mercoledì 25 febbraio 2009

BROOKLYN ACADEMY - BORED OF EDUCATION (Gold Dust Media, 2008)

Sapete una delle cose che più mi manca della seconda metà degli anni '90? Senz'altro il non dover tornar a casa dopo il lavoro e dover stirare come stasera, certo, ma soprattutto il fatto che all'epoca potevo metter su un album e facilmente questo mi si piantava in testa pur senza essere un insulto musicale. In altre parole, non c'era solamente Hey Lover di LL Cool J ad essere dotata di un alto coefficiente d'orecchiabilità/memorabilizzabilità ma anche diversi altri album di artisti che, non a caso, da lì in poi sarebbero diventati delle star (Jay-Z, anyone?).
Oggigiorno, per quanto l'hip hop underground sappia sfornare gente decisamente talentuosa e che senz'altro apprezzo parecchio, questa peculiarità è quasi del tutto assente tra gli esordienti, e anche i veterani talvolta sembrano dimentichi del loro passato o perlomeno delle lezioni imparate durante esso. Questo è il motivo per il quale spesso risulta difficile godere di un ascolto completo di un album, tantopiù se lo si vuole usare come sottofondo. Ebbene, dopo aver testato Bored Of Education persino nelle condizioni più estreme (al lavoro, in cuffia da ubriaco la sera, mentre stiro, mentre mi faccio la doccia), posso dire con un certo entusiasmo che questo disco rappresenta quella che reputo essere la prosecuzione più genuina del tanto compianto spirit of the '90s. Questo non significa che sia perfetto, che non sia possibile fare di meglio o altro: significa semplicemente che adempie al primo dovere del rap, cioè quello di intrattenere senza necessariamente inchinarsi alle richieste del pubblico e/o scadere nei cliché qualitativamente più bassi del genere. Sarò ancora più chiaro: pur non essendoci alcuna traccia dotata di un ritornello melenso o di strofe scritte apposta per far da colonna sonora ad un particolar mood, Bored Of Education rischia di risultare molto più apprezzabile da un pubblico vasto di quanto non possa sembrare di primo acchito.
Ciò si deve principalmente ai beat, non c'è dubbio: per quanto distributi in maniera disomogenea per tutto l'arco dei 70 minuti di durata dell'LP, con la prima parte di BOD tendente ad un suono più fresco, essi vanno dal boombap più classico al campionamento di musiche mediorientali, dall'uso di vocine soul all'impiego di synth; il tutto però avviene in modo spontaneo e nient'affatto forzato, tanto che la cospicua durata del tutto quasi non si sente. Le lodi vanno dunque innanzitutto ai produttori, molti dei quali pressochè completamente sconosciuti e/o esordienti, che hanno saputo inventarsi suoni che vanno a nozze con gli stili di Mr. Medaphoar, Pumpkinhead e Block McCloud. Ciò non è semplice se si considera che i tre hanno metriche ben diverse tra loro e quindi lo sforzo compiuto dai beatmaker va applaudito con ancora maggior calore. Tanto per far la solita lista della spesa, dico che tra i pezzi migliori spicca la ruvidissima Raise Ya Hands, curata da un Illmind finalmente lontano dalle trappole del plagio nainfuonderiano; segue a ruota il singolo Tear It Down (ignoro chi siano i Beat Brewers ma di sicuro qui dimostrano di sapere cos'è una melodia), poi vi sono le grezze quanto classiche Suicide e Splash ed infine quella sottospecie di Timbaland-incontra-i-Neptunes-e-assieme-diventano-undergound che è Back In Effect. Queste -ma non solo- pur risultando molto diverse tra loro legano magnificamente in quanto ad atmosfere e quasi riescono a fungere da perfetta colonna sonora a questa sorta di omaggio indiretto a Brooklyn che è Bored Of Education.
E quando dico che è un omaggio non scherzo: a parte la valanga di riferimenti al celeberrimo quartiere nuiorchese ed a suoi mille distretti -Park Slope, Bushwick, Crown Heights, Bed-Stuy eccetera- non passa nemmeno mezzo minuto senza che uno dei tre eroi vi faccia un esplicito riferimento. Ciò naturalmente non è esattamente un pregio nel momento in cui si considera che per molti degli ascoltatori certi riferimenti potranno suonare famigliari solo perchè accennati già altrove, ma d'altro canto non me la sento di condannare con troppa ferocia questa sorta di tic lirico, visto che in fondo si potrebbe considerare come parte integrante della personalità del gruppo. Ed allo stesso modo glisso volentieri sul fatto che in Bored Of Education non vi sia traccia di contenuti che si spingano oltre il bere/fumare/trombare/rappare (mentre, che so, nel solista di Pumpkinhead la varietà era maggiore): reputo infatti che, data la comunque oggettiva difficoltà nel coordinare gli sforzi lirici e la coerenza tematica da parte di tre differenti persone, i Nostri abbiano propeso per un approccio più cazzone al tutto.
E in quest'ottica non si può negare che essi abbiano avuto un ottimo successo: sia perchè la loro idea di polleggio è molto terra-terra (vedi sopra), sia perchè la mettono in atto sfruttando sia un'indiscutibile abilità tecnica che una buona dose di sense of humor e grezzume vario ("I keep a dime on me, I stay flippin' her/ I wear it out, she tighten it up with vinegar"). E di certo aiuta il fatto che non solo i tre si distinguano nettamente per voce come per tecnica -Block McCloud abbastanza libero e prono a canticchiare, Pumpkinhead regolare ma vicino alla nuova scuola nuiorchese, Mr. Medaphoar il più vicino alle rime multisillabiche- ma che in più sappiano generalmente concepire ritornelli capaci di "staccarsi" dal pezzo e d'imprimersi nella memoria.
E' un peccato che non osino di più e che restino fondamentalmente nel territorio a loro più noto, ma il rovescio della medaglia è che perlomeno le varie prestazioni sono impeccabili (salvo un paio di scivoloni in termini di figaccioneria della metafora) raggiungendo talvolta picchi di bravura, come nel caso della strofa di Medaphoar in Raise Ya Hands o Block McCloud in Suicide. Anche le collabo sono indubbiamente ben riuscite, con Jean Grae che appare in ben tre pezzi ed Ill Bill, Keith Murray e Killah Priest che regalano ai Brooklyn Ac delle ottime strofe.
Andando a chiudere la recensione, ora, come potrei sintetizzare al meglio il motivo principale che rende Bored Of Education un disco così godibile? Forse dicendo che in questi settanta minuti di musica ruvidezza ed orecchiabilità ritrovano una sintesi che troppo sovente manca nelle pubblicazioni contemporanee. E, naturalmente, che il talento c'è ed è tangibile in ogni traccia: da non perdere.




Brooklyn Academy - Bored Of Education

VIDEO: TEAR IT DOWN

venerdì 20 febbraio 2009

JOHNSON&JONSON - JOHNSON&JONSON (Tres Records, 2008)

Recensioncina a razzo, ché alle 16 mi levo dai coglioni e vado a farmi un paio di giorni a Firenze: Blu e Mainframe alias Johnson&Jonson con il loro omonimo disco d'esordio. Il duo californiano, formatosi ad hoc per la realizzazione di questo progetto (che però nasceva come mixtape da accludere a Below The Heavens), deve buona parte della sua fama al rapper Blu; quest'ultimo, infatti, in soli due anni e mezzo ha generato attorno a sè una considerevole dose d'attenzione grazie ai lavori svolti in compagnia dei produttori Exile, prima, e Ta'raach dopo.
Inannzitutto, non nascondo che Below The Heavens m'era parso come uno degli album dalle produzioni più insipide degli ultimi anni (cfr. ciò che scrissi in merito alla prevedibilità musicale dei rapper "conscious") e di conseguenza ultrasopravalutato, mentre il successivo The Piece Talks mi aveva fatto pensare ad una virata hipster che mi avrebbe portato infine a spostare Blu nel reparto degli MC bravini dei quali però poco me ne potrebbe fregare (il principe di quel girone del mio personale inferno reppuso è Lupe Fiasco, se vi interessa saperlo). Fortunatamente per voi e per me, però, in un empito emofighetto della mia vita decisi di dare un'ultima chance al Nostro scaricando l'ultima sua fatica, J&J appunto, insospettito anche dal nome del produttore Mainframe -nel mio trip m'era venuto il dubbio che si potesse trattare del Mainframe citato da Common in I Used To Love H.E.R., pensa te; prevedibilmente, i due omonimi alla fine non c'entravano una beata minchia, ma in compenso questo qui dimostra un eclettismo ed una versatilità al campionatore come non ne sentivo da qualche tempo.
Per intenderci: prendete l'Edan di Beauty And The Beat e fategli un'iniezione di soul e funk e non andrete troppo lontani dal farvi un'idea dello stile di Mainframe. Le sue produzioni infatti hanno un suono che è al contempo fresco nei modi e classico (o rispettoso del gusto hip hop) nell'effetto finale sull'ascoltatore; contrariamente ad altri suoi colleghi, i suoi beat sono indubbiamente riconoscibili come prodotti di una matrice rappona ma altrettanto indubbiamente si nota come il suo lavoro nella programmazione delle batterie e nel taglio dei campioni non si sia fermato alla (peraltro rispettabilissima) scuola di Premier e Pete Rock. Egli infatti riesce a riproporre il mood dei tardi anni settanta (Wow) così come del soul dei primi '60 (The Only Way), senza però lasciare intoccati il funk (The Gusto Room), un pizzico di prog rock (A Perfect Picture) e financo i classici (Hold On John che campiona -sì- John Lennon).
Contestualmente, Blu su questo genere così diversificato di ritmi ed atmosfere dimostra una versatilità stilistica che era del tutto assente nel suo pur acclamato esordio al microfono: giocando anche molto con effetti applicati alla sua voce (distorsori di vario genere, principalmente) egli sa fondersi nella musica di Mainframe senza alcun tipo di difficoltà e senza risultare in nessun modo forzato. Forse facilitato dal non trattare temi particolarmente complessi e soprattutto non dedicando ad essi intere strofe dotate di consecutio logica, il Nostro plasma la metrica a suo piacimento riuscendo ad indovinare esattamente come si dovrebbe andare a complementare il beat. In quest'ottica egli sorpassa di parecchie spanne il rigido Edan, facendo così sorgere una naturale curiosità nell'immaginare a cosa potrebbe portare un incontro tra i due. Ma leziose fantasie a parte, il punto è che l'innata godibilità dei beat di Mainframe giova enormememnte da un Blu che contenutisticamente decide di andarci relativamente leggero e favorisce i giochi di parole, l'umorismo ed una bona dose di spacconeria (non fastidiosa, fortunatamente) rispetto all'introspezione -sincera e lievemente scoglionante- di below The Heavens.
Il risultato si condensa quindi in appena 45 minuti di musica stavolta davvero eccellente e che riesce a trovare un suo perchè tanto più ci si addentra del campionario di suoni e metriche del duo; la relativa brevità dei pezzi (una media di circa 2'30'' ciascuno) non produce schizofrenia ed anzi ne favorisce un ascolto ripetuto, che diventa poi obbligatorio per poter apprezzare le varie sfumature di J&J. va da sè che oramai gira nell'Ipod da tempo e, considerando che per andare giù dai toscani prenderò il temibile interregionale Partenopeo (nome proprio), ho come l'idea che avrò modo di riascoltarmelo più d'una volta.




