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mercoledì 3 marzo 2010

A.G. - THE DIRTY VERSION (Silva Dom/Landspeed, 1999)

Volendo suddividere la mia collezione di dischi secondo criteri diversi da quelli alfabetici o cronologici, favorendo piuttosto un approccio cognitivo in cui si tiene conto prima di tutto della qualità, le categorie che ne risulterebbero sono quattro: album classici, album validi magari da riascoltare, album «meh» eventualmente da rivalutare e, infine, inclassificabili merdacce in polimeri degne al massimo d'una spernacchiata. Ora, anche in questo caso la celebre teoria degli opposti estremismi si manifesta in tutta la sua potenza e, per quanto risulti altrettanto inesatta quanto la sua controparte politica, almeno un punto di convergenza lo riesce a trovare: contrariamente alle categorie di mezzo, la prima e la quarta non richiedono da parte mia un riascolto per ricordarmi della loro identità. E così come potrei recensire Liquid Swords ad occhi chiusi, visti i tanti momenti di soddisfazione che mi ha dato, ecco che altrettanto posso fare con The Dirty Version di AG. Ovviamente, però, per motivi ben diversi.
Quest'opera, o per meglio dire quest'operetta, venne da me comprata in un tiepido mercoledì pomeriggio del settembre 1999 dopo averne visto la pubblicità sulla Source. All'epoca con la scuola s'andava a nuotare alla piscina che c'è in via Arena e, trovandosi il TimeOut sulla strada verso la suddetta, decisi così di lasciar giù quelle quarantamila lire che l'acquisto richiedeva. Lo feci senza fiatare, sapete, perchè memore della bontà di Full Scale mai avrei potuto pensare cosa mi avrebbe aspettato da lì a poche ore. Insomma, si può dire che il mio stato d'animo fosse puro ed innocente come quello di un bimbetto del catechismo che agita il turibolo seguendo il prete, simbolo di bontà e saggezza.
Peccato che sempre lo stesso bambino avrebbe scoperto a sue spese che il prete tanto buono era in realtà un orco (cit.). Metaforicamente attirato nella canonica di AG dalla più che promettente Muddslide, da lì in poi mi si sarebbe spalancato di fronte un'esperienza sonora a dir poco traumatica: dai synth formaggiosi e il mood jiggy-wannabe di Rude Awakening -da sentire per crederci- alla folle posse cut intitolata Rock Star, in cui non c'è uno dei miserabili ospiti che sappia rappare decentemente; dal funk da supermercato di Be With al beat trivialmente prodotto di Ishisms (campione di Stevie Wonder sentito quante volte, cento?); dalle surreali ospitate di tale Kool Chuck, un coglione talmente incapace da rendere letteralmente inascoltabile qualsiasi traccia ove egli appaia, alla insultante We Do That Too, in cui già il titolo qualifica il tutto. Tutto di quest'album fa schifo. E fa schifo due, tre volte più di quanto non sia tollerabile se prendiamo in considerazione che si tratta di AG! Con molte basi prodotte da Buckwild e Showbiz (ve possino!!!), Finesse e altri! Ma come si fa, porca-della-vostra-madonna, solamente a concepire un simile delirio?
Esempio: su uno di quei eterni beat di merda che vede un loop semimelodico ripetersi all'infinito -nella fattispecie quello di Do You- il fantasioso produttore Wali World (che per me poteva restare solo un MC) riesce a stendere alcune delle batterie non solo peggio equalizzate degli ultimi dieci anni, ma per giunta le mette insieme in una combinazione in cui il rullante è quasi a tempo -troppa grazia!- mentre tutto il resto sembra inseguirlo faticosamente, con cassa e hihats che inciampano l'una sull'altra come se si stessero ascoltando contemporaneamente due canzoni diverse... non so come descriverlo meglio, è davvero un risultato di una bassezza tale che va ascoltato in prima persona onde potersi rendere conto della gente con cui abbiamo a che fare. E quanto all'emceeing, a parte una rosa di personaggini che stanno al rap come il Cervia sta al calcio, a indignare più di tutti (escluso naturalmente quell'Attila, quel Gengis Khan del microfono che è Kool Chuck) è spesso lo stesso AG che, non pago di ridare alcune delle performance peggiori della sua carriera -Be With, A 2 Da G, We Do That Too- si fa accompagnare in dosi massicce dai Ghetto Dwellas che, diciamocelo, funzionano solo ed esclusivamente se il beat è cupo e minimalista. Altrove fanno solo ridere, insomma, e comunque D-Flow sempre marcio è stato e sempre marcio rimarrà.
Alla fine, le sole eccezioni in tutto questo delirante cumulo di sterco musicale -Muddslide, Underground Life, Weed Scented (hey, tre belle canzoni contro quindici spruzzi di diarrea, mica male per 40000 lire!)- non solo non possono riabilitare l'album, ma anzi ne sottolineano la pochezza. Un po' come quando vedi un cesso di ragazza mitragliata dall'acne e con la ricotta tra le dita dei piedi e ti vien detto "sì, ma ha dei bei occhi"... ESTICAZZI GLI OCCHI!
Chiudo dicendo solo che l'inclusione truffaldina di Drop It Heavy, che lascia intuire un senso di colpa del tutto giustificato da parte di AG, non rappresenta altro che il patetico tentativo di salvare in corner uno dei momenti più bui della storia della D.I.T.C. Francamente non so cosa sia peggio, se questo o quell'altra graziosa operuccia che è Bon Appetit; è un bel derby tra porcherie, intendiamoci, ma personalmente la coppa di "Stronzatona col fischio e col botto" l'assegno a questo a suo modo memorabile Dirty Version in quanto più lungo e dunque ancor più traumatizzante.
Ma vaccaghèr, va.





