, Runaway Slave, il primo di Redman e soprattutto questo Stunts, Blunts & Hip Hop. Pazienza: meglio tardi che mai, direbbe qualcuno.
Purtroppo, però, questa mia défaillance non solo ha fatto sì che all'epoca mi perdessi della musica di indiscussa qualità ma, peggio ancora, mi ha fatto perdere quasi del tutto la possibilità di contestualizzare quest'ultima in modo tale da poterne parlare con sufficiente competenza. Oltretutto, trattandosi in questo caso di un'opera che si distingue prevalentemente per il beatmaking, il mio non essere un produttore o un cosid. crate digger comporta inevitabilmente una minore capacità analitica di quella che Stunts Blunts & Hip Hop meriterebbe. E dico ciò in quanto ritengo che se la stragrande maggioranza dei beat di Diamond D "funziona" ancora oggi è perchè dietro ad essi non via è solo perizia ma anche grande tecnica e, ovviamente, non poco talento.
Ma tant'è, inutile piangersi addosso, anche perchè fin dal titolo si può intuire che il Leitmotiv di questo esordio -uno dei migliori di sempre- è il cazzeggio in tutte le sue forme a partire proprio dall'hip hop come mezzo d'espressione. Non c'è molto né dei Public Enemy, né degli N.W.A., ma solo un'attitudine smaccatamente nuiorchese e decisamente ortodossa nel suo immaginarsi la musica principalmente come sfogo creativo a tutti costi. E così ecco che uno storytelling tutto sommato moralista come Sally Got A One Track Mind riesce a convivere tranquillamente con uno decisamente più ghettuso come I'm Outta Here; e le varie Check One Two, Fuck What You Heard o Keep It Simple Stupid alla fine non fanno che sottolineare quanto Diamond D tenga all'intrattenimento più che ad ogni altra cosa. Un obiettivo, questo, che secondo me diventa condivisibile appieno solo nel momento in cui esso è realizzato bene, e fortunatamente ciò avviene praticamente sempre. Il successo è dovuto naturalmente a Diamond stesso, che forse non dimostra l'agilità lirica di Big Daddy Kane ma di certo si difende bene per l'epoca -non solo contro colleghi come Large Professor o Pete Rock ma anche contro gente tipo il primo Sadat X o persino il compagno di crew AG; ma oltre a ciò, oltre alla sua bravura, buona parte del merito va ai diversi ospiti, che così riescono ad offrire quel po' di varietà che lo stile piuttosto asciutto del Nostro da solo non saprebbe dare. Liricamente non ci sono momenti fiacchi, e l'inventiva qui mostrata nel creare metafore (si vede che frequentava Finesse già da tempo) alla fine fa scivolare in secondo piano una metrica non particolarmente originale ed un timbro vocale abbastanza monocorde.
Ciò detto, veniamo al punto focale del discorso: i beat. Tanto per cominciare sarei curioso di sapere quanti dei campioni qui usati hanno visto il loro debutto sulla scena grazie a Diamond D e, soprattutto, quanti di essi sono stati poi riciclati più e più volte negli anni a seguire. Come vi ho già detto, non è che la mia conoscenza musicale in tal senso sia un granchè, ma posso quantomeno farvi un paio di esempi: Ready Or Not dei Delfonics, Faded Lady dei SSO, Pride And Vanity degli Ohio Players (uno dei miei campioni preferiti di sempre) o American Tango dei Weather Report… Da questo punto di vista non solo è positivo che oggigiorno si conoscano quasi tutti i sample utilizzati in SB&HH, visto che si può accrescere la propria cultura musicale non solo in termini accademici, ma soprattutto lascia sgomenti vedere quanti campioni si possono trovare in un solo pezzo (del resto quest'album è forse l'ultimo pubblicato prima che gli effetti della causa contro Biz Markie si facessero sentire in tutta la loro forza). E alla fin fine, com'è ovvio, il poter attingere a così tante fonti sortisce i suoi effetti: musicalmente quest'album è di una varietà impressionante, e pur avendo un mood riconducibile principalmente al jazz non sfuggono le numerose incursioni nel soul e nel funk. E a colpire non è solo la diversa natura dei sample ma anche le diverse velocità, la ricchezza delle composizioni così come anche alle volte la loro semplicità. Fate una prova: passate da Sally Got A One Track Mind a Day in The Life a Check one Two e a momenti penserete che il produttore non possa essere lo stesso.
Last but not least, uno dei più grandi pregi di questo disco è quello di suonare ben più attuale di altri prodotti usciti nello stesso periodo: I Went For Mine per esempio potrebbe benissimo passare per qualcosa di MF Doom, K.I.S.S. invece per un J. Rawls, What You Seek per materiale dei Jurassic 5 meno noiosi e Confused per un Oh No del 2004/6. Insomma -complice anche il revival degli ultimi anni- il punto è che Stunts Blunts & Hip Hop aggiunge ad un valore storico inconfutabile quello di puro godimento, anche a distanza di diciotto anni. Prova di ciò ne è il fatto che, paradossalmente, l'impressione di attualità è da me più sentita oggi che non quando acquistai originariamente questo disco, ossia nel '99 (sì, lo so, sono un marcione eccetera eccetera).
Morale della favola? Morale è che più passa il tempo e meno si tiene conto -se non della rilevanza- della bellezza di un album come Stunts Blunts & Hip Hop. Cerchiamo di evitare, ok? E prima di comprarvi l'ennesimo disco -magari anche bellino- di quest'anno, date un ascolto a Diamond D. Potreste cambiare idea circa le priorità degli acquisti. A qualcuno il pieno dei voti e lo status di classico potranno sembrare esagerati, ma francamente trovo che questo sia il migliore disco della D.I.T.C. dei primi temi nonché un'opera capace di reggere tranquillamente il confronto con cosucce tipo Mecca & The Soul Brother o Live And Let Die.





Diamond D & The Psychotic Neurotics - Stunts, Blunts & Hip Hop

VIDEO: SALLY GOT A ONE TRACK MIND

martedì 22 dicembre 2009

O.C. & A.G. - OASIS (Nature Sounds, 2009)

