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martedì 19 maggio 2009

BUSH BABEES - GRAVITY (Warner Bros, 1996)

Voi senz'altro avrete ormai intuito che a me piacciono diversi tipi di rap, con due particolari propensioni: quello a cavallo tra il purismo e il gangsta (ad esempio la D.I.T.C.) e quello comunemente definito come conscious (con i Tribe a fare da punta di diamante). Non penso naturalmente che esista alcuna contraddizione tra l'apprezzare l'uno come l'altro, tantopiù se alla fine il minimo comune denominatore è in fin dei conti l'intrattenimento. Questo intrattenimento è dato nel mio caso -sto semplificando molto- dalla complessità della metrica, dai beat, dall'inventica riposta nelle metafore fino a, ovviamente, l'intelligenza dimostrata nella stesura del testo nel suo complesso.
Ebbene, era da un po' che non riascoltavo Gravity dei Bush Babees, un trio di Brooklyn avente alle spalle l'esordio Ambushed del 1994, sicché, dopo la pausa di ieri, mi son detto che per cominciare la giornata a me e a voi poteva andar bene: c'è sole, fa caldo, la città comincia ad esalare tutti gli odori del periodo e personalmente reputo che per questa stagione le cose à la Native Tongues siano il massimo. Considerate queste osservazioni, stamattina mi son messo in marcia e percorrendo il consueto tragitto Isola-Cadorna (30 min. a piedi circa) mi sono rinfrescato la memoria e... uhm, diciamo che all'altezza di Cairoli stavo seriamente considerando di prendere un due-tre caffè, tirare un po' di coca, darmi delle mattonate sui coglioni o comunque qualsiasi cosa pur di svegliarmi. Lo dico con dispiacere, ma l'impressione del disco che mi feci all'epoca della sua uscita ha trovato conferma anche a distanza di anni: Gravity si riferisce evidentemente all'effetto che la gravità ha sui testicoli dell'ascoltatore, il quale dopo un ascolto completo se li ritrova all'altezza delle caviglie e buoni ormai solo per palleggiarci.
Intendiamoci: i beat, curati perlopiù dal collettivo Ummah, Shawn J. Period e dallo stesso Mr. Man, in media non sono affatto male. Soffrono secondo me degli stessi difetti che avevano quelli di Beats Rhymes & Life, cioè una scarsa riconoscibilità o scarso impatto che dir si voglia, ma di certo non si può dire che la pienezza dei bassi ed il gusto nella scelta dei campioni siano fattori trascurabili. Wax, per dirne una, ha una struttura estremamente semplice costituita da due note di organo elettrico ripetute ed un brevissimo campione di tromba loopato in sottofondo, il tutto appoggiato su belle batterie ed un ottimo basso. Una semplicità che risulta efficace e consentirebbe agli MC di fare i numeri, almeno in teoria. Idem come sopra per Maybe, dove al di là della sezione delle percussioni, cambiano solamente i campioni (xilofono e sax) o la più vivace The Ruler, in cui nuovamente le batterie