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mercoledì 10 febbraio 2010

SEAN PRICE - JESUS PRICE SUPERSTAR (Duck Down, 2006)

Avrete notato come di solito non mi preoccupi di tenere a freno la mia tracotante prolissità, specialmente quando scrivo di musica che mi piace. Ma stavolta il discorso è diverso, e tale deve essere per un semplice motivo: Jesus Price Superstar non è altro che un «Monkey Barz 1.1», ossia una replica del format che ha reso un successo l'esordio solista del beneamato Sean Price. Più specificamente, anche in questa occasione troveremo tutto il carisma di Pü! nelle sue varie manifestazioni -metarap, viulenza, humor ecc.- esattamente come avveniva in Monkey Barz, solo che cambierà la forma sia nei testi che nei beat ("e grazie al cazzo", direte giustamente voi). Insomma, se vi è piaciuto il predecessore vi piacerà anche questo, altrimenti no. Punto.
Ora, generalmente sarei propenso a cassare senza pietà una simile operazione fotocopia, ma si da il caso che a conti fatti Jesus Price Superstar corrisponda esattamente a quello che il Nostro deve fare, ossia rap di puro intrattenimento. E, francamente, una persona che si dimostra capace di partorire uscite brillanti come "You're supposed lie to the cops and tell the truth in the booth/ Instead you tell the truth to the cops and lie in the booth" oppure "My man said he heard me on Mister Cee/ Yeah, that's cool but it don't equal chips to P/ The brokest rapper you know sell crack after the show/ With a fo'-fo' that'll blow back half your 'fro", dimostra di saper fare il suo mestiere; criticarlo per la scarsa innovazione mi sembrerebbe fuori luogo. Oltretutto, nei limiti del possibile la sua tecnica è migliorata sia per la qualità delle rime che per i piccoli accorgimenti che rendono Pü! di diverse spanne superiore ad altri suoi colleghi, cioè le pause ad effetto, i giochi di parole e via dicendo. Insomma, senza menarla troppo per le lunghe posso dire che JP Superstar è una manna per qualsiasi appassionato di liriche. Punto. Il Nostro dimostra la sua bravura, fa venir voglia di riascoltare molte delle sue barre e al di là del meritarsi il nostro plauso spesso e volentieri ce fa ride.
Il che è cosa buona, perchè purtroppo l'apporto dei vari beatmaker è sì meno altalenante rispetto a Monkey Barz, ma al contempo risulta più insipido; i vari 9th Wonder, Khrysis, MoSS, Illmind ecc. non riescono difatti a spingersi oltre la media personale, cosicché alla fine è vero che non corriamo il rischio d'imbatterci in sconcezze come Fake Neptune, ma purtroppo è anche vero che di Onion Heads o Bye Byes non c'è nemmeno l'ombra. Il che è ovviamente un peccato, perchè essendo Pü! capace di salvare un beat di qualità mediobassa, nel suo caso (in realtà sempre) preferisco avere una qualità generale ondivaga che magari mi porta a premere «FF» due o tre volte, ma che in altrettante occasioni genera in me spasmi muscolari all'altezza della nuca. E qui invece ci troviamo nel reame del "caruccio" con qualche guizzo di vita nei casi di Like You (10 For The Triad evidentemente sa come creare linee di basso gorde, cfr. anche la sua Da God), One (purtroppo troppo breve) e Mess You Made. Niente de che, si capisce, ma pur sempre più degne d'attenzione che non il 9th Wonder/Krhysis in pilota automatico e le relative Let It Be Known, Director's Cut o Stop che ne derivano, ovviamente munite del solito loop di archi d'ordinanza, oramai accettabile solo se sfruttato in maniera davver creativa e non lasciato lì senza variazioni "perchè tanto la melodia c'è". Eddài, sù!
Last but not least, nota di demerito a P.F. Cuttin', il quale ricicla senza vergogna il beat usato per Ice Grillz dei Blahzay Blahzay (lasciandolo pure sul suo Myspace, 'sto fesso!), che sarà pure bello ma insomma...
Concludendo: se prendiamo in considerazione questi aspetti, ci aggiungiamo alcuni ospiti dei quali avrei volentieri fatto a meno (Phonte, Skyzoo, un Sadat X scandaloso e quella disarmante sega di Chaundon), ed infine ci ricordiamo che non c'è nulla di sostanzialmente diverso rispetto a Monkey Barz... boh, devo dirvi quale dei due comprarvi? Poi, certo, se siete come me dei fanboy di Scionpü! fate bene a reperire anche questo; tuttavia spero che -come lascia presagire il gustosissimo Kimbo Price- il suo prossimo disco si distanzi dalla piega presa nella scelta delle basi. Tre e mezzo, via, di cui quest'ultimo è forse un po' regalato...