A.G. - The Dirty Version

VIDEO: RUDE AWAKENING

AG feat DITC - Rude Awakening - MyVideo

martedì 14 ottobre 2008

A.G. - GET DIRTY RADIO (Look/The Ave, 2006)

La carriera musicale di AG è una strana bestia: in un solo decennio è riuscito a passare dai fasti dei lavori con Showbiz a delle mezze porcherie senza capo nè coda; così, BAM!, lasciando spiazzati più o meno tutti. In seguito alla pubblicazione della suddetta mezza porcheria -e mi riferisco al suo esordio come solista del '99- il Nostro s'era perso dietro a qualche 12" coi Ghetto Dwellas per poi non lasciar alcuna traccia sensibile della sua esistenza almeno fino all'autunno del 2006, quando cominciò a girare la voce che un nuovo disco era alle porte. Per quanto mi riguarda posso confessare tranquillamente che a quel punto avevo perso la speranza nella sua capacità di creare qualcosa di complessivamente soddisfacente; eppure, sapere che tra i produttori vi sarebbero stati (oltre a Finesse e Showbiz) alcuni dei miei beatmaker contemporanei preferiti (Madlib, Oh No, Jake One, Dilla) aveva fatto germogliare in me un seme di positività.
Comprato a scatola chiusa, Get Dirty Radio ancor'oggi non riesce a farmi esprimere un parere chiaro e netto. D'accordo, brutto non lo è affatto: ma quant'è bello? Hip Hop Quotable è fatta bene? Campionare il pezzo più gay (bella lotta) e più famoso dei Culture Club è una davvero una stronzata o i miei sono solo pregiudizi? Madlib e Oh No danno il meglio? E com'è che ha chiesto beat a Cochise, che è un incapace e che difatti, puntuale come la morte, ha partorito la musica peggiore dell'album?
Tutte queste domande verranno affrontate più avanti, perchè prima di tutto vorrei chiarire un punto: non mi piace più come rappa AG. Vado a spiegarmi: tra Goodfellas e Full Scale il Nostro aveva finalmente abbandonato il modo cantilenante di scandire le parole e chiudere i versi (cosa che mi ha sempre reso Goodfellas e Runaway Slave solo dei bei dischi e non dei capolavori), favorendo uno stile più asciutto ma comunque riconoscibilissimo e personale. Inoltre, le rime e le assonanze avevano cominciato ad essere più complesse e l'uso abbondante di schemi metrici incrociati me l'aveva fatto salire sempre più in alto nel mio indice di gradimento; persino quel che salvo di The Dirty Version era dovuto soprattutto ad AG stesso, che mi rendeva sopportabili gli altrimenti inutili o cacofonici beat. Per Get Dirty Radio, invece, il maledetto ha deciso di compiere un mezzo passo indietro e dei tornare a rappare a mo' di filastrocca, e ciò mortifica l'ascolto di molti passaggi o di intere canzoni (vedi ad esempio Frozen o We Don't care). In più, reputo che la sua tecnica sia lievemente peggiorata e che certi "esperimenti" -If I Wanna- risultino in tal senso fallimentari.
Poi, è chiaro: non è che sia diventato improvvisamente uno scarso, ed anzi, molte rime del disco dimostrano esattamente il contrario. Però non posso che rammaricarmi di questa sua scelta stilistica che, ne sono certo, non ha deluso solo il sottoscritto.
