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mercoledì 10 giugno 2009

JEDI MIND TRICKS - VIOLENT BY DESIGN (Superegular, 2000)

[continua la settimana dei quattro e mezzo...]

Devo ammettere che scrivere una recensione di Violent By Design è forse una delle cose più inutili che abbia fatto, seconda forse solo al discutere di politica con un elettore di Forza Italia. Essendo un disco relativamente giovane ed essendo gli autori ancora in circolazione, la memoria collettiva lo registra ancora come pienamente in vita e ciò significa che, specialmente tra gli sbarbi, non condivide la sorte di un Nation Of Millions, che oramai è ricordato emotivamente solo da trentenni mentre i nati dopo l'88 quando va bene lo menzionano esclusivamente a mo' di voce enciclopedica. No: Violent By Design è vivo e lotta con noi.
Ora, per quanto il mio approccio verso il rap sia molto cambiato dal 2000 ad oggi e così anche la percezione che ho del suddetto album, non posso nascondere che nei miei diciannove anni il primo ascolto di VBD fu al contempo una rivelazione ed una speranza. Una rivelazione perchè non confidavo che vi potesse essere più una sorta di rinascita del suono del Wu, ed una speranza perchè nel pieno dell'era dei Ja Rule e dei Juvenile finalmente riuscivo a vedere un'uscita dal tunnel. Gli MC erano assolutamente aggressivi, urlavano nel microfono con voci roche e si alternavano con grande naturalezza, facevano riferimenti che si distaccavano dalle solite du' palle di Money Cash Hoes e, soprattutto, l'allora per me sconosciuto Stoupe donava loro un beat più potente ed evocativo dell'altro. In altre parole, più che semplice musica i JMT sapevano creare atmosfere che in un qualche modo ti lasciavano qualcosa, soddisfazione per avere tra le mani della bella roba hardcore in primis. Probabilmente se lo ascoltassi oggi, al netto delle circostanze dell'epoca (e non mi riferisco solo all'imberbe età), resterei molto meno impressionato; ma vi garantisco che allora e per i successivi due-tre anni ogni rotazione a cui sottoponevo VBD me ne faceva scoprire l'ennesimo bel aspetto.
Ma, appunto, oggi? Beh, la cosa più onesta che possa dire è che questo è l'ennesimo esempio in cui si capisce che il rap è prima di tutto il risultato della fusione di più parti e che, forse più di qualsiasi altro genere, rappresenta un caso in cui la musicalità può sopravanzare l'aspetto contenutistico senza perdere nulla. Anzi. Perchè dai, ammettiamolo: non solo Jus e Vinnie non esprimono nulla di remotamente significativo in nessuna delle canzoni, bensì il 90% delle volte a prenderli sul serio fanno ridere. Ciò che li rendeva unici è forse il loro aspetto più ludico: la fusione di estetica gore-deathmetallusa, i riferimenti campati in aria ad antiche religioni così come ad un islamismo d'accatto, la loro infantile omofobia e le solite vuote minacce da abbaioni sono materiale che, se uno ha appena il QI sufficente per mettersi le dita nel naso, dovrebbe far stramazzare al suolo dalle risate persino l'anima più bigia. Eppure tutto questo ammasso di coglionerie funziona alla meraviglia grazie alla forma in cui esso s'esprime, in maniera non dissimile da ciò che avviene per certi film che tu SAI essere delle stronzatone col botto ma che nonostante ciò sanno lasciarti più soddisfatto che l'equivalente "serio". In breve, Violent By Design è quella che gli anglosassoni definiscono una "guilty pleasure". E, sia ben chiaro, quando siamo a questi livelli, ben venga.