Approfittando della pausa lavorativa concessami dalle cause collaterali dovute al maltempo, che hanno bloccato nei treni o in casa buona parte della redazione, vedo di lasciarvi un ultimo disco prima di Natale in modo tale che possiate perdonare questa mia lunga e forzata assenza d'aggiornamenti. E per farlo decido di svelare -si fa per dire, dato che il disco è uscito da quasi un mese- l'ultima delle collaborazioni a due che hanno segnato in positivo questo 2009. Dopo Torae e Marco Polo, KRS e Buckshot, Problemz e Honda e Masta Ace e EdO.G, ora è quindi il turno di due veterani della scena che non hanno bisogno di presentazioni: O.C. e A.G., al secolo Omar Cradle e Andre Barnes.
In giro fin dai primi anni '90 e aventi alle spalle due indiscutibili classici -Runaway Slave e Word Life- le loro carriere hanno però subito negli anni duemila gli stessi contraccolpi ricevuti dalla D.I.T.C. tutta, cioè inconsistenza qualitativa e relativo calo di popolarità dovuto però, oltre ai mutamenti del mercato, ad un esiguo numero di pubblicazioni. Tuttavia, questa seconda metà del decennio li ha visti tornare alla luce del sole grazie non solo a dischi propri ma anche e soprattutto a diverse collaborazioni, il cui fulcro può essere considerato appunto questo Oasis. Inutile ora marcare le differenze d'aspettative tra oggi e dieci anni fa: l'unica cosa che conta è fare una bella verifica che ci consenta di capire se i due siano scoppiati o meno e, ancor più importante, se la D.I.T.C. sia ancora dotata di una spina dorsale o se ormai si può considerare estinta de facto: insomma, se si tratta dell'album che noi fan abbiamo aspettato per troppi anni o meno (Starchild e Get Dirty Radio sono buoni dischi, per carità, ma sonoricamente non c'entrano quasi nulla con la Diggin' In The Crates).
Questa sorta di biopsia musicale assume ancor più senso se prendiamo in considerazione gli (alcuni) autori delle basi, cioè quei Show e Lord Finesse che noi tutti conosciamo e amiamo pur non essendosi contraddistinti di recente per bravura. Il nostro amore per loro non dev'essere peraltro sfuggito al direttore marketing della Nature Sounds, che difatti ha schiaffato sulla copertina del disco un adesivo king size recante i loro nomi a caratteri cubitali -e fin qui tutto bene- tralasciando però completamente il povero E Blaze, cioè colui che di fatto fornisce il maggior contributo al disco con ben nove tracce da lui firmate. Per carità: a lui gireranno legittimamente le palle, ma a noi poco importa: il sound di Oasis è infatti decisamente omogeneo, pur con le debite variazioni del caso, e grossomodo si può dire che viaggia preedominantemente sull'uso di campioni soul e funk degli anni '70. Chi si aspettava quindi il minimalismo di fine anni '90 resterà deluso, pquindi, perchè in realtà quasi tutti i pezzi risultano gradevoli all'orecchio e financo melodici: ne possono essere esempi gli archi melancolici di God's Gift oppure il loop di piano accompagnato dal Moog e dalle campanelline di Alpha Males, ma anche il tiro rilassato di Supreme Squad e le tastiere elettroniche riverberate di Get Away bastano per dare un'idea del mood dominante in Oasis. Anzi, con come unico autentico pestone la magnifica Think About It (i tagli di campione sono perfetti), e con come solo omaggio alle atmosfere più cupe della tradizione D.I.T.C. l'altrettanto valida Against The Wall (molto ottantona, sono portato ad affermare che Oasis parrebbe più adatto ai Camp Lo o al Beanie Sigel più tranquillo che non ai Nostri.
Per carità: la qualità dei beat è indiscutibile e, fatta salva una certa carenza d'orignalità e l'occasionale, perdonabile cacatiella (Boom Bap, Put It In The Box), calzano anche molto bene al duo. Tuttavia, oggettivamente si può dire che alcune basi s'assomiglino troppo nella struttura e nella scelta dei campioni (Everyday Life = Reality Is = God's Gift, ad esempio), mentre soggettivamente non vi son cazzi: si chiedeva e si poteva avere un po' più di hardcore. Oasis è invece molto rilassato, forse fin troppo, e questo da un lato -passata l'infatuazione inziale- può annoiare, anche in considerazione della discreta durata dell'opera, e soprattutto tradisce quel che bene o male si è sempre chiesto agli autori di una Time's Up o una Spit. Comunque sia, visti i trascorsi di O.C. e A.G. in quanto a beat forse non è il caso di lamentarsi troppo e farsi andar bene l'offerta qui presentataci, in cui peraltro svetta su tutti E Blaze, seguito a ruota da Finesse; mentre per Show comincio a preoccuparmi visto che ad eccezione di Two For The Money e al limite Young With Style tradisce di un bel po' le aspettative soprattutto in termini di creatività e originalità. Mmmh...
Chi invece alla fin fine fa il proprio lavoro e lo fa bene sono proprio O.C. e A.G., che, se tematicamente restano bene o male inquadrati sugli stessi binari di dieci o (quasi) vent'anni fa, stilisticamente appaiono proprio in forma. Quel che infatti manda in sollucchero di Oasis è l'alchimia presente tra i due, come questi sanno adattarsi al beat e viceversa, e più di ogni altra cosa lo sfoggio di bravura francamente ormai insospettabile. Quello che voglio dire è insomma che non solo rappano bene, che è il minimo che ci si può aspettare dai due, ma che sono tornati ai fasti di Jewelz e Full Scale -aggiornandosi quel che basta. Scordatevi quindi il tono monocorde dell'O.C. di Starchild, oppure quella sorta di imprecisione che si notava in get Dirty Radio: pur parlando praticamente solo di sè stessi, qui i due danno l'idea di dare il massimo come tecnica e difatti la cosa si nota. Impossibile perciò descrivere la pulizia e la precisione delle loro rime; preferisco rimandarvi all'ascolto per capire meglio cosa intendo.
In conclusione, quindi, il meno che si può dire di Oasis è che è un album ben fatto ma non coraggioso; non coraggioso né nella scelta dei beat, né in una ricerca contenutistica in cui l'essere un duo avrebbe potuto dare la famosa marcia in più (cosa che invece avviene nel caso di Ace e EdO.G., per dirne una). Pure, alla fin fine ciò che viene proposto è e resta materiale di qualità e, se solo si fosse data una sforbiciata alla tracklist, avremmo avuto tra le mani un prodotto innegabilmente migliore. Ma già così com'è sarebbe delittuoso non dargli una chance, credetemi. Tre e mezzo per restare oggettivi, ovviamente a titolo puramente personale gliene darei quattro abbondanti.





O.C. & A.G. - Oasis

mercoledì 18 novembre 2009

O.C. & A.G. - OASIS (PREASCOLTI COMPLETI)

Dopo EdO.G. e Masta Ace, ecco un altro duo che promette bene e che alla fine razzola come predica. Tutti i preascolti sul loro Myspace. A margine: noto che il 2009 è l'anno degli scontri tra tag team e fra chi tra questi propone la cover più brutta. Arts & Entertainment continua a detenere il titolo, ma anche questo è uno di quegli album che mi fanno vergognare di possederne l'originale.

mercoledì 23 settembre 2009

SHOW & AG - FULL SCALE LP (Fat Beats, 2000[?])

Scusatemi per il ritardo nell'aggiornare il blog, ma stamattina la situazione lavorativa è stata infuocata; inoltre, avevo già preparato la recensione di Trife (che mi sarebbe dovuto arrivare assieme a Cuban Linx II già ieri) e che però per motivi tecnici ha dovuto essere posticipata a domani. Poco male; per sdebitarmi vi propongo allora un disco realmente imperdibile, ovverosia il Full Scale LP di Show & AG. Ma prima di addentrarmi in una descrizione maggiormente dettagliata, un po' di storia.
Quando nel 1998 venne pubblicato l'omonimo EP, io avevo già sentito Q&A via internet e ne ero rimasto talmente entusiasta che la sola presenza di quella traccia mi spinse ad acquistare per l'occasione un giradischi, oltre ovviamente al vinile: non era infatti prevista, o quantomeno disponibile, una versione in CD. A questa mancanza provai a supplire io, trasferendo le tracce su CD; ma siccome non è che fossi proprio un genio dell'elettrotecnica, non ero riuscito a risolvere un banale problema di messa a terra che andava a concretizzarsi nel tipico ronzio sui 50hz e che, ancora più concretamente, rovinava in modo non indifferente il piacere dell'ascolto. Fortunatamente, un mio amico più esperto mi aiutò a collegare correttamente il piatto all'amplificatore e così finalmente potei avere delle versioni degne d'ascolto su CD. Tuttavia, quando nel 2001 feci il mio viaggio negli Stati Uniti e, ovviamente, andai in pellegrinaggio al Fat Beats, vidi questo LP ed immediatamente sborsai le du' lire che erano richieste per l'acquisto.
Il motivo di quest'azione si può ravvisare senz'altro nel mio collezionismo compulsivo, ma soprattutto nel fatto che quello che si presenta come un'estensione del precedente EP altro non è che una raccolta su CD di svariati 12" pubblicati dal '98 al 2000 [*] in cui era coinvolto il duo del Bronx, oltre naturalmente alle cinque tracce originali. Accanto quindi alle varie Q&A, Spit eccetera, potremo trovare Themes Dreams & Schemes, Dignified Soldiers, Weekend Nights (qui elencata come Spit Remix) e persino il primo singolo ufficiale dei Ghetto Dwellas, con tanto di b-side e annessi e connessi. Ne consegue che se da un lato il titolo è fuorviante e truffaldino, dall'altro si ha la possibilità di mettere mano su alcune delle cose migliori della DITC ad un costo esiguo e con il vantaggio di una qualità sonora impeccabile.

[*] Andando su Discogs potrebbe sorgere un po' di confusione, in quanto quest'album viene datato al 1998 e non essendoci alcun tipo d'indicazione sul disco stesso non c'è modo di fare una verifica inconfutabile. Io però trovo che questa datazione sia erronea, principalmente per tre motivi: il primo è che il 90% dei pezzi che reputo essere degli extra sono usciti come singoli e b-side degli stesso (Themes Dreams & Schemes, Time To Get This Money, Get it Dirty, Hidden Crates, Who's The Dirtiest), ed una simile logica non avrebbe alcun senso se la loro origine fosse una sola; il secondo, che diversi di questi risalgono al '99 e per giunta tutti per etichette diverse, il che sarebbe impossibile se la paternità fosse una sola; il terzo, infine, che questi appunto non figurano mai come prodotti di Show & AG bensì come roba della DITC, dei Ghetto Dwellas, di Giant... insomma, per me sia Discogs che Wikipedia hanno preso un abbaglio. Ergo, devo dedurre che in realtà il Full Scale LP sia del 2000 e non del 1999, men che meno del '98, visto che non avrebbe molto senso fornire una raccolta di canzoni nell'anno stesso in cui queste sono state pubblicate in altri formati. Chiusa parentesi.