Sean Price - Jesus Price Superstar

VIDEO: MESS YOU MADE

martedì 17 novembre 2009

COCOA BROVAZ - THE RUDE AWAKENING (Priority/Duck Down, 1998)

Proprio mentre nelle ultime ore si stanno raccogliendo prove che indicano l'ultimo solista di Rakim come una stronzatona col botto -cosa che mi sorprende fino a un certo punto- vorrei prendere una breve pausa dagli anni duemila e tornare indietro di undici anni, in un'epoca un po' meno desolante dal punto di vista del mainstream ma comunque altrettanto foriera di delusioni per l'aficionado nostalgico. Questa tipologia di ascoltatori, nella quale peraltro rientro parzialmente anch'io, è difatti secondo me l'unico trait d'union capace di collegare efficacemente le varie epoche dell'hip hop tra di loro; perennemente insoddisfatti del presente, gli amarcordisti rimpiangono i bei tempi in cui qua era tutta campagna e i treni arrivavano in orario e -ne sono certo- penso che già ai tempi di Kurtis Blow ci fosse qualcuno tra loro che sentisse la mancanza di una vera band che suonasse i beat.
Molti album sono caduti sotto la mannaia critica di questi Ed Gein del rap, e per quanto occasionalmente potessero avere ragione nel cassare la presunta evoluzione artistica di MC Piripacchio, che talvolta compiva un'inversione a 180° rispetto allo stile (e agli obiettivi) precedenti, in almeno altrettanti casi essi hanno avuto torto marcio. Un album diverso non significa necessariamente che sia brutto; e così come It Was Written è senz'altro inferiore a Illmatic ma di sicuro non è la paraculata che si riteneva essere all'epoca, così The Rude Awakening non riesce a replicare i fast di Dah Shinin' ma resta senz'ombra di dubbio un buon album.
Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare: io all'epoca fui il primo a mettere le mani a cono e a gridare "BUUU SIETE DELLEMMEEERDEEE!!!"; di Rude Awakening mi esaltava solo Black Trump e mi piaciucchiava Spanish Harlem, mentre per il resto poteva anche essere usato come sottotazza (infatti non lo comprai). Dov'era finito il suono dei Beatminerz? Dov'erano le atmosfere cupe? Cosa ci facevano dei campioni melodici e puliti? E perchè Tek si lanciava così spesso in strofe cantilenate in semipatois? Insomma: "Che se ne andassero affanculo", mi dissi, e così relegai la cassettina duplicata in un angolo buoi del mio armadio e passai serenamente ad ascoltare altro; poi, diversi anni dopo, in uno di quei momenti dove non esce nulla di degno ma hai voglia di provare a dare una seconda chance a dischi cassati più di cinque anni prima, decisi di includere nel mio tipico pomeriggio revisionista da fancazzaro anche questo Rude Awakening. E mentre altre operette tornavano per direttissima a prendere polvere in libreria, l'opera dei Cocoa Brovaz mi lasciò un sapore discreto in bocca. Forse quel cambio di stile non era un male in sè e per sè; semplicemente, mi aspettavo che la Boot Camp Clik sfornasse Nocturnals e Shinins da qui fino all'eternità, mentre questo è decisamente diverso ma dotato al contempo di una sua gran bella dignità.
Innanzitutto i così criticati beat non sono per nulla malvagi. Certo, ad eccezione di Spanish Harlem il SOUND caratteristico dei Beatminerz è praticamente scomparso (non a caso i produttori sono al 90% altri); tuttavia, il cambio di rotta impresso dai vari sconosciuti (Keylord, Filthy Rich, Suite 1200... vabeh ci siamo capiti) è tale solo nelle forme, ma la sostanza resta quella. Le atmosfere erano cupe prima e lo sono anche adesso, semplicemente l'elemento che ha sostituito la ruvidità estrema degli esordi è la malinconia; in moltissimi casi infatti ci sono campioni di piano, xilofono, chitarra e via dicendo. Pezzi come Bucktown USA, Back 2 Life, The