Ma per entrare un po' più nel dettaglio, qual è l'impianto "tecnico" che riesce a sorreggere cotanto vuoto pneumatico? Mi rispondo da solo e comincio col citare i beat. Ah!, i beat! Spesso posto in relazione al 4th Disciple del primo album dei Killarmy, Stoupe forse non ne è una emanazione diretta ma certamente ha un approccio simile sia per quel che riguarda la scelta dei campioni che per ciò che concerne il saper condire tutto con materiale non strettamente inerente al beatmaking (mi riferisco fondamentalmente ai dialoghi dei film qui campionati negli skit). Le fonti sono principalmente rintracciabili nelle colonne sonore/classica e nel soul, laddove comunque siano presenti archi di vario genere e pianoforti. Vedi ad esempio il singolo Heavenly Divine, che usa benissimo un violino solista misto ad un campione di flauto di pan; analogamente, Sacrifice usa un'intera sezione di archi mescolandola ad un bervissimo loop di chitarra e pianoforte. Più "tradizionali" sono il remix di Five Perfect Exertions (che ricorda alla lontana Never Gonna Come Back dei Gravediggaz), l'ottima Retaliation (con un bel scratch tratto da Cross My Heart di Killah Priest) e la bonus track War Ensemble col suo sano campione di Stevie Wonder. Per ciò che concerne invece la classica e le colonne sonore, che nel futuro del gruppo prenderanno sempre più piede dopo la "pausa" di Visions Of Gandhi, abbiamo da un lato Albinoni (Trinity) e dall'altro campioni tratti da Il Tredicesimo Piano (film discreto, peraltro) e Rosemary's Baby che, ovviamente, conferiscono un tocco di epicità con estrema facilità.
Ci sono poi anche sample più tradizionali -Contra, Speech Cobras e Deer Hunter su tutti- che, contrariamente a quanto avverrà nel futuro, contribuiscono enormemente alla varietà dell'insieme; perchè se questo è reputato essere il miglior album dei Jedi Mind non è solo per questioni di qualità intrinseca delle varie canzoni, ma anche perchè tutti gli altri soffrono di un'atmosfera monotona dovuta principalmente al pescaggio dei campioni attuato nella stessa "cesta" di dischi. L'equilibrio mostrato da Stoupe, invece, qui è pressochè perfetto sia nei ritmi che nel mood, ed esso si può notare anche e soprattutto anche a distanza di tempo. Insomma, la peggior cosa che si possa dire delle basi di Violent By Design è che non sono innovative: ma come in altri casi l'unica risposta che si può dare ad una simile affermazione è "sticazzi".
Per quel che riguarda invece l'emceeing francamente non mi va di perdere tanto tempo sui, ehm, "contenuti. Più importante è invece rilevare che Vinnie e Jus, pur appartenendo alla medesima estrazione in quanto a metrica, si alternano molto bene al microfono grazie alla diversità tre le rispettive voci; credo che l'esempio migliore di ciò si possa ritrovare nell'ultima strofa di Heavenly Divine, dove c'è un incessante passaggio di microfono che avviene con una naturalezza oggettivamente encomiabile. Ma in teoria ciò non basterebbe per digerire l'intera portata (sì, insomma, voci a parte direi che sono abbastanza intercambiabili), ed allora ecco che entrano in gioco i featuring. C'è di tutto: dalla prima formazione degli Army Of The Pharaohs (quindi con Bahamadia e Virtuoso) al Queensbridge, rappresentato da Tragedy e Killa Sha, passando naturalmente per l'underground di Philadelphia (Chief Kamachi, Diamondback, Planetary), Boston (Mr. Lif, Eso & Virt) e New York (Louis Logic, L-Fudge e J-Treds). Ebbene, queste ospitate funzionano a meraviglia e per quanto siano oggettivamente numerose riescono comunque a non risultare intrusive al punto di scordarsi chi siano effettivamente i protagonisti principali.
In chiusura, quindi, VBD è un'opera secondo me discutibile per molti versi ma che comunque alla fine risulta potente. Lo ascolti e pensi che alla fin fine di rap simile ce ne vorrebbe di più, magari con un pizzico di retrocultura trash in meno, ma vabbe'. Lungi dall'essere perfetto, dunque, la seconda opera dei JMT rientra però a pieno titolo tra i dischi fondamentali della prima decade del nuovo millennio, vuoi anche solo per l'influenza esercitata sull'underground "bianco" esploso a partire dal 2000 in poi. Da ascoltare? Certo. Da avere? Naturalmente. Cinque microfoni? No, ma quattro e mezzo -meritati perlopiù per via delle basi- senz'altro.