Cominciamo quindi a magnificare quel che dev'essere magnificato, partendo proprio dall'EP originale. Come già detto, e com'è ovvio, qui ritroverete tutti i pezzi presenti nella versione del '98 ad eccezione delle strumentali; la tracklist non è identica ma poco importa, dato che nel corso dell'ascolto ci si potrà imbattere in Drop It Heavy, Raw As Ever, Q&A, Spit e la stessa Full Scale. Di questi cinque pezzi non so davvero cosa dire, nel senso che sono tutti delle chicche indiscutibili. I beat rientrano nella miglior tradizione della scuola DITC, suonando minimalisti e potenti allo stesso tempo, con poche o nessune concessioni all'orecchiabilità; da questa prospettiva spiccano soprattutto Spit, autentico capolavoro di beatmaking, e l'altrettanto fantastica Q&A, che recentemente ha visto una rivisitazione non ufficiale da parte di Marco Polo e Torae nell'ottima Lifetime (il campione è lo stesso e l'effetto finale pure). Come liriche anche qui ci siamo, nel senso che AG in quel periodo era secondo me all'apice del proprio percorso creativo, il che comporta un equilibrio tra la sua particolare enunciazione (che era molto forte in Goodfellas) e la complessità della metrica. Pur non spingendosi al di fuori dei confini del meta-rap, è impossibile non restare affascinati dalle sue strofe ed alla fine gli unici capaci di distogliere la nostra attenzione dal suddetto sono nientemeno che KRS One e Big Pun, che contribuiscono ad aggiungere Drop It Heavy alla lista delle canzoni migliori dell'insieme. Insomma, come nota a margine (ma nemmeno troppo) vorrei puntualizzare che non solo conferirei il massimo dei voti all'EP, ma aggiungo anche che esso è secondo me uno dei tre migliori extended playing di sempre.
Venendo invece ora al resto del materiale, la qualità in questo caso diviene più ondivaga restando pur sempre in fascia alta. Dignified Soldiers (sia remix che originale), Time To Get This Money e Weekend Nights sono ad esempio eccezionali, mentre invece Hidden Crates, Put It In Your System, Who's The Dirtiest e Themes Dreams & Schemes lo sono meno. Questo dipende sia dai beat, che magari colpiscono meno oppure rischiano di scivolare nella ripetitività, sia dagli ospiti: in effetti, per quanto mi piacciano i Ghetto Dwellas non si può certo dire che siano dei mostri del microfono, e se Party Arty riesce a compensare le sue lacune grazie alla voce ed al carisma, D-Flow non ha grandi appigli che gli consentano di uscirsene a testa alta in un confronto con AG. E ciò diventa deleterio le poche volte in cui la base non è molto solida, com'è il caso di Get Dirty, indubbiamente il pezzo meno valido dell'insieme assieme a Hold Mines: quest'ultima è infatti retta dall'abilità di AG e così riesce a salvarsi in corner, mentra la prima presenta un beat fiacchetto in cui il duo d'ignoranti francamente dimostra di non avere abbastanza forza per reggere da solo una canzone.
Ma vogliamo star qui a spaccare il capello in quattro? No: poche balle, Full Scale è un quasi-capolavoro che deve, sottolineo il deve, trovarsi in ogni collezione di rap che si rispetti. E, contrariamente a quanto pensavo di fare inizialmente, mi spingo oltre il quattro e mezzo e gli affibbio lo status di classico. Eccheccazzo.





Show & AG - Full Scale LP

lunedì 21 settembre 2009

BIG L - LIFESTYLEZ OV DA POOR & DANGEROUS (Columbia, 1995)

Chissà perchè ero convinto che Lifestylez Ov Da Poor & Dangerous fosse del '94! In metrò avevo dunque cominciato a buttar giù due idee su come scrivere un'introduzione d'impatto, atta eventualmente a far scordare le sciocchezze che l'avrebbero seguita, e invece ora mi trovo con in mano un pugno di mosche. Pazienza: fatto sta che all'epoca dell'uscita la Columbia lo promuovette come la chiesa può pubblicizzare la pedofilia tra i preti, con la prevedibile conseguenza che le vendite furono quantomeno deludenti malgrado il buon successo di critica che ricevette (salvo ovviamente Rolling Stone, che puntualmente dimostrò un'ennesima volta di non capire assolutamente nulla di rap). Dal canto mio, ammetto che rimasi all'oscuro dell'esistenza di quest'album finchè un giorno, nel lontano '98, dopo aver sentito Ebonics da un mio amico, scorsi il CD tra gli scaffali del defunto TimeOut e decisi di comprarlo.
Ebbene: benché all'epoca non avessi ancora il fiuto sopraffino che oggi mi contraddistingue, ben feci a spendere quelle (circa) quarantamila lire: LODPAD rimase in assidua rotazione su cassetta per i successivi due anni, facendosi apprezzare prima per i pezzi più orecchiabili ed in seguito per quelli un po' più ostici, lasciandosi infine alle spalle solamente un due-tre canzonette passabili ma nulla più. Sono inoltre abbastanza contento di averlo sentito prima del postumo The Big Picture, in quanto quest'ultimo, non entusasmandomi, difficilmente m'avrebbe portato a spendere dei soldi su altri prodotti di Lamont Coleman. Così, invece, non solo ho avuto poi modo di seguirlo con maggore interesse per il breve periodo in cui era ancora in vita, ma soprattutto ho avuto modo di gustarmi un bel disco della DITC praticamente in tempo reale e senza farmi influenzare dall'idolatria che puntualmente segue l'eventuale morte di un artista.
Il punto infatti qual è: è che Lifestylez è indubbiamente un buon album -anche se posto nel florido contesto dell'epoca- ma privo comunque della stoffa necessaria per renderlo un classico come Word Life o quantomeno un'opera impeccabile. E questi difetti si manifestano non tanto nell'MC, che già allora era bravissimo, quanto nei beat, molti dei quali possono essere al limite essere definiti "ok" o poco più. Ciò detto, che poi il sound datato del disco possa piacere è fuor di dubbio, ma nel momento in cui certe produzioni mostrano segni di debolezza non appena le si contestualizza correttamente ecco che ci si allontana dal voto pieno, che pure in molti vorrebbero dare a quest'opera.
Lo ammetto, per carità, da un lato io li capisco pure: Put It On, MVP, All Black, Danger Zone, Street Struck e Let 'Em Have It L sono sei pezzoni cha vanno dal molto bello al fichissimo e, ragionevolmente, si può pensare che se sei tracce su dodici sono così valide, allora è fatta. E invece no, perchè purtroppo vi sono casi relativamente gravi dove è il beat ad essere a dir poco obsoleto (No Endz No Skinz sembra del '91) o insipido (I Don't Understand It, Fed Up With The Bullshit), oppure dove gli ospiti del caso sono troppi (8 Is Enuff, nomen est omen) mentre quand'anche il numero giusto, allora è la strofa in quanto tale a far cagare (e quella di Jay-Z in Da Graveyard se la gioca con quella di tale Microphone Nut). Per un verso o per l'altro, insomma, non è molto chiaro come mai beatmaker solitamente eccelsi come Showbiz abbiano potuto passare a L delle semifetecchie, così com'è ancora meno chiaro il motivo per cui quest'ultimo abbia ritenuto fondamentale invitare a rappare tutta la gente che si vede sulla copertina (praticamente il suo condominio) -seriamente, dei featuring salvo solo Finesse, Grand Daddy I.U. e per certi versi tutta la cricca di 8 Iz Enuff, visto che rappano allo stesso modo caratteristico del periodo (non so se possa essere un complimento, però). Insomma, la prossima volta che sento o leggo qualcuno descrivere Lifestylez come un classico alla pari di Infamous o Illmatic io lo investo sette o otto volte con una ruspa.
In fondo non c'è bisogno di idolatrare alcunché: LODPAD regge benissimo sulle sue gambe, grazie soprattutto ad un MC per certi versi ancora immaturo ma che già in quel '95 dimostrava di poter pisciare in testa all'80% della scena. La sua tecnica non solo era pulitissima e da un punto di vista oggettivo impeccabile -in cui considero il controllo del respiro, l'uso della voce e delle pause ecc.- ma era anche caratterizzata da uno humor nero che, misto a sarcasmo ed arroganza (ed un'ottima immaginazione, va detto), rendevano L ammirabile e divertente allo stesso tempo. Le citazioni si potrebbero sprecare, ma che senso avrebbe? Il punto è che Lamont Coleman era capace di riassumere in sè quelle qualità fondamentali che rendono potente un MC e che, in fondo, definiscono l'hip hop. Non a caso, pur non allontanandosi di un'orma dalle tematiche più classiche del genere (viulenza, droga, fica, vitadimerda ecc.) questo suo esordio è godibile dall'inizio alla fine puramente per l'aspetto estetico, quello della forma. E per quanto io solitamente non disdegni ascoltare temi più impegnati, non posso negare che questo èuno dei (nemmeno poi troppo) pochi casi in cui si può dire che nel tempo è la forma a vincere sui contenuti.
Di conseguenza, benchè vi siano, come ho detto, beat più che discutibili, alla fin fine Lifestylez gira che è un piacere. E poi non scordiamo che le perle ci sono: sia che si ascoltino le trombe col delay di Street Struck che il classico campione dei DeBarge di MVP, alla fin fine quello che ci si trova in mano è uno di quei curiosi esperimenti di quell'epoca, dove persino gente con la fama degli alfieri dell'hardcore come Finesse o Buckwild riescono a dare un taglio più commerciabile alle loro produzioni. MVP, appunto, ne è l'esempio migliore; ma da questo punto di vista anche Put It On o la stessa Street Struck hanno il loro potenziale di orecchiabilità. Tuttavia non dovete temere: non solo all'epoca anche le cose più "aperte", diciamo, avevano una loro dignità (cfr. Juicy, il remix di All I Need, I Got 5 on It... hai voglia), ma oltretutto qualsiasi fanatico del minimalismo nuiorchese quà dovrebbe trovare pane per i suoi denti. All Black ha un campione che definire ossessivo/angosciante è dir poco; le batterie di Let 'Em Have It L, col solito sax nel ritornello, portano alla frattura del collo entro la fine della prima strofa; e anche Da Graveyard non si difende male, e rende parecchio a patto che sia su un MC degno di questo nome (a tal proposito: la strofa iniziale di L è da applausi).
Ma questi sono solo alcuni esempi degli aspetti positivi di questo disco; a quei pochi che non lo dovessero avere mai ascoltato posso solo dire che sembra un gioco di scatole cinesi, dove prima noti le cose più evidenti e poi scendi sempre più nel dettaglio, via via scoprendo elementi positivi dove fino ad una settimana prima pensavi non ci potesse essere nulla. Tuttavia, malgrado tutti i sopracitati pregi, è anche vero che un paio di beat fuori posto, abbinati ad una logica di featuring completamente sballata, rovinano LODPAD quel tanto che basta per sgargli via un intero zainetto. Ma non azzardatevi ad ignorarlo.