Cash, Still Standin' Strong o Blown Away possono perciò risultare magari meno aggressivi di una Wontime o una Sound Bwoy Bureill, ma da qui a catalogarle come fiacche ce ne passa: anzi, non mi stupirebbe sentirle all'interno di una qualche roba (buona) del Wu o legata al Queensbridge. In più, ce n'è anche per gli spiriti più esagitati: si parte ad esempio con la relativa calma del campione überfunkettone di Off The Wall (quando Shawn J. Period era ancora una garanzia), si può passare all'efficace minimalismo di Spanish Harlem e giungere infine ai rullanti spezzacolli di Black Trump, ricavandone sempre una buona dose di soddisfazione.
Certo, forse tutte queste basi difettano un po' di personalità ed alcune suonano oggi un po' datate -Dry Snitch utilizza un synth pacchiano ed un loop di piano piuttosto plasticoso- mentre altre sono delle fetecchie -Won On Won era e rimane una ssschifezza; ma nel complesso non si può certo dire che i difetti principali di Rude Awakening dipendano dalle basi, che anzi spesso sono eccellenti strutture su cui Tek & Steele possono poi costruire le loro rime con rinnovata abilità.
No, il problema di quest'album risiede casomai nell'abuso dei maledetti cori cantati, vera e propria piaga biblica degli album di quell'album epoca. Per di più io capirei se li usassero, che so, PM Dawn e l'altro scemo, ma dei membri della Boot Camp? Cosa c'azzeccano dei refrain melensi con questi due cronisti di Brooklyn? Niente, appunto: ed ecco quindi che abbinamenti beat-MC dal diverso grado di successo -Dry Snitch, Game Of Life, Mya Angelow e soprattutto Hold It Down- vanno più o meno a farsi benedire "solo" a causa di qualche scemo che pensa che sgolarsi davanti ad un microfono sia il modo migliore per strutturare un ritornello. Verrebbe da piangere, credetemi.
Anche perchè quando invece si sentono una Still Standin' Strong, una Bucktown USA (sempre efficace il hook gridato) o una Back 2 Life, col suo bel cut dei Mobb Deep, ci si rende conto della quantità di occasioni sprecate e sviste artistiche che secondo me si potevano facilmente evitare. E ciò sia per una questione di principio che per una di pura logica: voglio dire, cosa c'entreranno mai gli stili e i contenuti di Tek & Steele -nemmeno includo ospiti come Buckshot o Ruck/Sean P- con l'R&B? Niente, appunto. E già che li ho menzionati, tanto vale spendere un par di parole su di loro: mentre contenutisticamente siamo sempre nei soliti confini (figa, fumo, amici imprigionati, amici morti, autoesaltazione ecc.), come tecnica i due sono lievemente migliorati specie nella pratica del passaggio del microfono; una miglioria evidente che compensa pienamente il parziale abbandono degli estri dancehalliani dell'esordio. Di più non c'è da dire: chi già ha saputo apprezzarli in Dah Shinin' qui di certo non cambierà idea, trovandosi di fronte due MC bravi e capaci più d'una volta di stupire: in particolare Bucktown USA, Black trump e Blown Away sono eccellenti dal punto di vista dell'emceeing, e considerando che punti bassi o deboli non ce ne sono, in quest'ottica posso dirmi molto contento.
Volendo ora giungere alle conclusioni, direi che la prima cosa da sottolineare è che noi amarcordisti-spaccapalle all'epoca ci sbagliammo di brutto. Definire Rude Awakening una mezza cacatiella significa prendere un abbaglio di dimensioni immani; d'altronde, nemmeno sarebbe saggio adesso magnificare quest'album come se fosse il capolavoro che non è. Tre e mezzo mi pare dunque un voto equilibrato anche se rapportato con la qualità media dei bei tempi andati, e fidatevi se vi dico che quest'opera va assolutamente riascoltata perchè, ritornelli melensi a parte, contiene alcune chicche davvero notevoli.