ed il basso giocano un ruolo essenziale e dove il sample appena accennato di If I Ruled The World di Kurtis Blow "spezza" bene le strofe incentrando l'attenzione dell'ascoltatore su determinati passaggi. Anche quando i produttori si spostano dal bacino dei campioni di jazz e osano un po' di più, come nel caso dei synth di 3MC's (in cui lo zampino di Dilla si sente moltissimo), i risultati spesso sono ottimi e praticamente gridano per avere la presenza di un Pos o di un Q-Tip sulla traccia.
Purtroppo, però, il convento ci passa due MC senza infamia e senza lode come Lee Majors e Mr. Man e, peggio ancora, un toaster al cui confronto Mad Lion potrebbe svettare: Y-Tee. Quest'ultimo si fa notare in negativo grazie alla sua cadenza ultramonotona ed alla cantilena delle sue strofe, le quali, incredibilmente, anziché possedere una forza solitamente implicita per il genere di canto puntualmente affondanonella noia e nel fastidio i quaranta secondi a lui dedicati. Ma ciò potrebbe anche essere perdonabile se ci trovassimo di fronte ad altri membri bravi; tristemente, invece, non solo questi sono molto simili come inflessione vocale (alta e nasale in ambedue i casi) ma anche come metrica e stile in generale. Comunque sempre confinati all'interno dei 4/4, cosa di per sè non negativa, il loro maggiore handicap sta in una rigidità metrica che ha come unico valore la pulizia e la facilità di comprensione. Purtroppo, però, la loro prevedibilità si estende anche ai contenuti, equamente suddivisi tra l'autocelebrazione vecchio stile e la critica allo stato dell'hip hop contemporaneo; intendiamoci, va tutto molto bene, ma credetemi se vi dico che non c'è una frase degna di essere scratchata per un ritornello in un secondo tempo. Voglio dire, già solo la canzone Stakes Is High negli anni è stata depredata più di quanto potrebbe essere fatto con l'intero Gravity: un motivo c'è. E difatti questo si fa ancor più evidente quando appaiono degli ospiti -Mos def e Q-Tip- che pur non spremendosi le meningi riescono a conferire un'identità alle rispettive canzoni; fosse dipeso da Majors e Mr. Man, hai voglia...
Del resto potete vedere dalla brevità della recensione che questo è un album passabile ma nulla di più, i cui difetti purtroppo non si concentrano in una o due tracce delle quali magari ci si può anche divertire a parlar male: no, qui la mediocrità è purtroppo diffusa. E se questa risulta passabile in qualche occasione -Gravity, 3 MC's, The Ruler e Wax sono ottimi pezzi da mixtape- è nell'insieme che l'album non regge. Ora, non ve ne sconsiglio l'ascolto perchè non me la sento di definire l'opera brutta in toto (perlomeno i beat sono, nel genere, validi), tuttavia tenete presente che se io gli affibbio tre zainetti scarsi pur essendo un fan del genere e dell'epoca, allora c'è qualcosa che proprio non va. Peccato.