Big L - Lifestylez Ov Da Poor & Dangerous

VIDEO: PUT IT ON

lunedì 27 luglio 2009

O.C. - BON APPETIT (JCor, 2001)

La provocazione, nell'arte, è una costante che si ripresenta puntualmente ogni qualvolta si va a creare uno status quo. La ripetitività ed il manierismo sono la nemesi dell'avanguardista, il quale di conseguenza li analizzerà e deciderà una contromossa spiazzante atta a metterne alla luce l'obsolescenza o l'involgarimento. Alla massa, che cammina in cerchio scavando solchi nel terreno, come Zio Paperone cammina nel suo silos pensando ai Bassotti, l'avanguardista appare come un esploratore che li può condurre fuori dall'autismo della ripetitività. Gli esempi abbondano, specie nel periodo moderno e contemporaneo: musicalmente si potrebbe definire il punk tutto come una provocazione ed al contempo una nuova via; così anche il futurismo ed il suo odio nei confronti della decadenza; per non parlare poi naturalmente dell'astrattismo. Sempre seguendo questa logica di analogie, io però sarei più propenso ad accostare questo Bon Appetit alla celeberrima "Merda d'artista" manzoniana.
Intellettuale tra i più sensibili, O.C. ha colto l'angoscia insita nel rap del nuovo millennio e, seguendo la scuola junghiana, ha cercato di ridefinire il suo "es" con una parabola che può essere ricollegata alla fase anale del bambino, la quale secondo Jung è il momento in cui si comincia ad organizzare il rapporto tra dentro e fuori, tra esperienza corporea e mentale. Capacità quali ritenzione e plasmazione caratterizzano questa fase dove fa capolino per la prima volta la creatività insita nell'essere umano, e proprio dall'essenza, dal Innertum del genio, Omar Cradle decide di partire per evidenziare la decadenza di una fase storica di un genere musicale.
L'importanza e l'innata provocazione di Bon Appetit, più un concetto d'arte che un mero oggetto d'arte, saltano agli occhi fino dalla forma: dopo cacche molli, dure, di vario colore ma pur sempre cilindriche, O.C. sconvolge l'accademismo di certi benpensanti partorendo una stronzata a forma di disco con, come ulteriore j'accuse meta-artistico, un misterioso buco al centro. Esso, risultando perciò inutilizzabile come frisbee (stabilità), come fermacarte (peso), come stabilizzatore di comodini vacillanti (spessore), obbliga dunque il fruitore ad un gesto estremo e oramai quasi dimenticato come l'ascolto su stereo. Ma le provocazioni non finiscono qui: sparse per il disco egli lascia alcuni appigli per coloro che dovessero credere di trovarsi di fronte ad un artefatto confortante, classico e dunque di facile digeribilità (Doin' Dirt, Respect The Drop, Psalm 23); nulla di più falso!
L'arte di capovolgere l'analisi semiotica tradizionale si fa viva in tutta la sua proprompenza mediante stilettate al comun sentire quali Get It Dirty, Bounce Mission o Weed & Drinks: appare evidente la polemica nei confronti dell'establishment artistico, che finora riteneva di poter far muovere i culi e far versare Cristal nel club solo attraverso cifre stilistiche quali synth passati attraverso compressori da milioni di dollari ed un mixaggio professionale. Grazie alla collaborazione in tandem con Buckwild, il Nostro rivaluta in un'ottica postmodernista le tastiere Fisher Price e gli amplificatori deggli ambulanti che suonano jingle bells a natale in metrò. (i quali spesso portano l'ampli in uno zaino: un richiamo al suo personale passato di backpacker?) Analogamente veemente è il colpo che O.C. assesta allo stereotipo che un artista, per fare certa musica, deve esservi portato e non avere alle spalle un passato da liricista ortodosso: il suo strascicare parole e gli innumerevoli detournaggi di parole come "bounce" rende evidente la catarsi che egli cerca di far compiere ad un mondo che è evidentemente malàààto e che deve necessariamente affrontare i propri demoni per poter rivedere la luce. Un'epifania creativa che senz'altro non potrà non avvenire anche solo dopo un ascolto sommario a Bon Appetit, il quale grazie all'inversione dei segni ed alla stridente atonalità di composizioni quali, oltre alle già citate, possono essere Back To Cali o Pardise, non mancherà di aprire gli occhi all'ascoltatore sul lato oscuro del rap.
Detta altrimenti, dove non sono riusciti gli Skiantos ce la fa O.C.; Bon Appetit: un'autentica merda d'artista.





O.C. - Bon Appetit

mercoledì 27 maggio 2009

LORD FINESSE - THE AWAKENING (Penalty Recordings, 1995)