Cocoa Brovaz - The Rude Awakening

VIDEO: SPANISH HARLEM

venerdì 30 ottobre 2009

SEAN PRICE - MONKEY BARZ (Duck Down, 2005)

Nei scorsi giorni, Robbie di Unkut ha pubblicato un breve pezzo sull'importanza del carisma nel rap e su come questo aspetto sia stato sovente ignorato da quella che si potrebbe definire la «Lyricist Lounge generation», cioè tutta una folta schiera di artisti il cui punto focale è stato l'aspetto tecnico, fondamentalmente a scapito di tutto il resto. Questo è un argomento abbastanza interessante e certamente discutibile caso per caso, ma reputo che il principio sia vero o, quantomeno, lo condivido: moltissima della musica che compro/ascolto è magari solida dal punto di vista musicale e più strettamente lirico, ma alla fin fine annoia più di altri prodotti, anche se questi possono risultare meno perfetti sotto questi punti di vista. Per fare un esempio potrei citare i soliti Little Brother, ma preferisco aggiornare i miei paragoni e, stando solo all'ultimo anno, preferisco menzionare i Diamond District o Lushlife: entrambi autori di album non brutti ed anzi spesso pregevoli specialmente nell'ottica dei beat, malgrado tutto alla fin fine perdono un buon 80% del loro potenziale semplicemente perch chi sta al microfono si limita ad essere competente.
Bene: fate "ciao" con la manina a Sean Price: con all'attivo due album ufficiali e tre mixtape, e con nessuna delle suddette uscite lontanamente rapportabile ad un classico, egli è però uno dei pochissimi MC che talvolta sento il bisogno specifico di ascoltare. E poco importa se diversi beat sono meh o non mi piacciono, perchè salvo casi irrecuperabili basta la sua presenza a farmi relegare in un ruolo da comprimario la base. In tal senso, il suo esordio come solista, Monkey Barz, è forse più adatto per tratteggiare i contorni di questo bizzarro fenomeno, in quanto presenta più alti e bassi che non il successivo Jesus Price Superstar.
Pubblicato nel 2005 come primo volume della "trilogia" composta assieme agli album di Buckshot e 9th Wonder e degli Smif 'N' Wessun, forse esso non è il migliore in senso assoluto ma è probabilmente quello dotato di maggior fascino (e per parlare di fascino con in mezzo con Scionpüüü! ce ne vuole). Innanzitutto perchè è l'opera con su più pezzi d'impatto: Onion Head, Boom Bye Yeah, Bye Bye, Jail Shit e Rising To The Top possono godere dei favori di qualsiasi aficionado di rap fin dal primo ascolto e, soprattutto, mantengono una buona longevità nel tempo. In secondo luogo, perchè è quello che a fronte dei sopracitati pezzi da novanta ne contrappone altri francamente deboli (Fake Neptune, Mad Mann, I Love You Bitch). Il terzo motivo nonché il più importante, è che qui si può notare quanto la bravura ed il carisma di un rapper possono aiutare a far risorgere tracce che, se date in mano ad un altro, avrebbero continuato a nuotare nella mediocrità più nera (Heartburn, Peep My Words, Shake Down, Spliff 'N' Wessun).