Bush Babees - Gravity

lunedì 30 marzo 2009

JUNGLE BROTHERS - RAW DELUXE (Gee Street/V2, 1997)

Visto che mercoledì mattina metterò il culo su un volo per l'Inghilterra e non potrò dunque aggiornare il blog almeno fino al 6, mi pare giusto lasciarvi un po' di roba sulla quale spendere più di un veloce ascolto. Oggi e domani accantonerò pertanto qualsiasi opzione che vada ad includere sia gli album classici che le merdine, preferendo focalizzarmi su materiale che io per primo ho a lungo snobbato salvo ricredermi dopo lungo tempo e darmi del pirla o, come si dice a Milano, del pèèèrla!
Ora: devo ammettere che casi simiili sono piuttosto rari. Immodestamente, sono infatti sempre stato benedetto da un certo fiuto per le ciofeche e questo mi ha permesso di sgabolare una buona dose di cacate; perciò è molto raro che riprenda in mano un disco bollato a suo tempo in modo negativo e che ad un nuovo ascolto mi ricreda. Tuttavia, alle volte ciò succede con più o meno vigore e, quando ho visto su Amazon che vendevano Raw Deluxe a 1,45£ mi sono detto "ma chissenefrega, non era 'sto granché ma perlomeno mi prendo Brain in qualità da CD". In più, poco tempo prima ero stato a casa di un amico che ha un armadio coperto da sticker e tra di essi ce n'era uno fichissimo di, appunto, Raw Deluxe; sicchè mi sono detto che non poteva che essere destino e l'ho aggiunto al carrello degli acquisti. Fine della premessa.
Beh, quando alla fine mi sono sforzato di riascoltare quest'album dopo qualcosa come undici anni mi sono accorto che il mio amico Christian, che nel '97 me ne diceva grandi cose, era dalla parte della ragione e che io invece ero un bel fesso. Infatti, gli unici due veri difetti che ho trovato in questa tremendamente sottovalutata opera dei Jungle Brothers sono una canzone inutile e contraddittoria (Gettin' Money) e la tremenda puzza di involtino primavera che sprigiona il booklet (serio: mai sentito nulla di simile). Tolte queste due cose posso dire che esso rientra tardivamente tra le chicche della seconda metà degli anni '90, e il fatto che sia ormai in rotazione fissa ed ininiterrotta nel walkman, nello stereo di casa e nella radiolina da cesso da ormai quattro giorni la dovrebbe dir lunga sulla sua bontà.
Inutile nascondere il fatto che a rendermi così entusiasta di Raw Deluxe sono perlopiù le produzioni: queste si collocano a metà tra il tipico suono dei Native Tongues dell'epoca -più Beats Rhymes & Life che Stakes Is High- ed il Pete Rock del meraviglioso disco degli InI, con bassi corposi, campioni appena accennati e batterie quadrate dal suono pieno. L'effetto finale è perlopiù rilassante e laid back (scusate il termine ma non saprei come tradurlo correttamente) senza però risultare noioso, e ciò grazie al fatto che pur all'interno di questo tipo di suono vi sono sufficienti variazioni stilistiche che consentono di separare nettamente una canzone dall'altra. Ad esempio, Black Man On Track culla l'ascoltatore grazie ad una riuscitissima fusione di sintetizzatori, piatti ed una linea di basso vibrante spezzata unicamente da un rullante secco che ben sostiene la melodia principale. Ma i Jbeez che hanno creato questo beat sono gli stessi che lavorano di Rhodes e xilofono per Changes, rendendola uno degli episodi più soavi dell'intero LP, e sono gli stessi che in Moving Along mettono insieme uno stupendo campione vocale e delle batterie dal suono cristallino rendendola una sorta di sequel acustico e concettuale a Changes.