Prosegue la settimana lavorativa hardcore e proseguono i tentativi da parte mia di mantenere aggiornato il blog senza eccedere in fesserie. Oggi tutto questo mi risulta facilitato dalla scelta di recensire il terzo album solista (a voler essere fiscali il secondo) di Lord Finesse, uscito ormai nel lontano 1995, che non solo conosco bene ma che ha la peculiarità di essere, in buona sostanza, un EP. Non lasciatevi infatti confondere dalla numerazione della tracklist: vi sono sì sedici nomi di pezzi, ma soltanto nove di essi corrispondono a canzoni vere e proprie.
Ma prima di addentrarmi anche in questo aspetto, un po' di sano ed inutile background: come ho conosciuto Lord Finesse? Diciamo per puro caso (tenete presente che nel '95-'96 ero tutto fuorchè l'enciclopedico pozzo di scienza che sono ora): durante il concerto dei Cypress hill del '96, infatti, gli organizzatori o chissa chi offrivano in omaggio un vecchio numero di Aelle, mi pare addirittura risalente all'ottobre dell'anno precedente, in cui tra le altre cose vi era un'intervista a Bassi Maestro. Bassi Maestro il quale, nel pieno della polemica su coloro che egli definiva gli estimatori, ad un certo punto citava The Awakening come esempio di disco riuscito benissimo nonostante non vi si esprimesse alcun tipo di concetto particolare. Ebbene, siccome erano ormai diveri mesi che vedevo questo album sugli scaffali dell'ormai defunto Virgin di piazza Duomo, decisi di dargli una chance. Del resto, le alternative per me papabili erano Mr. Smith e All Eyez On Me, che peraltro già avevo.
In tutta onestà il CD non mi piacque affatto, ad eccezione di un pezzo: lo straordinario remix di Brainstorm, che non a caso annovero ancor'oggi tra le mie venti canzoni preferite di sempre. Il resto, detto molto onestamente, mi pareva abbastanza una puzzetta e perciò lasciai l'opera a prendere polvere sugli scaffali per qualche tempo. Ma in breve il mio interesse per la D.I.T.C. cominciò a crescere e così concessi più e più opportunità d'ascolto a The Awakening fino a quando il mio giudizio non si formò completamente. Ve lo anticipo? Massì che ve lo anticipo: incredibilmente, confermo la mia opinione di neofita dicendo che Awakening è piuttosto una puzzetta. Ma attenzione: nel '96 lo pensai per via di una certa amelodia dei beat che mi rendeve il tutto indigesto, mentre oggi lo penso perchè conosco meglio l'opera e dunque le capacità di Finesse e pertanto, ciò che egli ci serve come portata, non mi sembra particolarmente ben riuscito; e per giunta il tutto risulta di una brevità -oltretutto danneggiata da continue interruzioni- secondo me difficilmente giustificabile. Ma entriamo nel dettaglio partendo dai momenti buoni.
Ecco: i momenti buoni, quando ci sono, sono tali che da un lato fanno cadere la mascella e dall'altro però portano a dubitare che chi ha creato una Speak Ya Peace possa essere la medesima persona autrice di una Gameplan. Prendiamo appunto Speak Ya Peace: tutta l'essenza del suono nuiorchese dell'epoca si può ritrovare nel taglio del sample vocale, nella linea di basso, nei campioni mescolati di sax e campane eoliche che vanno a conferire un'atmosfera claustrofobica al tutto e nei puntuali charleston serratissimi che accompagnano le solite cassa e rullante (un retaggio tipico del passato). Oppure anche il loop bitonale di basso che nella sua sola essenzialità, e nuovamente assistito solamente da una sporadica apparizione di tromba riverberata, riesce a mantenere in piedi la bellissima Actual Facts. Senza poi contare il modo in cui viene usato il campione dell'onnipresente Snow Creatures di Quincy Jones per Brainstorm: questo sarebbe infatti di per sè breve (nell'originale), ma viene tirato ad un punto tale che il risultato finale è a metà tra uno stridio di gesso sulla lavagna ed un lamento: incredibile. Insomma, senza voler star qui a fare la biopsia di tutti i beat, mi preme sottolineare -anche se non dovrebbe essere necessario- come Lord Finesse sia ampiamente capace di produrre autentiche perle del beatmaking capaci di durare nel tempo.
Ed anche come emsì il Nostro è ormai da tempo sottovalutato, e questo benchè agli inizi degli anni '90 si fosse piazzato secondo al MC Superbowl perdendo contro nientepopòdimeno che Supernatural. Beh, nel caso, i suoi dischi sono il miglior memento del suo talento di battle rapper. Infatti, tolte un paio di eccezioni irrilevanti ai fini della regola (S.K.I.T.S., per dirne una), Finesse è sempre stato uno che ha posto la punchline sopra a tutto. Un approccio, questo, che potrebbe venire a noia ma che grazie ad un indiscutibile sense of humor ed una innegabile fantasia riesce quasi sempre a convincere anche se a distanza di così tanti anni alcune appaiono quasi ingenue ("I'm on the rise like afros in the 70s"). Oltre a ciò, la sua tecnica fortemente radicata nello stile della Grande Mela e la sua voce nasale contribuiscono a rendere l'intero "pacchetto" di indubbia godibilità per qualsiasi appassionato del genere come del resto dimostrano anche alcune tracce soliste qui presenti (su tutte Flip Da Style).
Purtroppo, però -e qui cominciano i difetti- la prima cosa che balza all'occhio è l'abbondare di featuring di vario genere. Intendiamoci: sono pure di qualità (O.C., KRS One, Large Pro, Sadat X e Grand Puba cacciano strofe da applausi) ma oltre a "bruciare" il protagonista principale fanno sorgere la domanda se si stia ascoltando un solista o una compilation. In fondo, se compro Lord Finesse è perchè vorrei sentire Lord Finesse, giusto? Tutto il resto è grasso che cola, ma qui il rapporto è di 50 a 50 su un numero complessivo di tracce davvero basso. E, come a peggiorare le cose, sono proprio i pezzi solisti a soffrire maggiormente di beat relativamente scadenti o anonimi: Flip Da Style, ad esempio, sfoggia un campione di xilofono non esattamente memorabile, mentre True And Livin' e Food For Thought sembrano due versioni lievemente modificate della stessa idea. Meglio va con Hip 2 Da Game, che è perlomeno "memorabile" nell'accezione più stretta del termine, ma che comunque appare manieristica nell'approccio pimpalicious non a caso già sentito e risentito in quegli anni (O.C., Mic Geronimo, AZ, Ill Al Skratch eccetera eccetera) e che pure liricamente lascia il tempo che trova (cfr. Gameplan).
Last but not least, l'orgia di skittini allunga il brodo con le cazzate in un modo francamente imperdonabile. A chi importa sentire Doo Wop o MC Lyte dire coglionate random tra un pezzo e l'altro? Peggio ancora, poi, se ad accompagnare i deliri degli "ospiti" ci sono basi contenenti idee ben più interessanti di quelle poi effettivamente realizzate e trasformate in canzoni vere e proprie.
Insomma, come dicevo all'inizio, rispetto agli standard di Finesse questo Awakening è una puzzetta. Spiace dirlo, ma è così. Certi errori e certe altre facilonerie, del resto assenti nei suoi lavori precedenti, risultano onestamente incomprensibili e davvero contribuiscono in maniera determinante ad affossare quel che di buono c'è nell'opera la quale. Insomma, malgrado vi siano tre pezzi da 90 come Brainstorm, Speak Ya Peace e Actual Facts (traccia bonus per la sola edizione su CD) e malgrado l'emceeing sia sempre su buoni livelli, non posso dare più di tre zainetti al tutto.





Lord Finesse - The Awakening

VIDEO: ACTUAL FACTS

giovedì 7 maggio 2009

O.C. - JEWELZ (Payday/Ffrr, 1997)