Tornando ora a bomba al disco nel suo complesso, la prima cosa che mi viene da fare è spernacchiare A Giant By Design; perchè sì, io sarò pure un rompicoglioni, ma come fai ad ascoltare un pezzo che campiona Do You Really Want To Hurt Me senza pensare immediatamente al relativo tragico video? Dài... Ma se DJ Design poi più o meno riesce a risalire il baratro di paillette e colori pastelloin cui è caduto, c'è chi invece fa di peggio, diciamocelo: Say Yeah di Cochise è ufficialmente quanto di peggio abbia sentito provenire da un membro della D.I.T.C. almeno da Bon Appetit in poi, ed in tal senso anche il Tommy Tee di Pray non scherza; insomma, non è un caso se tutte le cose più uptempo ed orientate verso i club create dalla crew nuiorchese siano delle mezze schifezze. Non fa per loro, punto, che lascino perdere.
Mentre tutt'altro discorso va fatto in considerazione dell'approccio più classico al rap che si fa vivo in diversi pezzi, primo fra tutti Hip Hop Quotable. In esso, difatti, AG lavora di copia e incolla mettendo insieme tre strofe composte da singoli versi di varie canzoni degli ultimi vent'anni e modificandole in base alle proprie esigenze; nessun vero nerd potrà esimersi dal cercare di riconoscere le varie Ambitionz Az A Ridah, C.R.E.A.M., Sucker M.C.'s, l'ovvia Eric B Is President, Gin & Juice e così via, e per questo noi lo ringraziamo. Ma la cosa davvero positiva è che tutto ciò gira su un eccellente beat di J Dilla, che di nuovo fa un lavoro di batterie favoloso lasciando poi al solo synth e ad Aloe Blacc il compito di donare un accenno di melodia al tutto. Ottime sono anche Take A Ride, che riaggiorna il G-Funk virandolo nelle tonalità di Madlib, Love (chapeau a Oh No, che riesce a non farmi vomitare pur usando le vocine pitchate) e la conclusiva Who Dat -decisamente d'ispirazione fusion/jazz-funk e sorprendentemente atta a liberare il talento di un AG più "vecchio stile".
Ma a questo punto qualcuno potrà chiedersi che fine abbia fatto il suono tipico della D.I.T.C.; al che gli rispondo che se già la suddetta Who Dat fa correre il pensiero al Diamond D più rilassato, allora sono definitivamente le varie Yeah Nigga, We Don't Care e The Struggle a dirci da dove proviene il Nostro. Dispiace solo che alla fine dei conti la migliore delle tre risulti la prima, curata da Tommy Tee, mentre le prestazioni di Show e Finesse non sono onestamente nulla per cui valga la pena di strapparsi i capelli (per dire: il campione di Struggle è stato usato con più criterio nel remix di Urban Legends, toh). Tuttavia, si vede che è su questo genere di produzioni che AG si sente più a suo agio, tant'e vero che in altri casi dove si verifica un maggiore distacco dal tipico boombap, vuoi anche con risultati in sè validi (Frozen, Gigantic, in parte Triumph), il suo stile fa un po' a pugni con la base e rende l'alchimia un po' tanto forzata.
Concludendo, da un lato non posso non apprezzare lo sforzo fatto da AG per creare un buon album e soprattutto per non ricalcare una strada già percorsa; ma quest'ultima decisione è purtroppo a doppio filo, nel senso che certe canzoni lasciano un po' spaesati e davvero ci si chiede se forse non si avrebbe preferito qualcosa di più tradizionale. Rimangono poi le mie perplessità sullo stile del Nostro, e pertanto non me la sento di affibbiare al tutto più di un tre zainetti; vi consiglio comunque di ascoltarlo per benino, perchè è assai probabile che vi troverete qualche sorpresa.





A.G. - Get Dirty Radio