Johnson&Jonson - Johnson&Jonson

giovedì 19 febbraio 2009

'CODDIO/ BLAQ POET - AIN'T NUTTIN' CHANGED

We, sperate solo che mi sia arrivato qualcosa da Amazon cosicchè in serata possa recensire qualcosa di fresho, perchè la situazione qua è una Caporetto. Infatti, ieri sera, disgustato da San Remo e dall'omaggio paraculo a De André (mai che facciano la Domenica Delle Salme, 'ste troie, eh? E comunque hanno dovuto aspettare che fosse morto da un po' per portarlo in quella gabbia di incapaci merdine semiritardate) avevo deciso di calare l'asso del grezzume e tirare fuori il greatest hits dei Ghetto Dwellas da me compilato cinque anni fa ed ancora capace di dare ispirazione per partorire scorregge col fischione mentre reppa Party Arty. Ovviamente, trattandosi di un CD masterizzato di cui credo di aver segato gli Aiff originali, ho scoperto che è rovinato al punto tale da non essere letto oltre metà della prima traccia (WTF?). E quindi? Quindi niente, a meno che (a) non arrivi qualcosa nel corso della giornata o (b) arrivi a casa con sufficiente energia per non cadere in catalessi di fronte a Fallout 3 e quindi trovi una musa atta a recensire qualcos'altro. Spero che arrivino o Fun DMC o Bored Of Education, ma mi sa che butta male...
Tanto per non lasciarvi a bocca asciutta, però, vi suggerisco di leggere gli scritti di Combat Jack (link a destra) che meritano assai ed inoltre vi linko il nuovo video di Blaq Poet. Che dire, lui mi piace sempre e quindi non mi lamento, certo che se Primo tirasse fuori qualche nuovo stile, cambiasse una minima la struttura dei suoi beat, ecco, diciamo che non sarebbe male.

martedì 17 febbraio 2009

JAZZ LIBERATORZ - CLIN D'OEIL (Kif Records, 2008)

Proprio mentre sul blog di Antonio è in corso una diatriba tipica degli ascoltatori di rap e degli elettori di sinistra, zitto zitto quatto quatto l'anno scorso è uscito un disco di rara bellezza e che è completamente sfuggito alla mia attenzione: Clin D'Oeil dei Jazz Liberatorz.
Fortunatamente, a supplire alla mia ignoranza c'è stato Basement Magazine che, qualche numero fa, scriveva di un produttore francocanadese di nome Dela apparentemente molto legato al jazz. Googlando questo nome mi sono dunque imbattuto non solo nell'oggetto della mia ricerca (che non mi ha appassionato più di tanto, se devo essere onesto) ma anche in questo trio di produttori francesi che, all'insaputa dei più, nel 2008 hanno imbastito 80 minuti con campioni jazz, strumentazione suonata dal vivo e ospiti dall'indiscutibile spessore come J-Live, Buckshot, Asheru, i redivivi Fatlip e Tre et similia. Tutta gente, questa, che in passato ha dimostrato ben più d'una casuale affinità con il jazz rap e che in quest'album trova pane per i propri denti proprio grazie a questi tre mange grenouilles, i quali dimostrano un talento, un gusto ed una competenza assolutamente straordinari e degni di ben'altra attenzione di quella ricevuta finora.
Ricalcando certi passi ed omaggiando apertamente (a partire dal titolo autoesplicativo) tutti coloro che li hanno preceduti nel mescolare jazz e rap, i Liberatorz traggono un'evidente influenza dai lavori dei Native Tongues, dei Digable Planets e soprattutto dei Stetsasonic, che furono tra i primi a ibridare l'uso del giradischi con una band vera e propria. In questo caso, inoltre, il numero di strumenti utilizzati è abbastanza impressionante e si spinge ben oltre il consueto e sempre ben accetto basso; nei crediti si può leggere di Rhodes, tastiere, flauti, batterie e sassofono: davvero fuori dalla norma. Ma naturalmente i campionamenti restano mezzi essenziali del loro mestiere, e dunque non stupirà sentire tracce di Hubert Laws, Gary Burton, Herbie Hancock e della Mahavishnu Orchestra; perlopiù si tratta comunque di suoni presi dalla fusion e dal cool jazz e questo conferisce un'atmosfera molto calma all'intero lavoro, senza particolari escursioni soliste e forse per questo un po' limitante (ma su questo punto tornerò più avanti).
L'ammiccamento, la strizzatina d'occhio è esplicitata nel modo più chiaro possibile lungo i sette minuti dell'intro, in cui da un lato abbiamo Tre dei Pharcyde che ricorda all'ascoltatore l'importanza del jazz e dei suoi maestri per l'evoluzione dell'hip hop e della musica in genere (interessante è notare come si sostenga che così come in passato i jazzisti americani venivano in Europa per ricevere il maggior calore lo stesso stia avvenendo oggi con il rap), e dall'altro vengono ripresi i campioni originali di pezzi storici come Electric Relaxation, Supa Star, Carmel City e chissà quanti altri che per mia ignoranza non riesco a cogliere; l'effetto finale è comunque efficace e per quanto il messaggio sia espresso in modo un pochino didascalico di certo funge impeccabilmente da abbecedario per l'opera intera.
Opera che prosegue poi eccellentemente grazie a Tre, Fatlip e Omni (?) e la loro Ease My Mind, in cui si può trovare davvero poco di cui lamentarsi: Rhodes e flauti si sposano impeccabilmente, e i tre stanno sulla traccia con una disinvoltura degna di menzione. Segue Asheru con un lungo tributo al jazz (e qualche frecciata all'hip hop contemporaneo), e sia la sua bravura che sentire lo stesso campione di Shout degli Onyx rende I Am Hip Hop uno degi migliori episodi di Clin D'Oeil. La successiva When The Clock Ticks è invece lasciata alle cure di un J.Sands notevolmente migliorato dall'ultima volta in cui lo sentii rappare, e la confidenza che dimostra con questi tipi di suoni ed atmosfere (di pari qualità delle migliori produzioni di J.Rawls) non può far altro che spingere oltre l'ascolto.
Ma prima di andare a sottolineare le chicche dell'album vorrei far notare una cosa: è veramente difficile trovare album come questo, in cui uno o più produttori dotati di un tipico sound sappiano scegliersi con così grande cura gli ospiti. I Liberatorz, invece, hanno saputo pescare alcuni dei nomi più idonei per corroborare il loro lavoro, infilando anche un paio di scelte tutt'altro che scontate come Buckshot e Apani. E' chiaro a questo punto che solo un madornale errore da parte di una delle parti in causa poteva rovinare il connubio, ma fortunatamente non solo i Nostri producono un beat più bello dell'altro ma, soprattutto, nessuno degli MC si lascia andare a performance fiacche.
Prendete J-Live: uno come lui avrebbe potuto accendere il pilota automatico e venirsene via tranquillo senza sfigurare, e invece con Vacation prende la definizione di vacanza e la usa come parabola estesa per definire il suo rapporto con la musica; Tableek dei Maspyke invece non si spinge così in là con i contenuti ma in compenso regala delle ottime strofe che vanno ad incastrarsi in uno dei beat più spinti dell'intera opera; Buckshot, infine, si muove con la stessa logica su una produzione dal sapore genuinamente vintage, forse quella che più s'avvicina al periodo d'ispirazione di Clin D'Oeil.
Gli altri ospiti, come già scritto, si comportano più che degnamente e ciascuno fa del suo meglio per non guastare in alcun modo l'atmosfera del disco; ciò nonostante non posso dire che il mai precedentemente udito Soulclan brilli per personalità, e dal canto suo Raashan Ahmad (già sentito su State Of The Art di Presto) conferma essere l'MC semplicemente "OK" che mi aveva dato l'impressione di essere in precedenza; pollice su poi per Sadat X e Apani.
Insomma, fino a qui parrebbe di trovarci di fronte a qualcosa di molto simile alla perfezione e dunque ai quattro zainetti e mezzo che riservo a questo genere di opere. Invece ci sono dei limiti che non possono farmi pendere così a favore del pur ottimo lavoro dei Liberators; in minima parte è perchè non tutti i pezzi hanno la fortuna di avere un J-Live o un Buckshot, ed il semplice fatto che tutti gli ospiti s'impegnino quasi al massimo delle loro potenzialità non significa naturalmente che tutti siano dei geni inarrivabili al microfono. In maggior misura, invece, ciò che più penalizza Clin D'Oeil è il fatto che il sound attinga solamente ad una certa tipologia di suoni e che dunque il risultato sia parimenti omogeneo: detto altrimenti, a meno che uno non si trovi sdraiato al fresco con in mano una birretta a contemplare la natura è facile che dalla metà del disco in poi si annoi. Le atmosfere sono estremamente rilassate, forse fin troppo, ed inoltre è abbastanza limitante che non vi sia lo spazio per qualche assolo di sax o batteria sparso quà e là (vedi ad esempio 05 dei Slum Village o In Accordance di Diverse); per di più, l'estrema pulizia del suono può da un lato essere motivo di complimenti, ma dall'altro priva un po' il tutto del calore che si può invece trovare in altri dischi dello stesso sottogenere, come ad esempio quello di Presto o l'ultimo dei Sound Providers.
Così com'è, invece, Clin D'Oeil trasuda classe da ogni poro e rappresenta senz'altro un ottimo esempio di come andrebbero fatti certi album; tuttavia, non riesce ad evitare di scadere talvolta nella monotonia e forse solo questo lo rende inferiore ad un (semi?)capolavoro com'è lo straordinario esordio dei Y Society. Un consiglio per il futuro? Fusion e cool jazz vanno benissimo, ma ricordatvi che anche il post bop ed il free jazz hanno qualcosa da dire, sebbene sia ben più difficile da riutilizzare in chiave hip hop. D'altronde è qui che sta la bravura, no?