Nas, O.C., i Black Moon: che dire, io adoro il cosiddetto "sophomore jinx", cioè la maledizione del successore del disco d'esordio perfetto. L'adoro non perchè abbia tendenze masochista, bensì perchè da un lato mi ricorda quanto imbecilli possano essere i fan in un particolare momento della loro vita, e dall'altro perchè mi fa venire una piacevole nostalgia e voglia di anni '90.
Perchè dico imbecilli? Perchè non è possibile che un artista avente avuto un esordio perfetto (o quasi) debba poi passare il resto della sua carriera a prendersi i pesci in faccia da parte di chi gli rinfaccia di non aver saputo fare il bis - o sbaglio? Specialmente se in realtà la sua seconda opera non è in fondo affatto male ed anzi contiene alcune cose assai valide; un discorso, questo, che fila sia per un It Was Written che naturalmente per Jewelz, a patto che in ambedue i casi ci senda conto che è l'MC stesso ad essere profondamente cambiato e che alla luce di ciò sia fuorviante paragonare questi dischi ai predecessori. Infatti, l'unica cosa di cui si potrebbe accusare Omar Cradle (come Nas) è l'ipocrisia: voglio dire, dopo una Time's Up te ne esci con un album intitolato "Jewelz" (non sperare che qualcuno caschi nel doppio senso) in cui in più occasioni contraddici il te stesso di tre anni prima? Com'era, ancora, "I'd rather be broke and have a whole lotta respect"?
Massì, possiamo anche farlo: O.C., bello mio, sei piuttosto un merdone. Però mi parrebbe stupido: perchè è vero che l'oltranzismo del suo precedente album è scomparso con la rapidità di un coguaro, però è altresì chiaro che non è stato sacrificato il legame con l'hip hop vero e proprio. Detto altrimenti, non si è passati da un estremo all'altro, come del resto si può facilmente notare anche solo dalla tracklist e dalla scelta dei collaboratori. Optare per un Premier, per un Bumpy Knuckles o per dei Beatminerz (inclusa naturalmente la D.I.T.C.) non mi sembra sia paragonabile al lavorare con Ma$e o a farsi produrre una traccia dai Trackmasterz, giusto? Ne consegue che le critiche ricevute all'epoca della pubblicazione erano in buona parte esagerate e sproporzionate rispetto ai puri meriti artistici, che in Jewelz risultano peraltro più sfaccettati che in Word... Life.
E difatti di fronte a noi si aprono sostanzialmente due scenari: uno smaccatamente ruvido e, se vogliamo, purista: è rappresentato da pezzi come War Games, Win The G, The Crow e Jewelz. L'altro, invece, è più soft ma solo raramente scivolante nel melenso ed è costituito da The Chosen One, Stronjay, You And Yours e It's Only Right. E già che sto facendo la lista della spesa, diciamolo subito: dove O.C. fallisce è proprio nel secondo filone, quello diciamo "orecchiabile". La prima pecca è Far From Yours, in cui Yvette Michelle rovina definitivamente una traccia già non avvantaggiata da chissa chè beat; poi c'è Dangerous, che vedrà pure il Nostro duettare con un Big L in forma smagliante (e che infatti gli da una paga imbarazzante) ma ciò non basta per farci perdonare uno dei beat più brutti che abbia mai sentito produrre dai Beatminerz (bassi inesistenti, batterie di cartone, campione di Daisy Lady che puzza di jiggy da lontano un miglio... non fatemi dire altro); ed infine, last but not least, Can't Go Wrong, la quale sarebbe potuta andare bene al massimo come skit ma che nella sua monotonia e pochezza d'inventiva non regge i 3'46'' di durata.
Ma tolte queste tre fetecchie il resto del materiale va dal bello al molto bello; l'eccezionalità non viene purtroppo raggiunta, ma a fronte di un ascolto complessivamente più che piacevole questa è una pecca facilmente perdonabile. My World, ad esempio, vede al campionatore il sempre affidabile DJ Premier il quale, pur non regalando la base della sua vita, dota di una buona costruzione melodica il Nostro, che difatti si fa trascinare dalla melodia di xilofono e flautino effettato (oppure un semplice fischio umano, difficile dirlo) e scrive tre buone strofe che contribuiscono a far scorrere il pezzo come olio. Tutt'altro discorso va invece fatto per Win The G., in cui su un beat nel suo minimalismo assolutamente superbo (beat, batterie ed un sample di campanelle ogni due misure) Bumpy Knucks e Omar fanno numeri da applausi. Approfitto per dire che in quest'occasione è interessante notare quanto l'alchimia tra i due funzioni bene, tanto che vien da spiacersi se si pensa che, a parte la successiva M.U.G. (anch'essa prodotta da Primo), negli anni a venire non avrebbero pià lavorato insieme. Ma tant'è.
Di buona fattura anche se lievemente inferiore è l'ultima creatura di Premier, War Games, in cui gli Organized Konfusion vengono letteralmente sprecati per il solo ritornello ma che fortunatamente sanno comunque conferire energia ad una produzione forse troppo triviale; buoni risultati li ottiene anche The Chosen One, dove Buckwild, grazie ad un bel campione di piano elettrico e delle batterie di classe, si fa parzialmente perdonare le sue altre prestazioni onestamente deludenti. Lo stesso dicasi per i Beatminerz, che sia che si trovino in versione semiclubbeggiante (It's Only Right), sia che puntino ad una maggiore cupezza (Stronjay), ritrovano il senno e lavorano di bassi e batteria nella loro miglior tradizione. Ma alla fin fine la chicca di Jewelz, il pezzo non solo più bello ma anche tra i più longevi che conosca, è la title track: qui Lord Finesse campiona un magnifico bridge di Changing Face della J.J. Band e, data la bellezza di questo, non deve far altro che mettergli sotto delle batterie (che fanno solo da accompagnamento, quasi) per partorire un autentico gioiellino.
Goiellino che, vivaddio, O.C. non spreca: è difatti anche la traccia in cui sia contenutisticamente che stilisticamente si trova la quadratura del cerchio, mentre nel resto del disco egli puntualmente passa da un aspetto all'altro con estrema decisione. Ah, ecco, visto che alla fin fine chi ricevette più critiche fu O.C. stesso, in quanto lo si accusò di aver annacquato il suo stile, possiamo col famoso senno di poi chiarire questo punto? Sì, e facciamolo constatando che effettiamente ora appare molto più rilassato e meno propenso a lasciarsi andare ad esibizioni di pura tecnica: per intenderci, non aspettatevi nulla di equiparabile alla seconda strofa di Constables. Tuttavia questo ammorbidimento non è in sè e per sè sgradevole ed anzi gli permette di scrivere cose come Hypocrite, Stronjay o appunto Jewelz che contenutisticamente sono assai interessanti. E d'altro canto anche i suoi rap da battaglia riescono ancora a colpire (cfr. M.U.G., Win The G e War Games), per quanto talvolta scivolino nella prevedibilità (My World) oppure nella più completa inefficacia (Dangerous).
Ma nel complesso Jewelz si rivela essere un album a mio parere molto, troppo bistrattato. fermo restando infatti che non è un capolavoro e che vi sono pezzi brutti come loffi, lavorando nemmeno troppo di skippaggio si può assolutamente godere dell'ascolto. Anzi, all'epoca a me piacque davvero molto benché in giro ci fossero cosucce da nulla come Hell On Earth o Nocturnal e dunque, per quanto dopo dodici anni sia tentato di dargli un tre e mezzo, credo che farò affidamento alla memoria conferendogli quattro nobili zainetti.




O.C. - Jewelz
Bonus: Jewelz Original Samples (via KevinNottingham.com)

VIDEO: MY WORLD/FAR FROM YOURS

venerdì 9 gennaio 2009

O.C. - WORD... LIFE (Wild Pitch, 1994/ Mushine, 2007)