Ma se molti meriti per le bellissime produzioni vanno ovviamente conferiti ai Jungle Brothers, devo dire che raramente come in quest'occasione degli ospiti hanno saputo regalare beat di una qualità così elevata. Ad esempio, How Ya Want We Got It, la tanto agognata quanto potente riunione dei Native Tongues, gode di un beat organico quanto si vuole ma incredibilmente hardcore nel suo uso staccato del basso ed il suono da "fischione meccanico" (se lo sentite lo riconoscete) che va a sottolineare alcune chiusure di strofa e relativi passaggi di microfono: impossibile non riconoscere il valore aggiunto conferito all'emceeing da Roc Raida e Knobody. Ma non scordiamoci nemmeno dei Roots, che ci regalano il singolo Brain e ci aiutano a ricordare come mai Illadelph Halflife è ricordato come uno dei più validi album degli anni '90; e nemmeno cancelliamo dalla memoria Djinji Brown e la sua ottima Handle My Business, in cui rivive l'anima più classica dei JBeez courtesy of un insieme di violini, un loop di tromba e delicati arpeggi a far da contrappeso a delle batterie la cui ruvidezza renderebbe orgoglioso Havoc.
Insomma, non so cosa dire se non che Raw Deluxe è prodotto in maniera pressoché impeccabile anche se non troppo originale; ma come ormai ben saprete, di fronte ad un'esecuzione pressoché priva di pecche a me delle cosiddetta "ventata d'aria fresca" poco me ne può fregare. Unica nota stonata è Gettin' Money, che tra un crescendo di archi e delle batterie davvero fuori posto a causa della programmazione isterica risulta essere uno scivolone non da poco e che purtroppo rompe davvero i coglioni nel suo essere a metà del disco.
Inoltre, questa canzone è anche quella liricamente più sballata. Dico "sballata" perchè oltre a contenere dei passaggi secondo me scritti e rappati oggettivamente male (Afrika Baby Bam in particolare, sentite la sua prima strofa e vergognatevi per lui), contiene un'ode al "grindin'" puro e semplice che andrebbe benissimo se... se non fossero i Jungle Brothers, appunto, che in tutti questi anni (ed anche in Raw Deluxe) hanno portato avanti una visione molto ascetica e pura della vita che secondo loro dovrebbe vivere l'afroamericano, rinunciando a cadere in peccati quali egoismo, pigrizia, avidità e quant'altro. Proprio non riesco a capire cosa gli sia preso: a meno che non si tratti di una sorta di parodia, tipo Tha Bullshit di Jeru, Money è una mosca bianca che per giunta ha il difetto di far cagare a prescindere da tutto e da tutti. Vai a capire.
Fortunatamente il resto è qualitativamente migliore e più interessante; a parte il fatto che Mike G e Afrika non hanno perso nulla del loro smalto né per quel che riguarda la tecnica (quest'ultimo in particolar modo si fa notare per le belle entrate) né per ciò che concerne la scrittura, la loro capacità di portare avanti un discorso di presa di coscienza mista ad un orgoglio nero introverso -intendo dire che più che accusare il prossimo sostengono una completa responsabilizzazione dell'individuo- è indubbiamente interessante anche se inizialmente non di grande effetto. In più, riescono comunque ad inserire una buona dose di rimandi alle pietre miliari dell'hip hop cosicché il loro amore verso questa cultura non risulti eccessivamente didascalico e plumbeo, e di certo non difettano di arroganza e capacità di portare avanti un certo tipo di autoesaltazione che riesce a rendere digeribile il loro aspetto più -come dire?- didattico. Esempi di questo loro talento sono sparsi un po' ovunque per raw deluxe, ma se proprio dovessi citare un paio di esempi direi che l'affiatamento mostrato in Changes ed i contenuti di Black Man On Track possono ben riassumere la loro bravura, dimostrando al contempo che chi sostiene che dopo Done By The Forces Of Nature non avessero nulla da dire sbagliava di parecchie misure.
E ora la catarsi: lo so che io sono stato il primo a dormire su questo disco. Ve l'ho detto, son stato un pèèèrla; ecco perchè -e lo dico per il vostro bene- non dovete seguire il mio esempio. Distanziatevi e datemi retta quando vi suggerisco più che caldamente di concedere meno di un'ora del vostro tempo all'ascolto di Raw Deluxe. Vi garantisco che non resterete delusi.