Ed il bello è che ciò non avviene a causa di chissà che contenuti, ma quasi solamente per motivi di forma. Scionpüüü! infatti non si spinge praticamente mai oltre alla ghettuseria nelle sue varie forme -ricalcando così alla perfezione il marchio di fabbrica della Boot Camp Clik- ma sia per l'esposizione che ne fa (in cui non manca quasi mai un pizzico di humor) che per la tecnica adottata, il risultato alla fine riesce ad affascinare persino chi dovrebbe averne pieni i coglioni di queste robe. Insomma, dal ruolo di gregario che giocoforza aveva assunto come membro degli Heltah Skeltah, il Nostro ha saputo trasformarsi in una belva: sia per l'inventiva e le uscite, che spesso si collocano in quella sottile linea che passa tra il serio ed il grottesco, che per l'unione perfetta tra metrica e voce. Sentirlo rappare è un piacere per chiunque reputi comunque ancora importante l'arte di saper mettere in rima le parole, ma lo è anche per chi nel rap apprezza i momenti di caciara e cazzonaggine più pura.
E quando la sua voce e la sua malcelata goliardia vengono supportate dai giusti beat, i risultati sono ammirabili: Agallah rientra nel ruolo di produttore talentuoso ma non tamarro e firma le ottime Rising To The Top e Jail Shit (ulteriormente impreziosita da un redivivo Rock sul ritornello), mentre Khrysis, pur difettando ancora di personalità, sceglie bene i campioni e le batterie (anche se quel rullante che fa TCIOK! non mi convince appieno) e così le sue Bye Bye e Onion Head centrano il bersaglio e forniscono un tappeto sonoro ideale per la spacconeria di Scionpüüü!. Non da meno sono i momenti più smaccatamente tamarri, anticipati in Shake Down ma culminanti nella cafonissima Boom Bye Yeah, che non potrebbe essere descritta se non come la colonna sonora ideale per un pestaggio di gruppo ai danni di bambini dagli occhi tondi & teneri.
Me senza voler indugiare troppo nella descrizione dei singoli beat, basti dire che l'ispirazione comune a tutti è il classico boombap nuiorchese senza alcun tipo di pretese, con in più qualche incursione nel soul: già Onion Head e Bye Bye (anche se quest'ultima campiona David Axelrod) ne mostrano i segni, ma sono soprattutto Heartburn, Brokest Rapper You Know e I love You Bitch a far sfoggio di sample dell'era Motown. Ma se il primo tipo di sound non presenta controindicazioni di alcun genere e funziona praticamente sempre, nel secondo caso è facile scivolare nella sovraproduzione e nel pacchiano. Un peccato, davvero, perchè d'accordo che il nostro eroe riesce praticamente sempre a rendere perlomeno ascoltabili queste tracce, ma è anche vero che con un po' meno archi epici + sample vocali, ed un po' più di Beatminerz (qui invece completamente assenti) o MoSS, Monkey Barz sarebbe diventato un disco ineccepibile.
Così com'è, invece, soffre di un certo "effetto altalena" del quale -malgrado tutto- avrei preferito fare a meno, e che in ultima analisi fa giusto da cartina di tornasole per dimostrare la bravura di Scionpüüü!. Tuttavia, questa non va sottovalutata, perchè riesce a trasformare un album che in mano a qualcun altro sarebbe stato da tre/tre e mezzo in un solido quattro pieno, essendo Monkey Barz favorito non solo da alcune autentiche chicche ma soprattutto di una longevità molto rara di questi tempi. PÜ!!!





Sean Price - Monkey Barz

VIDEO: BOOM BYE YEAH

lunedì 12 ottobre 2009

O.G.C. - DA STORM (Duck Down/Priority, 1996)