Jazz Liberatorz - Clin D'Oeil

lunedì 16 febbraio 2009

REISER'S WAR REPORT

(clikka sull'immagine per ingrandire)

Come promesso, scrivo du' palle sul concerto di Capone 'N' Noreaga al Leoncavallo tenutosi sabato sera (notte). Innanzitutto una premessa: avendo fatto la grafica del flyer, Harsh aveva gentilmente offerto di entrare nel backstage a sgunfio. "Come no, grazie" gli ho risposto, convinto che da lì avrei goduto di una vista privilegiata come un vero vips ma senza il Courvoisier.
Purtroppo mi ero scordato di cosa significhi il sound system del Leo (tre anni che non ci andavo!), e così ho passato la serata riconoscendo solo cinque o sei pezzi, principalmente dall'attacco. Come partivano le batterie, invece, mi sentivo come Tom Hanks quando sbarca in Normandia e gli esplode una granata nel timpano e sta lì, guardandosi in giro con l'espressione da "WTF?"
Sul concerto in sè non posso dire molto. Vedevo poco perchè stavo di lato, e per di più davanti a me avevo delle repcelebritie$ nostrano in un modo o nell'altro imponenti. Mi è parso però di vedere Capone un po' spaesato, del tipo che andava in giro a bighellonare sul palco lasciando Nore a smazzarsi il concerto vero e proprio.
Due cose però non ho capito: come mai ad un certo punto della serata si son messo a fare cover di Brooklyn Zoo et similia? Karaoke? L'altra, invece, come mai quest'uso smodato del playback? La risposta più o meno la so -cioè sono dei ciccioni scoppiati- ma se anche non ti sfondassi di grappa, magari...
Giudizio sul concerto: boh. Loro non mi sembrano molto a loro agio dal vivo e di certo la professionalità non rientra tra le loro caratteristiche, ma data la situazione estrema (nun vedevo e nun sentivo) non saprei dire.
Giudizio sulla serata in generale: le doppio malto costavano tantissimissimo e arrivare al bar era una sbatta (non parlo nemmeno del delirio per poter pisciare). La selecta di Bassi era potente, e poi almeno ho ribeccato un po' di gente che non vedevo da mesi e ciò m'ha fatto piacere. Boh non so, in futuro però mi limiterò ad entrare aggràtis ai concerti.

Dimenticavo: opinioni da parte di chi stava in una posizione meno sfigata?

KENN STARR - STARR STATUS (Halftooth, 2006)

Con questa recensione voglio riallacciarmi al discorso inerente la prevedibilità artistica di molti tra gli MC che, sia commercialmente che contenutisticamente, sono inversamente speculari ad alcuni dei più disprezzabili nomi del mainstream; e ciò non tanto per ampliare il discorso -che mi pare abbastanza semplice- ma per fornire un esempio di questa mia teoria che non mi faccia scivolare nel rancoroso. Ecco perchè scelgo Kenn Starr: il ragazzo è capace e si è contornato di gente che lo è altrettanto, eppure il risultato finale non risulta pari alla somma delle parti.
La spiegazione di ciò non ha a che fare tanto con una disamina traccia per traccia di Starr Status tutto e con l'individuazione di campioni già usati, cliché ed altro, bensì con una combinazione tra originalità intorno allo zero e reiterazione plurima di concetti espressi in modo solo talvolta interessante. E credetemi se vi dico che su un piano "personale" fare queste affermazioni mi spiace molto, perchè in base a ciò che traspare dai testi il Nostro sembra essere una persona a modo, piuttosto intelligente, riflessiva ed anche sincera. Solo che queste qualità fanno, appunto, una brava persona ma non necessariamente un buon artista e men che meno un buon album (controprova: adoro Cuban Linx ma con Raekwon non ci prenderei nemmeno il caffé). Questo poi non significa che vi siano bei pezzi, naturalmente, ma purtroppo la lunghezza eccessiva e la diluizione di quattro concetti per un'ora di musica risulta esiziale per quanto riguarda il giudizio complessivo su Starr Status.
Cominciamo però dai lati positivi: Kenn Starr è un buon MC. Per quanto vocalmente e tecnicamente ricordi il più bravo Wordsworth -suo compagno d'etichetta, peraltro- non si può sorvolare sul fatto che si sappia muovere con agilità tra vari schemi metrici, mantenendo un'impostazione classica ma elaborandola più e più volte in modo da non risultare monotono. In più, la sua dizione è cristallina (indice di controllo del respiro ottimo) e per quanto abbia un accento piuttosto marcato questo non sarà affatto d'intralcio alla comprensione dei testi persino da parte di chi ha un inglese scolastico o poco più, grazie anche al fatto che usa un vocabolario relativamente ampio e scevro da espressioni in slang troppo estreme; dove cade, purtroppo, è ovviamente nei ritornelli. Onestamente sono meravigliato che persino a distanza di anni sia difficile trovare un MC dell'underground capace di realizzare dei réfrain efficaci e al contempo significativi: non che sia un difetto esclusivamente del Nostro, ma ciò non toglie che passare da una metrica complessa ad una a filastrocca usando adlib a spiovere per me non significa molto se non carenza d'inventiva e/o sforzo compositivo. Ma glissiamo.
Come s'è visto -la ricerca della conferma la lascio a voi- Starr sa stare al microfono, tanto che pure quando gli si affiancano ospiti come Supastition, Asheru e Talib Kweli il nostro non sfigura affatto. Quello che ora bisogna vedere è se la sua tecnica risulti funzionale e se il risultato sia godibile; rispondo affermativamente alla prima domanda e passo alla seconda, che è il vero nocciolo del problema. Come molti rapper, KS è terribilmente autoreferenziale: qualsiasi evento, vuoi anche lontano, è a lui ricollegabile. Le sue storie sono tutte degne di essere raccontate, e le sue sue difficoltà nell'essere un rapper/uomo/amante ecc. vanno esplicitate sempre e comunque. Nulla di drammatico, in teoria: l'accettazione dell'egocentrismo quale che sia è una conditio sine qua non per essere fan dell'hip hop. Il dramma è che, come dire, stando a quanto racconta lui la sua vita non è proprio una fucina di esperienze increddibbili o di aneddoti appassionanti... fatte le debite proporzioni, non è poi tanto diversa dalla mia. La quale può interessare me e le persone a me vicine, molto più difficilmente uno sconosciuto; specialmente se prima non operassi una accurata selezione degli eventi e se non decidessi di esprimermi al meglio delle mie possibilità. Kenn purtroppo questo non lo fa: più che affabulare, redige rapporti; oppure, in alternativa, si lascia andare ad un tono confidenziale parlando di sè stesso in maniera cristallina, peccato però che noi siamo ascoltatori e non psicologi e che quindi subire una sorta di elenco di sue azioni e del perchè le compie non è ciò che io propriamente definirei interessante. Last but not least, tutte le sue turbe prima o poi riafforano quà e là benché siano già state magari discusse in un pezzo precedente: e passi che magari alcune di esse possano pure interessare, ma in una conversazione normale questo modo di comportarsi si chiama asciugare e drammaticamente è proprio questo ciò che il Nostro fa.
Dice: ma anche i Mobb Deep dicono sempre le solite du' palle. Sì, certo, però (1) le sanno dire ogni volta in maniera diversa -consideriamo il periodo dal '95 al '99- e sono capaci di attirare l'attenzione dell'ascoltatore con one-liners da applausi, e poi (2) le loro avventure sono più appassionanti. E' come paragonare Valzer con Bashir al filmino delle vacanze, ecco.
Per fortuna ci sono però i beat , giusto? La risposta è nì, nel senso che per rendere godibile un disco che concettualmente ha ben poco di interessante (l'amore per il reps, la fatica di emergere, l'incapacità altrui... sem semper lì) ci vorrebbe un tappeto sonoro di straordinaria bellezza e/o efficacia, e invece anche qui ciò che passa il convento perlopiù galleggia nel mare del "meh". Il problema è che il grosso delle produzioni pescano nel consueto oceano del philly soul -un must se si vuol passare per reppuso "positivo"- e pertanto avremo di nuovo sottomano una pletora di voci e archi tagliati, con poche o nessuna variazione. La figura più magra la fa Kev Brown ed i suoi tre fiacchi beat, che al di là del non avere nulla di lontanamente memorabile non appaiono nemmeno mixati; lo seguono a ruota un Khrysis col pilota automatico attivato (solita vocina pitchata, solito breve taglio del campione durante la strofa, solito drum pattern for dummies) ed un Illmind in stato catatonico, incapace di spingersi oltre l'eventuale spunto interessante (l'arpa di Against The Grain) -stupisce in tal senso quanto questo sia migliorato nei scorsi tre anni. Oddisee, invece, perlomeno riesce a fare un lavoro decoroso con qualche sporadico guizzo di bontà: If è davvero molto bella col suo suono fortemente influenzato dal dub, ed il pianoforte campionato in Carry On da una botta di vita davvero necessaria al tutto e Know Too Much incrocia elegantemente chitarre funk e clap rimandando il pensiero alla miglior fusion. Il resto non è esattamente da applausi e appare inferiore a quanto da lui fatto per l'esordio di Wordsworth, ma rispetto alle cialtronerie proposte dagli altri pare una ventata di freschezza. Menzione speciale va all'australiano M-Phazes, però, che pur non allontanandosi dall'atmosfera generale sa come far suonare un beat e quindi le sue Middle Fingaz e Back At It Again suonano tanto melodiche quanto potenti e ben si sposano con lo stile di Starr.
E ora le conclusioni. Benché ci sia andato giù pesante, non crediate che Starr Status sia una ciofeca: in quest'ottica mi auguro che i suoi punti positivi siano abbastanza chiari e soprattutto che si capisca che la merda sta altrove. D'altronde è anche vero che qui manca quel tanto di spessore che serve per rendere degno di un ascolto approfondito un disco; e, tragicamente, la controparte musicale non è nemmeno tale da permettere ad uno di ascoltarselo così, en passant, come sottofondo. Da ascoltare per tre tracce, dunque, a meno che non siate relativamente nuovi all'ascolto di certe cose e/o queste vi piacciano particolarmente.