Jungle Brothers - Raw Deluxe

VIDEO: HOW YA WANT IT WE GOT IT

venerdì 12 settembre 2008

DE LA SOUL - BUHLOONE MIND STATE (Tommy Boy, 1993)

Spero che perdonerete la mia recente schizofrenia nello scegliere gli album da recensire, ma avendo forse (e qui mi do una scaramantica frugata di pacco) trovato casa tendo ad essere un po' in sbattimento e dunque con l'umore variabile. Ciò si ripercuote ovviamente sulla selezione musicale e oggi, dovendo staccare un assegno da 500€ tanto per, ho bisogno di rilassarmi.
Cosa c'è di meglio, dunque, di un album dei De La Soul, specialmente se il loro più jazzato oltreché il mio preferito e quello a cui sono più affezionato? The Low End Theory, senz'altro, ma avendolo già recensito immagino che mi dovrò accontentare di quel che passa il convento. Insomma, fatto sta che Buhloone Mind State è secondo me rilevante per tre buoni motivi: il primo è che è stato l'ultimo album ad essere interamente prodotto da Prince Paul; il secondo che è il loro disco più sottovalutato persino volendo includere The Grind Date (gran bel lavoro anche quello, tra parentesi); il terzo, infine, è che in questi 50 minuti scarsi di musica i tre sanciscono la definitiva rottura con qualsiasi volontà di compiacere il pubblico più vasto (nel '93!). Ciò però non significa necessariamente prendere una posizione netta ed urlata come invece fecero -per dire- gli EPMD con Crossover o Underground, scristonando magari anche a ragione contro i "poteri forti del caso, quanto piuttosto addensare in poche tracce una complessità musicale indigeribile al primo ascolto e dunque de facto inadatta ad una fruizione usa-e-getta. E tra le loro liriche, i loro giochi di parole, la strutturazione dell'intera opera nonchè il fondamentale contributo di Prince Paul, credo che il gioco gli sia riuscito bene; ad ascoltarlo così, en passant e magari cercando il pezzo d'immediato impatto, Buhloone Mind State pare fallire... salvo riprenderlo in mano una, due, tre o più volte e scoprire che di carne al fuoco ce n'è parecchia.
Smembrarlo dunque com'è mia abitudine sarebbe scorretto, tuttavia non posso fare a meno di sottolineare la bontà di tracce come I Am I Be: in uno dei pezzi più seri dell'intera discografia dei De La, Pos & soci si lanciano in una serie di osservazioni che dal personale partono per toccare temi più ampi come lo sfruttamento della cultura afroamericana, trovando peraltro il tempo di lanciare una frecciata nemmeno troppo dissimulata agli ex compagni dei Native Tongues ("Or some tongues who lied/ and said "We'll be natives to the end" nowadays we don't even speak"). Il tutto mentre Maceo Parker si concede un paio di assoli che, per la maggior gioia dei musicofili, trovano uno sfogo completo in I Be Blowin' (che non a caso usa il medesimo campione di I Am I Be). Altri pezzi eventualmente "sottraibili" dall'insieme sono poi la stupenda Ego Trippin' Pt. Two, che gode di uno dei beat al contempo più tradizionali e belli di Prince Paul, e, naturalmente, il singolo Breakadawn col suo campione di Can't Help It di Michael Jackson (per capire la differenza tra melodia e kitsch paragonatelo al pezzo di Royal Flush). Per il resto viaggiamo sempre su una qualità alta, ma personalmente trovo difficile separare, che so, Eye Patch da En Focus oppure 3 Days Later dalla pur differente Area; reputo infatti che queste colgano nel segno solo se contestualizzate, e dunque non andrò contro la loro natura.
Insomma, come s'è potuto capire ho ben poco da ridire su Buhloone Mind State -anzi, in quanto a basi non riesco a trovare difetti evidenti salvo, forse, qualche microscopico calo d'ispirazione quà e là (Eye Patch, In the Woods) e l'inevitabile caduta nel reame del weirdo (i tizi giapponesi che rappano a metà disco faranno molto eclettico ma fanno anche molto cagare); e del resto anche l'emceeing è difficilmente opinabile. certo, i De la sono sempre stati un po' bizzarri/originali nel gestire i loro stili, ma del resto è il loro marchio di fabbrica e se non lo si riesce ad accettare l'unica è non ascoltarli. Ma, garantisco, si correrebbe il rischio di perdere qualcosa.





De La Soul - Buhloone Mind State

VIDEO: EGO TRIPPIN' PT. TWO

venerdì 18 aprile 2008

A TRIBE CALLED QUEST - THE LOW END THEORY (Jive/Zomba, 1991)