In alcune delle passate recensioni ho più volte menzionato alcuni dei criteri che rendono classico un determinato disco. Volendo riepilogare grossolanamente, potrei per esempio citare la presenza di uno o più pezzi forti capaci di distinguersi dal resto delle tracce presenti, che comunque debbono essere tutte di alta qualità; poi, l'innovazione gioca un forte ruolo, certamente, ma non va scordato che anche la "sola" perfezione può bastare; in aggiunta a ciò si può scoprire che nella maggioranza delle pietre miliari si può notare la presenza dello Zeitgeist dell'epoca; infine, la coesione ha da essere presente affinché si possa notare una sorta di visione artistica complessiva, senza la quale si avrebbe una mera compilation e non il ritratto di un artista.
Fermi restando questi punti, vorrei però aggiungere un elemento forse non fondamentale ma anch'esso sovente rintracciabile in album come It Takes A Nation Of Millions, AmeriKKKa's Most Wanted o The Infamous: la presenza di un concetto forte, personale, dichiarato per tutto il disco. Esso può essere estroverso (vedi l'afrocentrismo di fine anni '80) come introverso (l'arroganza e l'ultratamarria del fare bbrutto dei Mobb Deep) ma, a prescindere da ciò, questo se espresso bene andrà a creare schiere di accoliti ed anche "imitatori" e contribuirà in seguito a definire un certo modo di pensare. E Word Life fa esattamente ciò: principalmente attraverso il singolo Time's Up ma anche con pezzi tipo O-Zone o la traccia omonima, questi sintetizza il pensiero dei cosid. puristi, lo amplifica in un primo tempo, ed infine diviene esso stesso una sorta di Segno convenzionale. Senza scomodare De Saussure, basti andare col pensiero a qualsiasi backpacker degno di questo nome ed alla sua collezione di dischi... e TUTTI sono stati backpacker almeno una volta nella vita.
Paradossalmente proprio io, che invece zainettaro continuo ad esserlo ininterrottamente da quindici anni e più, solo recentemente ho aggiunto ai miei dischi una copia originale di Word Life. Fino a poco tempo fa, difatti, a causa dell'irreperibilità dell'album e dei pregiudizi altrui (il "mentore" che mi iniziò al rap diceva che O.C. era solo bravino, pensate che coglione lui e più coglione io a dargli retta. Ma s'era sbarbi), l'esordio di Omar Cradle aveva girato prima su cassetta, poi su Minidisc, poi in Mp3 ma mai su ciddì. Fortunatamente, quella stessa buonanima di O.C. ha ben pensato di dare alla luce una sontuosa ristampa in cui oltre agli originali troviamo pure un paio di remix, inediti e chicche oramai introvabili; sicché a questo punto l'acquisto è divenuto obbligatorio e pertantoi eccomi qua a svelare per un'ennesima volta la bellezza di questo prodotto.
Il singolo, per esempio, lo conosceranno cani e porci ma come esimersi dal tesserne le lodi e sottolinearne la magnificenza? Negli anni Time's Up non solo è diventato un punto di riferimento concettuale per molti, ma soprattutto è uno dei rari esempi di vera perfezione: la produzione di Buckwild, che campiona Dolphin Dance, è nel tempo giustamente assorta a pietra miliare del beatmaking in quanto non solo riesce a dare un taglio squisitamente hardcore al pezzo originale (paragonare per credere: Resurrection di Common), non solo lavora di batteria in un modo tale da astrarsi dal sound tipico dell'epoca, ma come ciliegina sulla torta vi inserisce dei cut di Slick Rick che raramente come in quest'occasione s'imprimono nella mente e diventano parte essenziale della canzone. E O.C., dal canto suo, rilascia due strofe dense di frasi che negli anni sono state più volte campionate -e fin qui nulla di particolarmente eccezionale- ma che soprattutto sono diventate un manifesto di cosa significhi nel concreto l'emceeing. In tal senso citare la celeberrima frase "I'd rather be broke and have a whole lotta respect" è tanto scontato quanto obbligatorio, perchè aggiunge al classico "devi essere bravo" un concetto più vicino a concetti etici che puramente artistici; concetto, questo, che più di una volta era stato implicitamente dichiarato da altri suoi colleghi ma che ora trova la sintesi definitiva.
Ma per quanto questa dichiarazione intenti sia decisamente forte in Time's Up, fortunatamente non lo è a sufficienza per gettar ombra sugli altri pezzi. Impossibile infatti non notare la potenza di O-Zone, sì più classica come beat che come esposizione dei concetti ma non per questo meno d'impatto; o la stupenda Word... Life, la cui matrice jazz conferisce una melodia orecchiabile che ben s'accompagna al tiro lievemente più veloce della media. E se i contenuti in ambedue questi pezzi rientrano comunque nella categoria del "vi faccio vedere io chi ci sa fare", bisogna ammettere che O.C. riesce anche a sconfinare in territori con un approccio decisamente personale: Ga Head, ad esempio, di primo acchito potrebbe sembrare il consueto sfogo nei confronti della ragazza macchiatasi di adulterio; ma al di là del fatto che l'esecuzione è comunque degna di nota, il fatto che si scopra che il tradimento è avvenuto seguendo le vie di Saffo rende il tutto meno scontato (e per certi versi più tragicomico). Le fa sponda Let It Slide, ancora più unica della precedente nel suo sostenere che talvolta, anzichè accettare provocazioni, è meglio lasciar correre (se ci pensate, una simile affermazione in un contesto sostanzialmente da bullo come quello del rap è abbastanza clamorosa); o, ancora, Constables, che pur riproponendo il tema già esplorato della violenza da parte delle forze di polizia gli da un taglio meno estremista della media e soprattutto lo fa attraverso uno storytelling che anche nella peggiore delle ipotesi rende più digeribile l'insieme.
Per il resto non è che i temi si discostino un granché dagli standard reppusi del tempo, ma al di là dell'esecuzione stessa sono i beat di Buckwild (e di Ogee e degli Organized Konfusion) a fare la parte del leone. Eccetto Born 2 Live -un tentativo di crossover non proprio riuscitissimo- le musiche sono straordinarie. Il punto di riferimento più vicino che posso trovare è Pete Rock (soprattutto in Point O Viewz), ma sarebbe del tutto sbagliato non riconoscere il talento e l'originalità del Nostro, che in questo album riesce a concentrare una varietà di atmosfere considerevole, certamente, ma soprattutto contribuisce attivamente a dettare gli standard del sound nuiorchese dell'epoca. Pensate, infatti, ai nomi di album che inevitabilmente vi vengono in mente quando qualcuno vi chiede degli esempi della New York di metà anni '90: The Infamous, Illmatic, Living Proof, Ready To Die e, appunto, Word Life -non si sfugge. Anche in questo caso, in realtà, le cose da aggiungere in materia sarebbero molte; dal canto mio, però, non solo reputo che vi sia gente che lo ha fatto meglio di quanto potrei io, ma soprattutto che la cosa più logica da fare sia ascoltare il tutto in prima persona (nella rara eventualità che non lo si fosse già fatto).
Detto ciò, mi pare evidente che di fronte abbiamo un vero e proprio classico nonchè l'opera migliore di O.C.; una pietra miliare che, al pari di Illmatic (MC Serch è coproduttore di ambedue gli album), pur non raggiungendone la stessa perfezione è imprescindibile per chiunque abbia a cuore un genere musicale in cui da sempre si deve scremare parecchio per trovare autentiche perle.




O.C. - Word... Life

VIDEO: BORN 2 LIVE

martedì 14 ottobre 2008

A.G. - GET DIRTY RADIO (Look/The Ave, 2006)

La carriera musicale di AG è una strana bestia: in un solo decennio è riuscito a passare dai fasti dei lavori con Showbiz a delle mezze porcherie senza capo nè coda; così, BAM!, lasciando spiazzati più o meno tutti. In seguito alla pubblicazione della suddetta mezza porcheria -e mi riferisco al suo esordio come solista del '99- il Nostro s'era perso dietro a qualche 12" coi Ghetto Dwellas per poi non lasciar alcuna traccia sensibile della sua esistenza almeno fino all'autunno del 2006, quando cominciò a girare la voce che un nuovo disco era alle porte. Per quanto mi riguarda posso confessare tranquillamente che a quel punto avevo perso la speranza nella sua capacità di creare qualcosa di complessivamente soddisfacente; eppure, sapere che tra i produttori vi sarebbero stati (oltre a Finesse e Showbiz) alcuni dei miei beatmaker contemporanei preferiti (Madlib, Oh No, Jake One, Dilla) aveva fatto germogliare in me un seme di positività.
Comprato a scatola chiusa, Get Dirty Radio ancor'oggi non riesce a farmi esprimere un parere chiaro e netto. D'accordo, brutto non lo è affatto: ma quant'è bello? Hip Hop Quotable è fatta bene? Campionare il pezzo più gay (bella lotta) e più famoso dei Culture Club è una davvero una stronzata o i miei sono solo pregiudizi? Madlib e Oh No danno il meglio? E com'è che ha chiesto beat a Cochise, che è un incapace e che difatti, puntuale come la morte, ha partorito la musica peggiore dell'album?
Tutte queste domande verranno affrontate più avanti, perchè prima di tutto vorrei chiarire un punto: non mi piace più come rappa AG. Vado a spiegarmi: tra Goodfellas e Full Scale il Nostro aveva finalmente abbandonato il modo cantilenante di scandire le parole e chiudere i versi (cosa che mi ha sempre reso Goodfellas e Runaway Slave solo dei bei dischi e non dei capolavori), favorendo uno stile più asciutto ma comunque riconoscibilissimo e personale. Inoltre, le rime e le assonanze avevano cominciato ad essere più complesse e l'uso abbondante di schemi metrici incrociati me l'aveva fatto salire sempre più in alto nel mio indice di gradimento; persino quel che salvo di The Dirty Version era dovuto soprattutto ad AG stesso, che mi rendeva sopportabili gli altrimenti inutili o cacofonici beat. Per Get Dirty Radio, invece, il maledetto ha deciso di compiere un mezzo passo indietro e dei tornare a rappare a mo' di filastrocca, e ciò mortifica l'ascolto di molti passaggi o di intere canzoni (vedi ad esempio Frozen o We Don't care). In più, reputo che la sua tecnica sia lievemente peggiorata e che certi "esperimenti" -If I Wanna- risultino in tal senso fallimentari.
Poi, è chiaro: non è che sia diventato improvvisamente uno scarso, ed anzi, molte rime del disco dimostrano esattamente il contrario. Però non posso che rammaricarmi di questa sua scelta stilistica che, ne sono certo, non ha deluso solo il sottoscritto.
Tornando ora a bomba al disco nel suo complesso, la prima cosa che mi viene da fare è spernacchiare A Giant By Design; perchè sì, io sarò pure un rompicoglioni, ma come fai ad ascoltare un pezzo che campiona Do You Really Want To Hurt Me senza pensare immediatamente al relativo tragico video? Dài... Ma se DJ Design poi più o meno riesce a risalire il baratro di paillette e colori pastelloin cui è caduto, c'è chi invece fa di peggio, diciamocelo: Say Yeah di Cochise è ufficialmente quanto di peggio abbia sentito provenire da un membro della D.I.T.C. almeno da Bon Appetit in poi, ed in tal senso anche il Tommy Tee di Pray non scherza; insomma, non è un caso se tutte le cose più uptempo ed orientate verso i club create dalla crew nuiorchese siano delle mezze schifezze. Non fa per loro, punto, che lascino perdere.
Mentre tutt'altro discorso va fatto in considerazione dell'approccio più classico al rap che si fa vivo in diversi pezzi, primo fra tutti Hip Hop Quotable. In esso, difatti, AG lavora di copia e incolla mettendo insieme tre strofe composte da singoli versi di varie canzoni degli ultimi vent'anni e modificandole in base alle proprie esigenze; nessun vero nerd potrà esimersi dal cercare di riconoscere le varie Ambitionz Az A Ridah, C.R.E.A.M., Sucker M.C.'s, l'ovvia Eric B Is President, Gin & Juice e così via, e per questo noi lo ringraziamo. Ma la cosa davvero positiva è che tutto ciò gira su un eccellente beat di J Dilla, che di nuovo fa un lavoro di batterie favoloso lasciando poi al solo synth e ad Aloe Blacc il compito di donare un accenno di melodia al tutto. Ottime sono anche Take A Ride, che riaggiorna il G-Funk virandolo nelle tonalità di Madlib, Love (chapeau a Oh No, che riesce a non farmi vomitare pur usando le vocine pitchate) e la conclusiva Who Dat -decisamente d'ispirazione fusion/jazz-funk e sorprendentemente atta a liberare il talento di un AG più "vecchio stile".
Ma a questo punto qualcuno potrà chiedersi che fine abbia fatto il suono tipico della D.I.T.C.; al che gli rispondo che se già la suddetta Who Dat fa correre il pensiero al Diamond D più rilassato, allora sono definitivamente le varie Yeah Nigga, We Don't Care e The Struggle a dirci da dove proviene il Nostro. Dispiace solo che alla fine dei conti la migliore delle tre risulti la prima, curata da Tommy Tee, mentre le prestazioni di Show e Finesse non sono onestamente nulla per cui valga la pena di strapparsi i capelli (per dire: il campione di Struggle è stato usato con più criterio nel remix di Urban Legends, toh). Tuttavia, si vede che è su questo genere di produzioni che AG si sente più a suo agio, tant'e vero che in altri casi dove si verifica un maggiore distacco dal tipico boombap, vuoi anche con risultati in sè validi (Frozen, Gigantic, in parte Triumph), il suo stile fa un po' a pugni con la base e rende l'alchimia un po' tanto forzata.
Concludendo, da un lato non posso non apprezzare lo sforzo fatto da AG per creare un buon album e soprattutto per non ricalcare una strada già percorsa; ma quest'ultima decisione è purtroppo a doppio filo, nel senso che certe canzoni lasciano un po' spaesati e davvero ci si chiede se forse non si avrebbe preferito qualcosa di più tradizionale. Rimangono poi le mie perplessità sullo stile del Nostro, e pertanto non me la sento di affibbiare al tutto più di un tre zainetti; vi consiglio comunque di ascoltarlo per benino, perchè è assai probabile che vi troverete qualche sorpresa.