Oggi, essendo stanchissimo, ho deciso di viaggiarmela con estrema comodità ed attrezzandomi con tutti i comfort possibili: insomma, vi scriverò brevemente del (oggi) tanto osannato debutto degli O.G.C., trio di MC di Brooklyn notoriamente affiliato alla Boot Camp Clik. Uscito nell'autunno del '96, Da Storm è al contempo uno dei maggiori flop in termini commerciali rispetto alla qualità, almeno per gli standard dell'epoca (200000 copie vendute, roba che oggi ne venderebbe 50), ed uno degli oggetti di più grande rivalutazione in tempi recenti. All'epoca, infatti, dopo Dah Shinin' e Nocturnal questo disco parve a molti un passo indietro rispetto alle succitate opere ed anche i suoi membri venivano visti come delle mezze pippette, con l'eccezione forse del frontman Starang.
Ma per quanto tecnicamente il giudizio di cui sopra abbia degli elementi di verità, la domanda che pochi si posero fu quella riguardante il valore effettivo dell'opera; se l'avessero fatto si sarebbero accorti che Da Storm non solo è un bel disco, ma un gran bel disco, in cui il suono dei Beatminerz -forse per l'ultima volta- vede tutti gli elementi caratteristici che lo compongono ulteriormente perfezionati e, verrebbe da dire, spinti fino alle estreme conseguenze.
Fin dall'inizio, infatti, bassi corposi e campioni minimali prendono l'ascoltatore e lo catapultano in atmosfere di rara cupezza (anche per la media del '96, va detto) in cui i tre MC non fanno altro che dire, con quanto più stile possibile, che loro sono bravi, fumano brannoni senza pausa, fanno bruttissimo e occasionalmente non disdegnano la figa fintanto che questa non li distoglie dalle loro occupazioni primarie. Che sono appunto fumare, far brutto eccetera eccetera. Insomma, che sia chiaro fin dall'inizio: se ascoltate Da Storm non lo fate certo per i contenuti in senso stretto, ed anche il titolo, che ritorna nella tracklist e fa da collante tramite gli skit, non deve portarvi a pensare ad un concept album.
Sgomberato il campo da eventuali dubbi, la prima cosa che balza all'occhio è che, delle undici tracce effettive, le prime cinque rappresentano il meglio del meglio che Starang, Louieville e Top Dog sanno offrirci: dalla lenta ed ossessiva Calm Before Da Storm si passa al singolo No Fear -che a pensare che si potessero fare singoli simili con un certo successo c'è da non crederci- ma è solo con la traccia solista di Starang, Hurricane Starang, che si comincia ad accettare il fatto che Da Storm è degno di far parte del tris di capolavori della Boot Camp Clik di metà anni '90. Per essa, Mr. Walt lavora nuovamente con pochi elementi, dicasi tre-note-tre di organo elettrico, basso e batteria, e riesce a confezionare un beat indiscutibilmente potente e connotato dal famoso «nod factor» come pochi altri si sognano di fare, pur imbastendo magari produzioni farcite di sample orchestrali o schitarrate campionate *cough* Slaughterhouse *cough*. È perciò ovvio che risulterebbe difficile se non impossibile rovinare una simile produzione, ma il problema nemmeno si pone, perchè Starang dimostra sia di essere l'elemento migliore degli O.G.C. che un MC dotato in senso assoluto [no homo]; la curiosa apertura della canzone viene infatti seguita immediatamente da una serie di brevi scambi con Rock degli Heltah Skeltah, ed ora che si giunge alla fine di questa non si vede l'ora che parta con la seconda.
Ma per quanto la successiva Danjer chiuda quella che definirei la crème de la crème degli O.G.C., non pensate che ciò che segue possa definirsi in qualche modo debole: ad eccezione infatti della title track, che considero l'unica scivolata fatta dai produttori, il resto si attesta su livelli relativamente medioalti e l'unica cosa che potrebbe far sembrare scialbe tracce come X-Unknown o Flappin' (prodotta da E-Swift dei Liks e Madlib, mica me la ricordavo 'sta cosa) è che esse non hanno la forza d'impatto d'una Gunn Clapp oppure ricalcano magari un sound complessivo già sentito in precedenza. Considerando questo fatto diventa quindi doppiamente gradita la presenza di qualche ospite, come per esempio Sadat X e Sean Black in Wild Cowboys In Bucktown (bella la base di DJ Ogee, tra l'altro), oppure i Representativz ed altri sconosciuti (mai più sentiti) in Elite Fleet.
Che dire, quindi? D'accordo, Louieville e soprattutto Top Dog non saranno 'sti geni del microfono da un lato, e dall'altro ci sono difettucci ravvisabili nella ripetitività di certe atmosfere ed un forte squilibrio qualitativo (e nella distribuzione degli skit) tra la prima metà dell'album e la seconda, ma personalmente la cosa dà fastidio fino a un certo punto. Di certo c'è che, assieme a Enta Da Stage ed i già citati Shinin' e Nocturnal, questo Da Storm rappresenta uno dei quattro punti cardine della discografia della Boot Camp Clik. E se non si può dire che sia imprescindibile in termini assoluti, non c'è dubbio che questo sia un disco capace di estasiare tutti i fan del rap nuoirchese di metà anni '90. Fuori stampa da tempi immemori, lo si può facilmente trovare usato a prezzi risibili, e reputerei francamente imperdonabile lasciarselo sfuggire una seconda volta: da avere.