Kenn Starr - Starr Status

venerdì 13 febbraio 2009

POLYRHYTHM ADDICTS - BREAK GLASS (Babygrande, 2007)

Per cominciare la recensione di oggi con il mio consueto pistolotto alberoniano devo necessariamente aprire con un argomento che non c'entra una sega col disco dei Polyrhythm Addicts, ovverosia l'esordio dei Brooklyn Academy. Quest'ultimo mi sta dando diverse soddisfazioni nell'ultimo periodo, infatti, e non tanto perchè sia privo di sbavature o dotato di peculiarità tali da farlo svettare sulla competizione, bensì perchè si sente che è spontaneo e per certi versi improvvisato (per quanto possa essere improvvisato un disco registrato nell'arco di un anno). Bene. Perchè scrivo queste du' palle, però? Perchè il problema che ho con la maggioranza degli artisti che amano rifarsi alla seconda età dell'oro del reps è che sono -magari inconsciamente- prevedibili come la classica cagata dopo caffè+sigaretta; album che magari mi piaciucchiano anche, e che non ho problemi a definire tecnicamente ben fatti, spesso con me perdono punti in quanto dal loro ascolto si potrebbe quasi trarre un algoritmo da tanto che son "pensati" -paradigmatico di ciò è il 95% della produzione della Justus League, tanto per fare un esempio.
Attenzione però: non voglio fare un elogio del non-pensiero come unica forma efficace per rendere "viva" la musica (per questo c'è già quella macchietta di Giovanni Allevi), semplicemente prendo nota del fatto che esiste una generazione di MC che, probabilmente come reazione al totale svilimento dell'hip hop come movimento sociale e musicale, opta per una razionale controffensiva ribattendo punto per punto a tutti gli stilemi secondo loro più deleteri. Tuttavia c'è anche chi (solitamente si tratta di veterani) preferisce portare avanti una sua personale visione artistica e che magari per sua stessa natura rappresenta un'alternativa al mainstream più becero; meno dogmatici/ideologici nelle loro prese di posizione e più improntati ad intrattenere seguendo la classica formula "beat+rime fiche", questi artisti sovente confezionano album che pur non rifacendosi necessariamente ad un determinato tipo di suono/epoca riescono a riproporre efficacemente ciò a cui altri anelano in modo più esplicito. I Brooklyn Academy rientrano a pieno titolo in questa categoria di persone, secondo me, così come i vari Joell Ortiz, Cormega e, appunto, i Polyrhythm Addicts.
Il bello di questo disco è difatti che non contiene nessuna di quelle posizioni "urlate" che, a seconda dei casi, tanto piacciono (per limitarci all'Europa) a chi cerca un'affermazione della propria personalità in un disco: presunti ghettusi, hipster, puristi di professione e via discendendo nello squallore. Break Glass piacerà a chi apprezza l'hip hop puro e semplice, sia per via delle ottime capacità degli MC coinvolti sia per via del magnifico lavoro fatto da Spinna, e queste persone sicuramente gradiranno quel vago sapore di paranostalgia che questi 74 minuti scarsi di musica sapranno dare.
Innanzitutto c'è l'emceeing: dei membri originali dei Poly sono rimasti Mr. Complex e Shabaam Sahdeeq, mentre a sostituire Apani è giunta tal Tiye Phoenix che -lasciatelo dire a uno che non è esattamente un fan del rap al femminile- è seriamente potente e sovente brucia i suoi colleghi al microfono (i quali non sono esattamente delle chiaviche, mind you). Come loro stessi dichiarano a ragione in Kerosene: "We get compared to The Fugees/ But all of us can rhyme". L'unico peccato è che mentre gli stili dei tre sono abbastanza diversi (Complex ricorda per certi versi un Pharoahe Monch meno estremo, Sahdeeq è più rilassato e Tiye invece piuttosto aggressiva), le voci dei due maschi hanno più o meno la medesima tonalità nasale e pertanto i frequenti passaggi di microfono non risultano d'effetto come potrebbero invece essere, ma in fondo questo èun difetto relativo; ciò che conta è che in quanto a rime i demeriti sono veramente pochi e chiunque ami la scuola nuiorchese non potrà che restare entusiasta di ciò che i Nostri ci sanno proporre.
Anche sul versante tematico si nota molto lo stampo "classico" nel momento in cui a fianco al caratteristico ed imprescindibile wack-rapper-bashing (Smash, Kerosene, Reachin') i tre si concentrano perlopiù sulle proprie esperienze personali, traendone critiche ed osservazioni che spaziano dall'aver vissuto un'infanzia economicamente e socialmente merdosetta (Ugly World), all'essere risuciti a diventare degli artisti noti (discutibile) senza dover venire a compromessi con chicchessia (It's My Life) mentre altri si son messi a 90 senza esitazioni (The Purist, Four Corners); non dimentichiamo poi tracce espressamente dedicate al cazzeggio come Zonin' Out o Revamp che, accompagnate da beat adeguati, riescono pienamente nel loro intento di abbassare momentaneamente i toni dell'opera complessiva. Ciò che non mi convince però della parte vocale di Break Glass sono non tanto i featuring (dove comunque avrei preferito un Pharoahe Monch meno hypeman e più rapper, o un Planet Asia più impegnato) bensì i tanti cantati che, specie nella seconda parte dell'album, cominciano davvero a scassare la minchia in quanto letteralmente interrompono le canzoni anzichè accompagnarle: grossa pecca, questa, tanto più se non si riesce a capire la ratio dietro ad una scelta di questo tipo.
Volendo ora parlare dei beat, la prima cosa che va sottolineata è che è scandaloso che Spinna non venga pressoché mai citato quando si parla di produttori coi controcoglioni. Non lo so: la sua discografia è piuttosto estesa nonché variegata e va da buoni remix per i De La Soul o i Das EFX a produzioni per Talib Kweli e Mos Def, senza contare naturalmente l'ottimo lavoro svolto per i Jigmastas o i suoi solisti; malgrado tutto ciò, Vincent Williams continua ad essere sottovalutato o del tutto ignorato dalla stragrande maggioranza degli addetti ai lavori. Vai a capire, io francamente ignoro come il suo saper mischiare in modo originale break pesantissimi a campioni di raro gusto, dando al tutto una pulizia che però non cancella il calore del suono, possa lasciare indifferenti. Prendiamo ad esempio Kerosene: l'attacco con trombe a tutto spiano inizialmente potrebbe far pensare alla classica traccia energetica tutta giocata sulla potenza, quasi fosse un inno: e invece per le strofe egli lavora di taglia e cuci su un sommesso cantato maschile che pare provenire dalla fine degli anni '50 e che viene piacevolmente interrotto dai ritornelli. Analogamente, Reachin' gira su batterie uptempo in cui un sample di voci femminili viene tagliato in stacchetti di tre secondi e viene mescolato a fiatti che vanno ad enfatizzare determinati passaggi degli MC. Ma giusto quando uno potrebbe pensare di aver individuato una formula, ecco che con scioltezza passa ad un sound ben più rilassato (Revamp) e potenzialmente adattissimo per del neo soul (Goin' Down), senza però fossilizzarsi nemmeno su quello: The Purist pare prodotta dallo stesso Large Professor (che appare al microfono, tra l'altro) da tanto che picchiano le batterie, mentre con Thoughts Of You va ad avvicinarsi decisamente ad un J-Dilla pre-Champion Sound, solo un po' meno grezzo.
Insomma, spero di aver reso l'idea: per quanto possano esserci delle occasionali cadute di stile (due di numero: One Chance ha un bel beat ma il campione è onestamente fastidioso e fracassone, mentre Get Ghost è scontata e già sentita sotto ogni punto di vista) è difficile sentire cotanta varietà in un disco senza che immediatamente si crei una schiera di fan; e invece la creatività di Spinna pare proprio essere di seconda scelta, non ce n'è.
Magari la cosa dipende anche dal fatto di essere stati pubblicati dalla Babygrande che, detto tra noi, è una casa discografica del cazzo: negli ultimi tre-quattro anni non solo pare badare più ai nomi che alla qualità effettiva del lavoro, ma per giunta non è capace di promuovere assolutamente nulla che non sia legato ai Jedi Mind Tricks. E ora vorrei dire che mentre di dischi degli Outerspace o di Doap Nixon si può benissimo fare a meno, sottostimare un Break Glass investendo du' lire in promozione è semplicemente vergognoso. Io -come penso tutti i frequentatori di RNS- seguo assiduamente il rap, ma è quasi un caso che mi sia imbattuto in questo album; oggettivamente, come fa uno sbarbo alle prime armi a reperire materiale di qualità senza che vi sia la possibilità di leggerne da qualche parte?
E allora ecco che nel mio piccolo cerco di porre rimedio alle mancanze della Babygrande, dicendovi tre cose: primo, ascoltatelo; secondo, compratelo; terzo, quando lo comprate usate vie traverse (Vibra, Amazon, quel che ve pare) e non fate come me che, in pieno attacco di shopping compulsivo, l'ho pagato una fortuna da quei straccioni di Ricordi.