Jedi Mind Tricks - Violent By Design

giovedì 22 gennaio 2009

JEDI MIND TRICKS - SERVANTS IN HEAVEN, KINGS IN HELL (Babygrande, 2006)

Quando penso ai Jedi Mind Tricks oramai mi vengono in mente solo due termini: "bravi" e "macchiette", due termini concettualmente così distanti tra loro che penso possano dare un'idea della costante dicotomia che li accompagna fedelmente dai tempi del loro ultimo disco apprezzato dal grande pubblico, il superbo Violent By Design, risalente a quasi nove anni fa. In questo lasso di tempo i nostri eroi hanno avuto il modo sia di creare album discutibili (e mi riferisco più a Legacy Of Blood che a Visions Of Gandhi, per non parlare del recente e squallidotto History Of Violence), sia di crearsi una nicchia di fan fedelissimi per i quali tutto ciò che il duo di Vinnie e Stoupe tocca è oro colato. Le due scuole di pensiero mi vedono indistintamente scettico: diciamo che da un lato ho oramai abbandonato la speranza che riescano a riproporre qualcosa di paragonabile a VBD, eppure dall'altro non li reputo incapaci di saper proporre sorprese com'è stata questo Servants In Heaven, Kings In Hell. Si tratta solo di saper trovare il giusto equilibrio tra il lato più infantilmente grezzo di Vinnie e quello più maturo, così come a fargli da sponda dev'esserci uno Stoupe capace di muoversi agilmente tra sonorità latineggianti ed atmosfere epiche senza pendere troppo da nessuno dei lati. E, per l'appunto, mentre questo equilibrio era venuto a mancare nei due album che lo hanno preceduto così come in quello che lo ha succeduto, in SIHKIH tutti i palati potranno gustare qualcosa del menu offertoci dai Jedi Mind.
La prima cosa apprezzabile del pacchetto è l'evidente voglia di Vinnie di spingersi oltre la solita noiosetta tamarrìa mediante alcuni pezzi contenutisticamente più focalizzati e meglio strutturati. In Razorblade Salvation, ad esempio, troviamo abbondanti indicazioni della sua personalità in quanto si tratta di una lettera aperta a sua madre nella quale va a toccare in modo piuttosto profondo l'ipotesi del suicidio (precedentemente accennata in Before The Great Collapse) ed i motivi per i quali, a ben pensarci, non ne vale poi tanto la pena. Analogamente, in Black Winter Day il Nostro ci regala un autoritratto parecchio critico nel quale fa piacere notare un'umiltà di fondo nonchè un certo altruismo del quale finora nemmeno i fan più accaniti avevano visto traccia. Ma non tutto è emo, qui: la critica socioeconomica trova uno sbocco nella buona Shadow Business, in cui va ad esaminare la realtà delle condizioni sociali dei lavoratori del secondo e del terzo mondo; mentre l'eccelsa Uncommon Valor offre all'ascoltatore uno storytelling ambientato nel Vietnam in cui un soldato si chiede -fondamentalmente- i motivi per cui si trovi lì lamentandosi della situazione in generale e della disonestà del governo (qualsiasi riferimento alla situazione odierna è puramente casuale).
Per il resto, detto onestamente, Vincenzino ripercorre fedelmente il cammino tracciato fino a quel momento: viulenza, ghettusaggine assortita, riferimenti biblici sparsi e l'occasionale frecciata anticristiana. Tutto ciò sa inevitabilmente di già sentito, ma se preso a piccole dosi funziona ancora bene soprattutto perchè dopo alcune débacle precedenti il Nostro ha ben pensato di riaffinare la sua tecnica e la sua metrica, le quali ora non saranno al livello di un Pharoahe Monch ma almeno qualche intreccio in più lo contengono. Certo, basta conoscere bene le opere dei JMT per indovinare come verrà chiusa la barra ed in che momento farà una pausa, ma questo è un difetto non esclusivamente ascrivibile a Vinnie e pertanto me la sento di relegarlo in secondo piano. Per di più, la definitiva salvezza sul fronte lirico viene anche dagli ospiti: non molti ma ben scelti, e dunque anche quando Ill Bill delude per assoluta mancanza di personalità in Heavy Metal Kings, ci sono comunque altri a fargli degnamente da contrappesi. Primo fra tutti R.A. The Rugged Man, che in Uncommon Valor regala alla storia la miglior strofa in assoluto del 2006 raccontando dell'esperienza del padre come mitragliere di bordo di un elicottero; Chief Kamachi ritorna ospite dei JMT dopo l'esordio su Violent By Design e lo fa nel migliore dei modi possibile, seguito a ruota da Reef The Lost Cauze e dal sempre valido Sean Price.