O.G.C. - Da Storm

VIDEO: NO FEAR

venerdì 24 luglio 2009

SMIF 'N' WESSUN - DAH SHININ' (Nervous/ZYX, 1995

Se mi aveste incontrato nei primi mesi del '96 e mi aveste chiesto quale fosse la mia canzone preferita dell'anno precedente la risposta sarebbe stata una sola: Wrekonize. Più di Shook Ones, più di Incarcerated Scarfaces, più di Cold World: il singolo dei Smif 'N' Wessun -versione album, naturalmente- mi aveva fatto muovere la mia crapona da quattordicenne (e quindicenne) como solo dei scoppoloni a mano aperta avrebbero saputo fare e, per quanto negli anni le mie preferenze siano mutate, ad oggi quella canzone riesce ancora a darmi i brividi. Come tutto l'album, del resto.
Sebbene infatti in Italia, e specialmente a Milano, nel '95 le Timberland erano ancora condannate all'inevitabile presa per il culo grazie alla connotazione negativa loro conferita dai paninari, credo che nel cuore di ogni reppuso esse stessero raggiungendo in quel periodo vette di popolarità mai registrate prima. E per quanto Prodigy scriva nel suo blog -in CAPS LOCK, of course- che tra le tante innovazioni dovute ai Mobb vi sia anche la diffusione delle Tims, noi tutti sappiamo che a renderle davvero celebri negli anni '90 era stata la Boot Camp Clik. Punto. E da questa calzatura si parte, come solo in un album di rap si potrebbe fare: Timz 'N' Hood Check è solo l'inizio di un viaggio che durerà poco meno di settanta minuti, in cui i semiesordienti Tek & Steele ci accompagneranno nella loro Brooklyn.
Il pezzo è tutto sommato rappresentativo dell'atmosfera che si respirerà durante questo percorso, la quale è data, in brevis, da alcuni dei beat più cupi mai prodotti dai Beatminerz e dalle rime fortemente ghettocentriche del duo. In nessuno dei pezzi vi è traccia di positività e, per quanto non raggiunga le vette dei Mobb Deep di quegli anni, si può tranquillamente dire che l'esordio dei S&W rappresenti uno dei picchi più elevati mai raggiunti dal rap grimey, con in più la peculiarità data dall'ibridazione tra slang locale e patois, che conferisce al tutto un'unicità indubbia. Si veda ad esempio Cession At Da Doghillee o la celebre Sound Bwoy Bureill, un vero classico, dove questa mescolanza diventa fondamentale per la riuscita convincente del pezzo. Ma anche quando Tek e Steele si "limitano" all'inglese i risultati sono eccellenti, in quanto, se è vero che nessuno dei due preso singolarmente è un MC straordinario, insieme rappresentano una delle acoppiate meglio riuscite di sempre. Difatti, è impossibile non notare come la forza delle canzoni sia enormemente dovuta al connubio tra la diversità delle voci e quella delle metriche, le quali vengono continuamente alternate mediante passaggi di microfono a dir poco impeccabili. In tal senso diventa molto difficile pesacre una canzone liricamente superiore alle altre, ma a titolo esemplificativo direi che il tris vincente di Dah Shinin' possa essere dato da Wrekonize, Sound Bwoy Bureill e l'eccezionale Bucktown.
Ma oltre alla indubbia bravura dei Nostri non si può dimenticare il fondamentale apporto dato dai Beatminerz a queso progetto. Spostatisi in territorio ancora più cupo rispetto al precedente Enta Da Stage, in Dah Shinin' questo collettivo continua a pescare principalmente nel jazz e nella fusion riuscendo a trasformare ogni campione in beat che sanno di ruvido a partire dal mixaggio (con bassi che prevalgono su tutto) fino a giungere alla pressochè totale mancanza di melodia. "Minimalismo" è la parola chiave tramite la quale leggere queste sedici tracce, ed in tal senso, per quanto reputi Nocturnal complessivamente migliore, direi che l'individualità del suono della Boot Camp Clik raggiunga qui il suo zenith. È inoltre sorprendente notare come sussista una sostanziale varietà in questo disco malgrado i tempi siano grossomodo sempre quelli (viaggiamo su una media di 90-94 bpm) e nonostante il sound sia orientato in un'unica direzione; certo, non è sicuramente un album "facile" da proporre a chi solo da poco si è avvicinato al rap, però ho notato che man mano che lo ascoltavo e man mano che mi facevo l'orecchio riuscivo a scoprire sempre nuove sfumature, magari in pezzi che fino a quel momento reputavo minori (tipo Shinin... Next Shit), cosa che ovviamente va a conferire al tutto un'ottima longevità.
Bene: alla luce di questo cosa posso aggiungere se non dire chiaro e tondo che si tratta di un album fondamentalmente perfetto? Volendo gli manca la forza innovativa di Enta Da Stage, ma questo non toglie nulla all'ascolto e a questo punto si può solo giocare a quale sia l'album migliore tra Dah Shinin' e Nocturnal. Meglio averli ambedue, in ogni caso.