Polyrhythm Addicts - Break Glass

mercoledì 11 febbraio 2009

SCARAMANGA - SEVEN EYES, SEVEN HORNS (Sun Large/Fat Beats, 1998)

Solo recentemente ho ripreso in mano l'esordio solista di Scaramanga alias Sir Menelik alias Cyclops 4000 e mi sono trovato a pensare che esso è invecchiato decisamente bene, che molte tracce non sembrano nemmeno vecchie di dieci anni e, infine, che Seven Eyes Seven Horns è complessivamente un buon disco contenente svariati ottimi spunti. Ma queste sono le conclusioni, mentre prima di giungere ad esse è necessario buttar giù un paio di nozioncine tanto per capire di chi stiamo parlando.
La persona in questione, su cui le note biografiche sono stupefacentemente scarne, prende il nome (questo nome, perlomeno) da un personaggio abbastanza burino dei film di 007 che -e vabbè, pensate che cazzatona col botto- era uso assassinare i propri bersagli adoperando rigorosamente proiettili d'oro; legato in maniera ufficiosa a Kool Keith e Godfather Don, e come quest'ultimo anch'egli originario di Brooklyn, verso la fine dello scorso millennio si fece notare sia per un po' di comparsate sui dischi di questi artisti, sia per la presenza sullo storico secondo volume di Soundbombing. Il motivo dell'attenzione riservatagli è da ritrovarsi principalmente nel suo stile, che tecnicamente è piuttosto libero e si muove agilmente sui 4/4, e nella scrittura piuttosto verbosa e ricollegabile a quello che alcuni amano definire flusso di coscienza ma che io sovente identifico più con un "dico la prima roba che mi passa per la testa". A fargli da sponda musicale ci sono poi beat che sono sì indubbiamente ricollegabili al hardcore nuiorchese, ma che sovente si distaccano dalla sua forma più tradizionale e s'inoltrano in un territorio per l'epoca abbastanza d'avanguardia; questi due elementi, dunque, si uniscono infine in una sintesi generalmente ben riuscita e che in qualche caso raggiunge picchi qualitativi degni di nota.
Sul versante dei beatmaker i nomi sono principalmente tre: Scholarwise, lo stesso Scaramanga e Godfather Don, ai quali vanno poi aggiunti il wutanghiano Goldfingaz ed il buon Showbiz con una traccia ciascuno. Come raramente accade, però, il caso vuole che sia lo stesso 'Manga a produrre la base migliore nonché più interessante del disco, e cioé Strip Club Bait. La genialità di questa sta nel fatto che su un tappeto di archi effettati à la Godfather Don, il Nostro crea una sorta di melodia fatta coi suoni dei tasti e la suoneria di un cellulare che va a riallacciarsi con la narrazione che, come si può dedurre dal titolo, ha inizio con una telefonata in uno spogliarello e prosegue poi nel filone pimpalicious che tanto piace ai rapper ed ai suoi fan. Il bello è però che questo pezzo non intende assolutamente fare da colonna sonora a momenti analoghi (con tutta la pacchianaggine che ne consegue, senza contare il fatto che sapere come scopano dei maschi trentenni m'interssa limitatamente), bensì opta per uno storytelling sulla cui linearità si può dubitare ma che innegabilmente riesce in pieno a ricreare l'atmosfera urbana in cui esso ha luogo. Da applausi a scena aperta.
Anche le altre tracce prodotte da Scaramanga, in particolar modo la scarnissima Sugar '99, dimostrano un buon talento nel confezionarsi beat che non solo gli calzano a pennello ma che sono delle chicche a prescindere; e perciò fa specie che un produttore a tempo pieno come Scholarwise si dimostri decisamente meno capace di quanto sia lecito aspettarsi. Difatti, mentre non ho nulla da dire sulla bella Seven Eyes Seven Horns -che combina magistralmente un campione di Hammond con batterie incalzanti da parata- mi lasciano perplesso Cash Flow e Death Letter: la prima perchè è francamente troppo essenziale e pare una sorta di abbozzo di beat, per intenderci quelli che alcuni usano per venti secondi di canzone per ridare l'idea che ci si trovi ad una competizione di freestyle; la seconda, invece, perchè pare una versione migliorata e completata della prima, il che però non significa in nessun modo che acquisisca un valore positivo assoluto. Meglio a questo punto Alphabetic Hammer, che rielabora per la terza volta il concetto di beat minimalista (alias batteria, basso ed un solo stringatissimo campione monocorde) e finalmente riesce a risultare apprezzabile, specie poi se paragonata alla tanto melodica quanto monotona Holdin' New Cards, in cui un Goldfingaz non esattamente all'apice dell'umana creatività prende un banalotto loop di clavicembalo e, senza arrossire per la vergogna, lo ripete ad libitum per quasi quattro minuti senza curarsi di robette da femminucce come bridge, pause e quant'altro. Decisamente meglio fanno a questo punto -e non è difficile- uno Showbiz in piena modalità D.I.T.C. (Mind I.C. Mine non stonerebbe in Full Scale) e Godfather Don, con quest'ultimo che remixa Death Letter adoperando The Edge di David McCallum (che ormai non si può più sentire, purtroppo) e che gioca di sponda con il suo Diabolique mediante Special EFX; stranamente, stavolta non stravolge il campione e ciò mi rende possibile conferirgli un'origine: soul sul genere di Syl Johnson, tanto che credo di averlo già sentito in qualche roba del Wu-Tang.
Venendo ora all'emceeing, la prima cosa da dire è che Scaramanga non brilla esattamente per sintesi. Analogamente ad un Aesop Rock ante litteram mischiato al Kool Keith meno weirdo, il Nostro si lancia in un assalto verbale che potrà piacere solamente all'aficionado duro e puro (e d'altronde non è che questo disco nell'insieme conceda aperture di alcun tipo, anzi), e persino questi dovrà comunque mantenere alta la soglia d'attenzione per poter captare le eventuali trovate sparse quà e là. Personalmente, ciò che apprezzo molto di lui è l'abitudine di ondeggiare tra il "chiudo la rima quando cazzo me pare" ed il stare perfettamente sulla battuta riprendendo lo stile di Kool G Rap. Mi spiego: se si prendono un paio di suoi versi (inteso all'italiana, tu chiamale barre se vuoi) si noterà facilmente che li chiude in maniera abbastanza sciolta, in anticipo o in ritardo sulla battuta e comunque aprendo i successivi riagganciandoli ai precedenti come se fosse un flusso continuo; all'interno però del singolo verso, egli si cimenta però con incastri classici parecchio serrati e di sicuro effetto. La prima strofa di Strip Club Bait è rivelatrice, vi consiglio di ascoltarla non solo per esclamare FUCK YEAH! facendo le cornine mentre la sentite, ma anche per capire al meglio ciò che intendo.
Ciò detto, non è che in quanto a tematiche vi sia molto da dire. Il punto di forza di Scaramanga è la sua tecnica, non c'è dubbio; tant'è che le volte che decide di affronatre un qualche tema (comunque nulla di particolarmente astruso, spesso il suo modus vivendi) questo si piega immancabilmente alle richieste della metrica. Un approccio, questo, forse ancora più estremo di quello del mentore ufficioso di 'Manga, cioè quel Kool Keith che si fa viaggi anche più bizzarri inventandosi a seconda del caso la metrica che più gli torna comoda. Ma a prescindere da ciò il risultato funziona magnificamente nella maggior parte dei casi, e solo quando decide di cavalcare un beat troppo regolare il giocattolo si rompe: nuovamente, mi sto trovando a parlar male di Holdin' New Cards.
Conclusione? Molto, molto interessante. Certo Seven Eyes Seven Horns non è esente da vari difetti -concernenti principalmente i beat- ma nel complesso non ritengo che questi siano tali da scoraggiare gli appassionati, che anzi troveranno molti spunti positivi sparsi per il disco. Peccato solo che vi sia solamente una traccia davvero antologica, con tre molto buone di controno; stando così le cose, non me la sento di dargli più di tre e mezzo, ma alla fine poco importa...