A costo di scassare i coglioni ai lettori del blog con la mia ossessione per il jazz rap, ma soprattutto a costo di scrivere inevitabili banalità: ecco a voi The Low End Theory. E' molto difficile per me scrivere di un album che negli anni ho imparato a conoscere come le mie tasche, ma l'acquisto di questo capolavoro in CD -dopo anni e anni di onorato servizio da parte di una gloriosa TDK SA-X da 60- mi da un motivo pretestuoso per dare il via alle danze.
[...]
È da cinque minuti che fisso lo schermo senza sapere bene da che parte cominciare, e francamente comincio a sentirmi un po' fesso. Insomma, cosa c'è da dire di Low End Theory che non sia già stato detto? Passatemi il parallelismo, ma sarebbe come recensire la bibbia partendo dalla descrizione dei protagonisti.
Eppure di carne al fuoco ce n'è e parecchia: prendiamo anche solo The Infamous Date Rape, dove Tip e Phife si alternano nel raccontare la classica situazione dove si vorrebbe inchiodare una tipa ma questa, per un qualche stravagante motivo, non ci sta. Bene: la prima strofa illustra il, diciamo, problema; la seconda immagina come potrebbe andare a finire se la si obbligasse/pressasse, mentre l'ultima invece chiude il discorso dicendo che da parte maschile NON ci sarà alcun atto di forza. Quello che convince del pezzo è, più che le lodevoli intenzioni, l'onestà del racconto, come questo è strutturato ed anche la relativa "leggerezza" di alcuni passaggi: non si scade dunque nella fastidiosa situazione del Geremia che attacca a menare il torrone scagliando anatemi contro tutto e tutti.
Cambiando completamente ambito, sia Rap Promoter che Show Business andrebbero fatte ascoltare in loop a chiunque desideri entrare nel maggico mondo del reps -non solo perchè sono lezioni di rap di meno di quattro minuti ciascuna, ma soprattutto perchè illustrano alla perfezione qual'è la realtà del mercato discografico. Una visione così lucida e completa era una novità, allora, ed il fatto che questa sia stata delineata da ragazzi la cui età s'aggirava intorno ai 20 anni la rende ancor più sorprendente.
Voltando di nuovo pagina, a dare freschezza a concetti triti e ritriti come il rapporto col gentil sesso è nuovamente l'onestà: Butter non presenta tracce di racconti mitologici sulle proprie capacità sessuali e nemmeno va avanti a suon di stereotipi. Più semplicemente, Tip e Phife mettono giu nero su bianco i loro rapporti con le donne, trovandosi perfettamente a loro agio nell'incrociare esperienze dirette con aneddotica sparsa. Potrei andare avanti traccia per traccia, ma rovinerei l'ascolto: basti dire che contenutisticamente Low End Theory è davvero vario, ben strutturato, ed in ultima analisi difficilmente potrà risultare monotono- al punto che le uniche due ospitate, tra cui la storica apparizione di Busta Rhymes coi Leaders Of The New School su Scenario, danno un valore aggiunto ma non sono affatto "necessarie".
Ma la capacità di intrattenere va anche assegnata ad Ali Shaheed Muhammad, produttore di 13 tracce sulle 14 che compongono il disco (Show Business è a cura di Skaff Anselm), il quale supera se stesso ed il precedente People's Instinctive Travels and the Paths of Rhythm. Da sempre considerato come IL disco che coniuga jazz e rap, a mio modo di vedere però questo è semplicemente hip hop con influenze jazz. Difatti, per quanto Buggin' Out campioni in effetti dall'opera di un jazzista (cfr. TLET: The Samples), è innegabile che si tratti di purissimo boombap, oltretutto dotato di una delle linee di basso più potenti da You Gots To Chill in poi. E, già che siamo in tema di EPMD, che dire dell'evidente influsso avuto nella scelta di campionare i Parliament Funkadelic in Everything Is Fair? E nemmeno voglio perdere tempo ad elogiare la freschezza di Scenario, che mi auguro conoscano ormai tutti. Insomma, per farla breve, la produzione è quanto di meglio si sia potuto sentire da parte dei Tribe e, nuovamente, di tale bellezza e coesione da poter andare di pari passo con quanto fatto da RZA per Liquid Swords.
Eppure, vuoi anche per motivi abbastanza comprensibili, è raro che questo disco trovi spazio tra le migliori uscite secondo l'ascoltatore medio. Sarà anche una questione di età -io ad esempio filo poco la old school perchè, tolta una conoscenza accademica, difficilmente riesco ad esaltarmi con le prime cose di LL Cool J o dei Run DMC- però credo che chiunque apprezzi oggi i "figli" dei Tribe non possa trovare difficile arrendersi di fronte alla perfezione di Low End Theory. Un classico, insomma, per giunta invecchiato come il vino: praticamente ve lo carico giusto per risparmiarvi la fatica di ripparlo, in ogni caso la sua assenza da QUALSIASI collezione di dischi è ingiustificabile.





A Tribe Called Quest - The Low End Theory
Bonus: TLET: The Samples (via kevinnottingham.com)

VIDEO: CHECK THE RHIME