La fortuna dei singoli pezzi, poi, oltre alla variabile "featuring" e la questione dei contenuti interessanti, dipende in larga misura da Stoupe, il quale come sappiamo è capace di creare capolavori così come di produrre merdine concepite col pilota automatico innestato. Per fortuna, in SIHKIH il Nostro si è dato molto da fare e così ecco che già alla prima canzone vera possiamo apprezzare il lungo loop di sitar (o mandolino, sarcazzo) intervallato da singole note di piano reminescenti di Contra, il tutto incoronato da precisi cut di Big Pun, Jay-Z e Prodigy. Uncommon Valor invece si regge pressochè unicamente su batterie relativamente lievi ed un azzeccatissimo campione di coro femminile, di raro gusto e malinconico esattamente quanto quello italiano adoperato per Shadow Business (archi pitchati, suppongo); ma giusto quando qualcuno potrebbe pensare che stavolta Stoupe abbia del tutto abbandonato i campioni orchestrali, ecco che arrivano Heavy Metal Kings, Outlive The War e Gutta Music. La prima non stonerebbe se inserita in un colossal pacchiano con Charlton Heston e certamente non deluderà i fan del suono più roboante del duo di Philadelphia; la seconda invece si colloca a metà tra il barocco ed il folk messicano grazie al bizzarro incrocio tra canto da madrigale e suoni di nacchere, e stranamente funziona molto bene; la terza, infine, è una delle più belle collabo mai messe in atto dai Jedi Mind. Vinnie, Kamachi e Reef danno il loro meglio su un loop di archi spezzato da un sample vocale maschile che, una volta appoggiato sopra a batterie la cui strutturazione viene accantonata a favore della potenza, contribuiscea creare una delle tracce meglio riuscite dell'intero album -oltrechè uuna delle più correttamente intitolate. Valida anche Serenity In Murder, principalmente per l'ottimo break di batteria e l'eccellente linea di basso.
Purtroppo non tutto è rose e fiori, e anche stavolta Stoupe cade nel tranello della scialberia: con Suicide ricicla il solito beat propinatoci ormai innumerevoli volte da Visions Of Gandhi in poi; When All Light Dies è in sè e per sè ascoltabile ma non aggiunge nulla di particolarmente significativo alla discografia del gruppo, destino peraltro condiviso dall'insignificante beat di Black Winter Day e da quello altrettanto "meh" di Razorblade Salvation. Stupisce, in un certo senso, come un beatmaker abile come egli effettivamente è non si renda conto di quando non sta facendo altro che riscaldare male la minestra. Nullo contro l'avere uno stile, per carità, ma davvero alcune cose possono essere riproposte e riaggiornate mentre altre è meglio lasciarle stare lì dov'erano (e mi riferisco all'80% dei beat latineggianti di Visions Of Gandhi).
Bene, tiriamo le somme: cominciamo col dire che Servants In Heaven Kings In Hell non è di certo il miglior disco dei Jedi Mind Tricks. Non illudetevi, non ha né la varietà ne la qualità d'esecuzione del loro capolavoro: per cui mettetevi l'animo in pace. Però, questo sì, è senz'altro la loro seconda miglior opera; essa distacca di centinaia di spanne qualsiasi altro loro lavoro, a partire dal pessimo History Of Violence per passare al sopravalutato Legacy Of Blood per giungere infine al nemmeno troppo infimo Visions Of Gandhi (il Psycho Social Album lo tengo fuori da questa lista per questioni di età). In ultima analisi, a fronte di certi loro limiti -primo fra tutti un certo barocchismo nel suono, nelle tematiche e nei titoli- SIHKIH è comunque una conferma della loro coerenza artistica (anche se talvolta pare quasi autismo musicale) oltreché un contenitore di alcune perle da ascoltare come dio comanda. Il voto finale sarebbe da tre e mezzo ma, posto che vi piaccia il genere, quattro zainetti opportunamente arrotondati verso l'alto forse se li merita. Fate voi.




Jedi Mind Tricks - Servants In Heaven, Kings In Hell

VIDEO: HEAVY METAL KINGS