Scaramanga - Seven Eyes, Seven Horns

lunedì 9 febbraio 2009

SCIENTIFIK - CRIMINAL (Definite, 1994/ Traffic, 2006)

Se la metà degli anni '90 si è contraddistinta per l'altissima qualità dei prodotti pubblicati nel breve arco di due-tre anni, è anche vero che tra il '94 ed il '96 sono letteralmente scomparsi nel nulla dei progetti eccellenti che, ancor'oggi, quando risentiti fanno cadere la mascella: i primi che vengono in mente sono l'esordio solista di Large Professor, quello degli InI e magari anche 8-Off The Assassin alias Agallah. A dio piacendo, però, dacché si è diffuso internet non solo noialtri abbiamo potuto risparmiare sui classici pornazzi da novemilaenovecentolire, ma abbiamo anche avuto la fortuna di recuperare in mp3 molte di queste chicche; e come se ciò non bastasse, alcune case discografiche si sono svegliate ed hanno ristampato diversi album dei quali finora si poteva sperare di avere un rip da cassetta. Ed eccoci a Scientifik.
Originario del Massachussetts (Lawrence, per la precisione), nel '94 aveva preparato un breve album di dieci tracce che avrebbe dovuto essere distribuito dalla Mercury; tuttavia, in quell'anno l'etichetta stava passando un brutto momento finanziario e così Criminal riuscì a vedere la luce solo sotto l'egida della sconosciuta Definite -e per giunta solo in vinile. Inutile dire che del Nostro mai più si seppe alcunché, eccetto che morì in circostanze misteriose due anni dopo; a lungo conservato negli hard disk degli appassionati, però, Criminal negli anni divenne una sorta di testamento dell'autore e che in quanto tale fece rimpiangere parecchio la sua dipartita. Non solo perchè lui si dimostra competente al microfono -ammettiamolo, non era l'unico- ma soprattutto perchè al campionatore si alternano alcuni pesi massimi dell'epoca (RZA, Buckwild, Diamond D -quest'ultimo anche al microfono con la stessa strofa che sentiremo in 5 Fingers Of Death) che, una volta affiancati al lavoro di gente meno conosciuta ma ugualmente capace di sfornare vere e peroprie perle (Vinyl Reanimators, EdO.G e Scientifik stesso), trasforma un album interessante in una sorta di bignamino del suono dell'epoca.
Infatti, contrariamente a quanto avverrà per un suo concittadino quattordici anni dopo, l'avere certi nomi si concretizza in un lavoro la cui qualità è certamente all'altezza delle aspettative. Trombe riverberate, hihats filtrati al punto che quasi paiono fischi, bassi corposi e che quasi inglobano le batterie: quello che cercate del suono nuiorchese del '94 qua lo trovate. E per quanto strano possa sembrare, i lavori migliori non li svolgono né Diamond, nè Buckwild, né RZA, bensì EdO.G (Lawtown e Criminal aprono e chiudono l'album in modo impeccabile) e i Vinyl Reanimators (Jungles Of Da East è "già" un classico); sono loro infatti a firmare i beat più freschi dell'album e a collocarlo correttamente nell'alveo delle gemme del '94. Gli altri, invece, regalano produzioni indubbiamente ben fatte (I Got Planz o Fallen Star meritano parecchio, per dire) ma che sembrano un po' datate se paragonate ad altri loro lavori contemporanei: fanno più parte del sound pre-93, per intenderci, almeno sotto l'aspetto della ritmica (e vedere RZA accreditato come Prince Rakeem non può che confermare questa mia impressione). La mia ipotesi è che, visti i tempi di lavorazione medi per un album e visto il budget non elevatissimo a cui il Nostro poteva attingere, Scientifik abbia da un lato fatto richiesta di basi ben prima del '94, e dall'altro abbia puntato più sulla quantità che su altro in modo da poter far breccia nel mercato discografico nuiorchese. E non capitemi male: puntare sulla quantità anziché sulla qualità di un Buckwild dell'epoca non significa propinare schifezze, ma solo decidere di non entrare nella storia.
Ciò detto, e fermo restando il paradosso temporale, i beat non rappresentano un problema, tutt'altro: anzi, mi viene da dire che sono loro a rendere speciale l'album. Lo dico anche con un certa tristezza, ma l'è inscì: chiunque abbia memoria di quegli anni deve ammettere che se avesse sentito Scientifik al microfono non ne sarebbe rimasto un granché impressionato (se non per la sua estrema violenza, al massimo). Il Nostro era difatti competente e dotato di una buona voce, ma la cosa si ferma lì; e questo si può notare sia nell'aspetto tecnico, dove non ci sono particolari estri di sorta (sta a tempo e bona lé), sia per quel che riguarda la scrittura -metafore inesistenti, narrazione molto schematica e quasi giornalistica. Per di più, i contenuti sono abbastanza scontati e l'unica cosa che li rende interessanti -e non lo dico con ironia- è la stupefacente quantità di viulenza e odio che il Nostro riesce ad incanalare verso chi gli sta sulle palle. In questa categoria rientrano a pieno titolo gli sbirri, i finti gangsta, i poser di vario genere e le solite hoes; sentir Scientifik lanciarsi in filippiche contro gli uni e gli altri è genuinamente appassionante, perchè sembra proprio che prima di scrivere un testo gli sia salito l'embolo e che perciò sia entrato in modalità berserker. Daje!
Comunque sia, questa convinzione è senz'altro apprezzabile e davvero aiuta l'ascoltatore a passare da un aspetto della strìt làif all'altro senza annoiarsi; e d'altronde con certi beat non si può sbagliare. Ergo, Criminal è un gran pezzo d'album al quale non do quattro zainetti e mezzo solo perchè so scindere l'aspetto nostalgico da quello più oggettivamente critico. Impossibile immaginare quale sarebbe potuto essere il futuro del Nostro (ma non credo un granché, onestamente), di sicuro quest'album è una sorta di pietra miliare all'interno del mondo dei "shelved projects" nonché un gran bel disco tout court.





Scientifik - Criminal

venerdì 6 febbraio 2009

THE BLACK MARKET MILITIA - BLACK MARKET MILITIA (Nature Sounds, 2005)

Due riflessioni a freddo: la prima è che a partire dai Group Therapy i "supergruppi" nel hip hop si sono presentati con risultati inferiori alla somma delle parti. La seconda è che, a causa di ciò, persino una combinazione capace di far sognare il fan medio del rap degli anni '90 nel 2005 ha invece lasciato indifferenti moltissime persone, tra le quali il sottoscritto. Considerate dunque questa tardiva recensione come un mea culpa ed al contempo un invito a riprendere in mano un album che, sì, poteva essere meglio ma che una volta svestito delle aspettative esterne sa offrire gran bei momenti.
La composizione della squadra, innanzitutto: al microfono troveremo Tragedy Khadafi, Killah Priest, Hell Razah dei Sunz Of Man, Timbo King dei Royal Fam e l'esordiente William Cooper, mentre al campionatore si alterneranno tali Godz Wrath Productions ed una pletora di sconosciuti, con le uniche eccezioni rappresentate da Bronze Nazareth ed un membro dei Now & Laterz. Ora, chiunque mastichi un po' di storia del rap riuscirà a vedere qual è il trait d'union degli MC e di conseguenza potrà anche immaginarsi il suono che questi preferiscono, ed infatti il margine d'errore è pressoché nullo. Su un tappeto sonoro che ibrida atmosfere epiche e richiami all'ultimo RZA degno di nota, aggiungendoci un pizzico di QB quà e là, i membri dei BMM si lanceranno in invettive contro il Potere e la sua intrinseca corruzione, idealizzeranno tematiche molto care alla Nation Of 5%, citeranno passaggi biblici mischiandoli con fantascienza e, en passant, minacceranno di fare il culo a chiunque ostacoli il loro cammino.
Un approccio, questo, che riflette cristallinamente le loro singole carriere e che pertanto non potrà dispiacere a chi li ha segutiti in questi anni e che -sorprendentemente- porta ad una coesione artistica molto ben riuscita, specialmente se a passarsi il microfono sono Killah Priest e Tragedy. I due, infatti, oltre ad essere i migliori elementi del gruppo da ogni punto di vista, sviluppano un ottimo affiatamento e, se l'alternanza tra l'uno e l'altro è piacevole anche solo per questioni inerenti l'orecchio (voce, stile, ecc.), anche tematicamente si spalleggiano perfettamente. Più orientato ad una visione storico-religiosa ricollegabile alla situazione dei ghetti di oggi il primo, più versato nell'incrociare la consueta street life e gli insegnamenti degli attivisti neri "estremi" (Malcolm X e la NOI, Huey P. Newton, Clarence 13X) l'altro, come si può evincere da una citazione presa a caso: "Let the revolution start where's your heart, let ya heat pop/ Feel the lost cause of Afeni when she lost Pac/ Betty Shabazz, the slugs tore Malcolm's chest and he dropped/ Audobon building - might get murdered, what I'm revealing/ Cinematic like Michael Moore, Fahrenheit 9/11, Mac-11 flamin' the president's head till it's severed". Ora, con gli altri compari che li seguono grossomodo a ruota, si può dunque dire che abbiamo tra le mani un album a sfondo strettamente politico? Direi proprio di no, visto che al di là di qualche accenno ad eventi o fatti ben precisi i Nostri eroi preferiscono viaggiare sul binario della righteous ign'ance, dove si può benissimo accostare un accenno della fuga di Assata Shakur all'inserimento di proiettili nei caricatori (o alla rivolta dei maccabei, ai Sephiroth o a quel cazzo che ve pare).
Naturalmente si può vedere questo tipo di scrittura come fuffa malmascherata e pretestuosa così come raffinate parabole: questo sta al singolo, naturalmente, ma per quanto mi riguarda propoendo più per la seconda opzione sans il "raffinate", ed in fin dei conti testi scritti in questo modo intrattengono solitamente ben più del plateale "ti rompo il culo". In più, essi trovano una nuova coerenza se ad accompagnarli sono beat che ben rispecchiano quest'attitudine, ed in tal senso Black Market Militia non delude. Pur restando ad anni luce da qualsiasi cosa abbia a che fare con la definizione di originalità, è pur vero che una base come quella di Final Call è da brividi, a partire dal canto iniziale del similmuezzin fino a giungere al bel accostamento tra il corale campionato ed il sitar/mandolino; pure le più ruvide Dead Street Scrolls, Mayday (che rende You Are Everything di Gaye e della Ross pressoché irriconoscibile) o Gem Stars funzionano, forse proprio perchè alla fin fine rimandano con successo ad un misto di sonorità a cavallo tra 4th Disciple (cfr. i loop di piano pitchati) e The War Report (campioni vocali tagliati, batterie pesanti). Questa formula viene mantenuta per tutta la durata del disco, però, e questo da un lato lo rende monotono nella più stretta accezione del termine -senza contare poi che alcune produzioni sono palesemente inferiori ad altre e paiono quasi degli abbozzi per qualcosa che sarebbe dovuto essere meglio strutturato (cfr. Audobon Ballroom, Black Market, Breath Of Life o Think Market).
E dunque, benché io sia soddisfatto dal disco per quel che riguarda il versante lirico, in ultima analisi sono le produzioni -a volte brutte, spesso mal equalizzate, talvolta generiche e comunque poco originali- a tagliare le gambe ad un prodotto che così com'è piacerà senz'altro a chi già stimava i personaggi coinvolti, ma che di certo non potrà attrarre nuovi ascoltatori. Un'occasione parzialmente mancata, quindi, che tuttavia contiene almeno due gran bei pezzi (Final Call e Mayday) ed altri quattro più che degni di un ascolto. Provatelo.