A.G. - Get Dirty Radio

mercoledì 27 agosto 2008

LORD FINESSE - RETURN OF THE FUNKY MAN (Giant/Warner Bros, 1991)

Benché io sia -musicalmente- un figlio del '94 e quindi faccia generalmente fatica a digerire l'hip hop precedente al '92, ogni tanto trovo il disco che, contro ogni aspettativa, riesce a mantenere vivo il mio interesse anche dopo la quinta traccia. E' il caso di questo Return Of The Funky Man, da me reperito in piena ignoranza dopo aver scoperto -con qualche ritardo- Finesse nel '96 grazie a The Awakening, foriero di un'immensa delusione iniziale: pensate, avevo appena scoperto che dal '91 al '95 il suono nuiorchese era cambiato e di parecchio, e lo scoprivo nel modo più brutale possibile. I beat erano più veloci, basati al 90% su break, i campioni suonavano verdonianamente "sstrani" (e fu così che scoprii anche il funk)... insomma, capirete che a 14 anni beccarsi una (presunta) sòla di questo genere sia spiacevole, anche in considerazione del fatto che per me comprare un CD allora corrispondeva a rinunciare a qualsiasi altra cosa per due o tre settimane. Fortunatamente il tempo però passa, uno cresce e magari si ritrova a 19 anni a dare una seconda chance a quelle che in precedenza erano state bollate come cacate; e mentre per alcune di esse il giudizio rimane invariato, per altre l'opinione va via via sgretolandosi cosicché ci si può ritrovare qualche anno dopo con in mano una chicca da riascoltare di tanto in tanto, invecchiata come il vino malgrado tutto.
Per dirne una: eccetto certi modi di dire dell'epoca ("I'm Audi" il più folkloristico) o alcuni riferimenti che fanno sorridere (ad esempio "I'm futuristic like *tecnologia vetusta*"), Finesse al microfono è sempre affidabile. Senza dubbio è il produttore in lui il primario motivo d'interesse, ma se si considerano diversi suoi colleghi non si può negare che in quanto a rime, metafore e più generalmente inventiva tout court il Nostro se la cavi più che bene; detta in poche parole, non sfigura come ci si aspetterebbe nemmeno di fianco ad un Percee P o ad un A.G., ed anzi riesce a mantenere alta l'attenzione dell'ascoltatore per tutto l'album grazie ad un sapiente dosaggio di tecnica, creatività ed umorismo. Ciò va ovviamente a scapito dei contenuti, che resteranno sempre nella comfort zone dell'autoesaltazione, ma è indubbiamente meglio buttarsi a fondo in ciò che si sa fare anziché creare pretenziose fetecchie. Ora, non avrebbe senso citare questo piuttosto che quel verso: mi limito a dire che se si esclude l'inevitabile ridondanza di un simile approccio, Return Of The Funky Man è capace di sorprendere ancora oggi, specialmente grazie a tracce come I Like My Girls With A Boom, Yes You May (sì sì, il remix è più bello ma anche sticazzi), Fat For The 90's, Kicking Flavor With My Man o Funky On The Fast Tip.
E se ciò avviene, in questi casi (ma anche altre come Praise The Lord o Isn't He Something eccetera eccetera) è perchè Finesse è sempre stato un produttore con due coglioni così, capace non solo di creare beat di qualità ma anche di saperseli scegliere efficacemente. Ora, nel '91-'92 non esisteva ancora un "vero" suono della D.I.T.C. ed in questo album, come del resto anche in Runaway Slave o Stunts ecc, ciò che viene fatto è perfezionare o modificare lievemente i trend in auge in quell'epoca. Il che però non significa in questo caso semplicemente scegliersi quanti più campioni di James Brown possibili (e comunque ce ne sono) o incollare microloop e suoni per fare il verso alla Bomb Squad, bensì traghettare -nei fatti- i suoni di fine anni '80 verso le ben più lente atmosfere degli anni '90. E se questo merito va secondo me riconosciuto specialmente agli EPMD, nemmeno si può escludere che nel suo piccolo anche Finesse si sia mosso in questa direzione con successo. Guardiamo ad esempio Praise The Lord (che è un pezzone a prescindere) e paragoniamola a Party Over Here: nell'arco di poche canzoni si passa da un'epoca all'altra quasi senza soluzione di continuità e, ça va sans dire, poco dopo si ritorna alla precedente. Non un LP di rottura, quindi, ma una sorta di traghetto dove certamente si riutilizzano i sempre efficaci break e quant'altro, ma dove comincia a farsi notare sempre più la tendenza a loopare segmenti più lunghi attinti magari da qualche roba soul o fusion. Doppio chapeau, poi, se si vanno a paragonare le sue creature a quelle di alcuni dei colleghi ospitati sul disco: a prescindere da questioni di qualità, l'unico a seguirlo in questo percorso dietro è Diamond D, mentre sia i californiani Aladdin e SLJ che Showbiz sono ancora parecchio legati al sound degli anni precedenti.
Vorrei poter conoscere meglio la musica per proseguire oltre ed in maniera più chiara in questo discorso, ma non essendo abbastanza competente per farlo devo prosaicamente limitarmi a suggerirvi uno o più ascolti di Return of the Funky Man. I nonnetti che ogni tanto passano di qua avranno senz'altro già memorizzato l'album e pertanto non starò certo a predicare ai convertiti, quindi il mio consiglio è rivolto ai miei coetanei o comunque a chi tende a nutrire grande diffidenza nei confronti della musica antecedente il '93: occhio perchè rischiate di perdervi qualcosa.





Lord Finesse - Return Of The Funky Man

VIDEO: RETURN OF THE FUNKY MAN