Black Market Militia - Black Market Militia

giovedì 5 febbraio 2009

SENTENCES - THE LIFE OF M.F. GRIMM

In genere non amo linkare a siti esterni perché è raro che il materiale trovato lì abbia un valore tale da richiedere un ennesimo ed inutile post. Tuttavia, in quest'occasione farò un'eccezione: su T.R.O.Y. potete trovare la versione scansita del fumetto autobiografico di M.F. Grimm (e dannazione a me che non ho comprato per tempo Downfall Of Iblys!), da visualizzare su computer mediante un apposito software (per il Mac serve FF View, che è scaricabile gratuitamente da QUI).
Oltre a trovare il fumetto esteticamente valido, è la storia in sè ad essere estremamente interessante. Vi consiglio perciò di leggerlo e, se vi piace, di comprarlo e non fare i robbosi con le pagine stampate in ufficio. Io l'ho fatto.

HOSTYLE - ONE EYED MANIAC (Hydra, 2004)

"Industry rule #4080: record company people are shaaady, baby!": questo è il primo sorridente pensiero che uno potrebbe fare guardando la tracklist di questo "solista" di Hostyle, oriundo del Queensbridge e già membro prominente degli Screwball. Il motivo è semplice: nel 60% delle tracce si può assistere ad un riciclo -parziale o completo- di canzoni e strofe apparse in precedenza in album degli Screwball, oscuri 12" (Beat 'Em In The Head è del '97) ed ospitate su pezzi altrui. E quanto al restante 40% credo che sia composto in larga parte da rimasugli di sessioni di registrazione precedenti, e solo una microscopica quantità di beat e rime mi pare pensata ad hoc per essere quantomeno dei singoli.
Si può dunque parlare dell''ennesima irrispettosa vampirizzazione del repertorio di un artista dopo che questi ha lasciato l'etichetta? Forse si può vedere così, ma se andate a leggere questa intervista vi potrete rendere conto di quanto le cose siano un po' meno losche del solito, perlomeno per quel che riguarda il ruolo giocato dalla Hydra. Inoltre va detto che Jerry Famolari -A&R e produttore esecutivo del disco nonché presidente della Hydra- contrariamente a molti suoi colleghi (Puff Daddy?) ha comunque saputo operare una selezione ragionevole che in fin dei conti non brucia la reputazione del diretto interessato, riuscendo anzi a dare una panormaica abbastanza completa del MC in questione.
Oddio, in realtà non che fare ciò sia poi così difficile: Hostyle è il solito bburino del QB che si mangia le unghie dei piedi e piscia nel lavandino, e le sue rime riflettono per filo e per segno questo modus vivendi; ciò che lo rende particolare è l'avere uno stile ed una voce immediatamente riconoscibili che, combinati con una tecnica piacevolmente rozza, lo rendono un ascolto senz'altro interessante. In effetti, se ciò di cui parli sono sparatorie, risse, droga alcol e puttane allora le uniche cose che possono elevarti sopra alla miriade di cloni sono stile, personalità e -volendo- credibilità (e a uno che ha perso un occhio per via di una fucilata cosa gli vuoi dire?).
E di certo avere uno come Godfather Don che ti produce il 90% del disco (Ayatollah, Emile, Mike Heron e A Kid Called Roots sono gli altri) ti aiuta non poco. Tuttavia mi spiace notare come il sound del Don più classico sia presente solo in due terzi delle sue produzioni; alcuni beat tendono all'uptempo/tamarro e dell'evocatività tipica del suo suono non hanno nulla e sono bruttozzi tout court (How That Is, This Ain't No Game), mentre altri sono anche carini (N.O.W., Love And Hate, Clap Your Hands) ma in tutta franchezza non hanno un granché di speciale. Per fortuna, però, ci sono autentiche manate che non mancheranno di soddisfare ampiamente i fan degli Screwball così come gli aficionados del hardcore nuoirchese: You Know The Name è senz'altro il pezzo migliore dell'intero assortimento, e la combinazione tra archi, giro di chitarra funk e ritornello scratchato fornisce una base più che solida per le lirche di Hostyle. Be Careful What You Wish For è Godfather Don al 100%, nel senso che i suoni campionati sono stati effettati al punto tale da renderne difficile l'identificazione, e ciò nonostante non sanno di plastica come pure spesso avviene in casi analoghi; Somethings Gotta Give, Street Life e Guilty saranno pure già sentite ma continuano a funzionare più che egregiamente, mentre Nitroglycerin e Love And Hate segnano un accenno di svolta stilistica nel repertorio di Godfather Don piuttosto interessante. Il resto delle tracce -incluse quindi le opere di Ayatollah, Mike Heron e compagnia bella- sono un ottimo contorno che, pur non aggiungendo nulla di significativo ai piatti principali, li complementano perfettamente e rendono One Eyed Maniac degno di essere ascoltato senza eccedere in skippate.
Liricamente, come già accennato, l'unico elemento di originalità è lo stile di Hostyle: pur non essendo certo un Pharoahe Monch, egli gioca abbastanza con entrate e uscite decidendo se e quando andare fuori battuta; l'estendere e l'enfatizzare la pronuncia di certe sillabe lo aiuta in ciò, e contrariamente a quanto qualcuno possa pensare questo non è un trucchetto da du' lire per compensare eventuali incapacità (sapete, Kanye West...) bensì una sorta di alternativa ai tradizionali adlib. Ciò detto, è palese che se uno non gradisce il tamarrume più profondo è inevitabile che detesterà dalla prima all'ultima traccia di questo LP, visto che il Nostro è del tutto privo di sbocchi "maturi" à la Cormega o Tragedy Khadafi (e se pensiamo che l'ospite più chic è R.A. the Rugged Man penso che non vi sia bisogno di aggiungere altro), ma gli altri troveranno sicuramente diverse chicche da giustificare più ascolti in loop.
Che dire, dunque? Inizialmente deluso da quest'album -tanto che non lo comprai nemmeno per puro collezionismo- ebbi poi una seconda chance di ascoltarlo dopo averlo comprato di seconda mano, e alla seconda volta l'impressione fu più favorevole. Via via che son passati gli anni ho poi imparato a gustarmelo fino in fondo e, per quanto sia un progetto creato a fusione fredda e per quanto non sia nulla per cui valga la pena di strapparsi i capelli, io tre zainetti glieli do tranquillamente.




Hostyle - One Eyed Maniac

mercoledì 4 febbraio 2009

STRICTLY 4 MY D.I.G.G.A.Z.

A causa di una serata impegnativa oggi non recensirò alcunchè. Tuttavia, essendo un genio, ho scovato -ma dubito d essere l'unico- questa meravigliosa pagina contenente una miriade di perle degli anni '90 che non potete assolutamente farvi sfuggire: Strictly 4 My D.I.G.G.A.Z.

martedì 3 febbraio 2009

IO PREVEDO CHE...

...questa immonda porcheria, creata da delle scarse merdine destinate ad un futuro nella macelleria del padre e a tirate di coca nei privé di discoteche di provincia, e d'altronde del tutto adatte per un pubblico composto da scimmie urlatrici come quello italiano, presto vedrà qualche rapper "di spicco" della nostra scena ergersi a sua difesa. Volevo solo dirvelo.

A parte questo, per rifarvi le orecchie vi segnalo il nuovo pezzo dei Cunninlynguists, bello come al solito: Never Come Down (via NahRight)

THE GIFT OF GAB - 4TH DIMENSIONAL ROCKETSHIPS GOING UP (Quannum/Epitaph, 2004)

Presumo che tutti gli habitué del blog conoscano i Blackalicious, ma per chi dovesse sentire questo nome per la prima volta faccio un sintetico riassunto: sotto questo nome si celano Chief Xcel (produttore) ed il paciocchissimo & cicciobomboloso Gift Of Gab (MC), entrambi di Los Angeles; dal '94 ad oggi hanno pubblicato due EP e tre LP dei quali il più acclamato dalla critica nonchè commercialmente soddisfacente è Blazing Arrow. Il loro stile si contraddistingue sia per l'estrema ricercatezza musicale di Xcel, che trae dal funk la sua maggiore ispirazione, che per la destrezza metrica di Gift Of Gab ed i contenuti dei suoi testi -bollabili secondo l'uso comune come "conscious" e "preso bbene".
Posso dire una cosa, ora? Per quanto possegga tutti i loro LP e per quanto apprezzi di tanto in tanto ascoltare Blazing Arrow (che concordo nel definire un ottimo disco), i due non mi hanno mai convinto del tutto. Innanzitutto perchè l'indubbia positività che esprimono musicalmente alle volte mi asciuga; poi perchè Gab spesso usa ultraenfatizzare l'ultima sillaba della parola con qui chiude la rima; ed infine perchè per quanto riconosca il talento di Xcel alle macchine -impossibile non farlo- capita che il suo sound sia un po' troppo fricchettone/alternativo per i miei gusti. Intendiamoci, la mia non è una critica oggettiva, e del resto sono convinto che i loro album siano degni di essere ascoltati da chiunque perchè se ne può solo imparare (beh magari non The Craft). Più semplicemente, hanno quelle tre peculiarità di cui sopra che non m'aggradano e ciò fa sì che salvo in rari momenti mi lascino freddo.
Ciò detto, non dovrebbe stupire che a me, contrariamente a molti fan dei Blackalicious, il solista di Gift Of Gab sia piaciuto, e parecchio. I motivi sono semplici e sono speculari alle mie precedenti obiezioni: i beat sono più tradizionali, lui non enfatizza tanto e dopotutto il flowerpowerness non è più forte che in altri casi. Sgomberato infatti il campo dai nomi coi quali era uso collaborare, primo fra tutti Chief Xcel, Gab affida tutte e quindici le produzioni agli oriundi di Seattle Jake One e Vitamin D, in quel 2004 molto produttivi specialmente sulla costa pacifica. Questi hanno uno stile la cui matrice è analoga e si fonda principalmente su una grande pulizia del suono, bassi belli pieni, batterie schioccanti e brevi campioni loopati decisamente orecchiabili: un tappeto sonoro ideale per chi, come il Nostro, ha una tecnica molto elaborata e serrata e che in virtù di ciò "funziona" tanto meglio quanto più il beat è regolare e la melodia cadenzata. Ad esempio, The Ride Of Your Life gira pressochè interamente sull'accoppiata tra le rime (qui sì cadenzate) di GoG e la combo tra arpeggio e gli archi effettati che conferiscono una melodia al tutto: più un'intro che un pezzo vero e proprio ma sufficiente a dare una prima idea di ciò che ci troveremo di fronte nelle successive tracce. Ma l'impressione è solo parzialmente corretta: spesso Gabbo preferisce utilizzare beat dal ritmo staccato, come ad esempio Stardust, The Writz, Ride On e Just Because, ed anche in questi casi si può notare come il suo stile riesca a sposarsi bene con la produzione di turno (anche se talvolta le due cose paiono viaggiare su strade parallele, come in Stardust, il risultato curiosamente non è negativo).
Ora: dire che Gift Of Gab sia tecnicamente bravo è scontato nonché inopinabile, e penso che persino i suoi più fanatici detrattori dovranno accodarsi ai fan dopo aver sentito Evolution o The Writz, ma devo sottolinare che spesso è portato ad enfatizzare troppo il lato stilistico a favore scapito degli eventuali contenuti. Questi, infatti, ad esclusione di In A Minute Doe (una sorta di seguito ideale di First In Flight) non si possono dire particolarmente originali nè nella scelta delle tematiche né nella loro esposizione. Il classico pistolotto nostalgico? C'è e s'intitola -reggetevi forte- Flashback. Il braggadocio? C'è e abbonda nelle forme di Just Because, The Writz e Evolution. L'ode alla biatches, pardon, queens? Ovvio, To Know You è lì per questo. Insomma, mi fermo qui per concludere che per quanto venga definito una cima di scrittura e di lucidità, quà l'aspetto non viene fuori più di tanto.
Fortunatamente la cosa passa in secondo piano nel momento in cui ci si accorge che -secondo me più che nei lavori dei Blackalicious- la musica di 4th Dimensional Rocketships Going Up (un titolo che nemmeno la Lina Wertmüller dei tempi d'oro avrebbe azzardato) riesce ad intrattenere l'ascoltatore pressoché senza pause (l'unica è Real MC's, francamente inutile). Il concetto di "feel-good-music" inaugurato nel rap ormai tre lustri or sono rivive in questo lavoro, che consente sia un approccio attento -e a parte i difetti sopraelencati si possono notare svariati aspetti positivi- che uno più rilassato. Musica da presi bene? Stavolta senz'altro sì.




The Gift Of Gab - 4th Dimensional Rocketships Going Up

VIDEO: RAT RACE

lunedì 2 febbraio 2009

MR. LIF - I PHANTOM (Def Jux, 2002)

Voi penserete che l'assenza di pubblicazioni da giovedì sia frutto di un'elaborata strategia di marketing per lasciare in risalto l'Encores: ebbene, non è così. Il motivo, estremamente più prosaico, è uno solo: sto letteralmente in gaina con Fallout 3, al punto che sabato sera, pur avendo sul groppone un tot di Supertennent's, una volta tornato a casa mi sono piazzato davanti alla tivvù restandovi fino alle tre e qualcosa di notte. Potete dunque immaginare quanto tempo dedichi all'ascolto degli ultimi dischi da me comprati; purtroppo, sono questi che tendenzialmente preferisco recensire, in quanto dei più vecchi o è già stato detto tutto (e mi annoio a fare la recensione-riassunto) oppure erano e restano delle ciofeche immonde (venerdì mi son portato dietro Lord Tariq e Peter Gunz ma non ho avuto nemmeno il coraggio di inserirlo nel lettore).
E allora perchè Mr. Lif, che rientra a pieno titolo nella categoria dei "reviewer's favorites" al punto tale che dispone financo di un riferimento su Metacritic? Beh, perchè I Phantom è un concept album, e a me i concept album fanno 'mpazzì a prescindere. Oltretutto, al contrario di altri generi, il rap è piuttosto lacunoso per quanto riguarda questa struttura narrativa: se si tolgono Prince Among Thieves di Prince Paul, il sublime Fall Of Iblys di MF Grimm ed il solista di Sticky Fingaz non mi risulta che negli ultimi dieci anni sia uscito molto altro materiale di questo genere. Eppure, devo dire, pressoché tutti gli exploit del genere mi hanno sempre soddisfatto; un po' perchè è l'idea stessa a piacermi incondizionatamente, ma soprattutto perchè per fortuna coloro che hanno giocato questa carta sono MC/scrittori piuttosto talentuosi, e Mr. Lif rientra a pieno titolo in questa categoria.
Difatti, Jeffrey Haynes è, lo ripeto per i distratti, un MC che sa il fatto suo e che riesce a sfruttare pienamente una metrica in sè abbastanza ortodossa attraverso un uso esteso del vocabolario inglese e delle indubbie capacità di narratore. A ciò va ad aggiungersi un'evidente intelligenza applicata ad una forte coscienza sociale, il che poi va a tradursi in osservazioni pungenti, ironia e polemica di alto livello. Indi per cui, se da un lato non si può dire che egli sia dotato di "a hundred styles, cento stili" (per usare le immortali parole di Rae), è altrettanto certo che Lif sa sfruttare appieno la combinazione sussistente tra precisione metrica, abilità narrativa e ampio vocabolario.
Proprio per questa sintesi I Phantom risulta un concept album dotato di solide fondamenta, il che è essenziale per non scadere nell'autocompiacimento estetico che in altri casi pareva essere l'unica possibile conclusione del genere (qualsiasi riferimento all'Alan Parsons Project è naturalmente casuale). Arrivando al punto, il tema principale è fondamentalmente uno solo -e cioè l'alienazione dell'individuo indotta dal suo vivere in un sistema di stampo ultracapitalista e sostanzialmente decadente- ma nel corso dell'album tutte le sfaccettature del problema vengono affrontate seguendo le peripezie di un personaggio fittizio che attraversa tre fasi: onirica, reale, ed infine ipotetica/immaginaria. Questa successione è fedelmente rispecchiata dalla tracklist, che vede le prime tre tracce occuparsi del sogno, seguite poi da sette canzoni in cui si analizzano "sul campo" le difficoltà dell'individuo ad orientarsi nell'odierna società e, in chiusura, gli ultimi quattro pezzi dove via via ci si distacca dalla narrazione più strettamente biografica per giungere infine all'olocausto nucleare. Ovviamente non posso entrare nel dettaglio più di così, sicché ho scansito la parte del booklet in cui Lif fornisce una traccia per meglio seguire il suo racconto (la trovate QUI); il mio compito consiste ora solo nel verificare che tutto fluisca correttamente.
E allora, a voler essere onesti, qualche intoppo c'è: l'ambizione di ricreare in musica la struttura di Magnolia (nientemeno!) risulta purtroppo -e forse prevedibilmente- molto confusionaria ed in fondo inconcludente, così come The Now risulta eccessivamente lunga rispetto al peso narrativo della vicenda all'interno del contesto generale (è una sorta di ponte tra due momenti del racconto, stop). Analogamente, Iron Helix cerca di spostare definitivamente il peso narrativo dalla parte biografica a quella "ipotetica", ma in sè e per sè il modo in cui avviene è un po' pretestuoso; al posto di inscenare una sorta di incontro tra uomo puro e uomo corrotto che salta fuori dal nulla, così, BAM!, Lif avrebbe potuto tentare di collegare la storia del personaggio principale a ciò che seguirà. Forse sarebbe stato più prevedibile, certo, però la coerenza sarebbe stata maggiore ed inoltre il vero punto debole del disco (il passaggio tra realtà a immaginazione) verosimilmente non sarebbe esistito.
Ciò detto, presi singolarmente i pezzi hanno tutti un loro perchè ed anche quelli un po' più "forzati" (Iron Helix, ad esempio) girano che è un piacere. Live From The Plantation, Success, Return Of The B-Boy e Post Mortem sono i pezzi da 90 di I Phantom e ciò è dovuto in equa misura alla scrittura di Lif ed alle produzioni. Alle macchine si alternano principalmente El-P, Insight e Fakts One ma i loro contributi sono comunque piuttosto variegati; in tal senso, se alla coerenza della struttura narrativa non fa eco un'altrettanto coerente tappeto sonoro, il vantaggio è che l'ascolto prosegue più elasticamente che non se si fosse optato per la creazione di una vera e propria colonna sonora. Certo, com'è prevedibile nell'album non si troverà traccia di produzioni radio-friendly, ma persino lo spiccato stile futurista di El-P viene influenzato da una maggior regolarità nei suoni e va così a creare un riuscito ibrido tra il suono Def Jux di quegli anni ed il boombap più classico. In tutta franchezza non trovo particolari cadute di stile sul versante dei beat, ad eccezione forse di Status, che però vuole essere una robetta a budget zero, per cui...
Concludendo, non posso certo dire che I Phantom sia un prodotto per tutti - e del resto è una fortuna che sia così. Di sicuro c'è che in termini puramente narrativi questo è il capolavoro di Lif nonchè una delle cose più interessanti degli ultimi anni; è un peccato solamente il fatto che da un lato vi sia qualche intoppo nella strutturazione del racconto, e dall'altro che i beat non riflettano sufficentemente bene quest'ultima. Ciò detto, però, I Phantom è un ascolto obbligato per chiunque sia alla ricerca di argomenti interessanti e cultura hip hop sic et simpliciter.




Mr. Lif - I Phantom

VIDEO: LIVE FROM THE PLANTATION