Smif 'N' Wessun - Dah Shinin'

VIDEO: SOUND BWOY BUREILL

venerdì 15 maggio 2009

HELTAH SKELTAH - NOCTURNAL (Duck Down/Priority, 1996)

Mi ricordo che un giorno del 1996, a scuola, con un amico ci mettemmo a discutere se fosse più potente il Wu o la Boot Camp Clik. Enta Da Stage VS. 36 Chambers, Dah Shinin' VS. Cuban Linx, Nocturnal VS. Liquid Swords: dopo un lungo simposio decidemmo di dare la corona alla crew di Staten Island, ma entrambi concordavamo nel dire che la BCC era quanto di meglio potesse esistere a livello di suono hardcore (eggià, per noi il Wu era melodico, pensate che tempi). Ora, a distanza di così tanto tempo il paragone può anche far ridere, ma al di là del fatto che s'era sbarbi infuocati col rap e che quindi il massimo del divertimento era fare paragoni da baluba e sfidarci a suon di cassettine, bisogna dire che fino a quel momento nessuno dei due gruppi aveva sbagliato un colpo.
Erano bei tempi, insomma, ed ogni volta che veniva segnalata una nuova uscita io correvo al TimeOut per comprarla -a scatola chiusa, ovviamente. Oltrettutto, per Nocturnal soffrii più del solito perchè mi trovavo a Monaco con un triestino tonto che avevo plagiato fin troppo bene: lui s'era comprato l'ultima copia di Nocturnal, io Stakes Is High ma giusto per non tornare a casa a mani vuote. Il bastardo poi continuava ad ascoltarlo e mentre passavano le varie Letha Brainz Blo, Leflaur Leflah Eshkoshka, Grate Unknown eccetera io mi ritrovavo con dei freak i cui beat all'epoca non mi piacevano un granchè. Ma al ritorno in Italia rimediai e anche se sono passati così tanti anni non riesco a non dare un ascolto a questa perla di tanto in tanto, malgrado ovviamente conosca tutti i pezzi a memoria.
Il duo di Rock e Ruck, genialmente autosoprannominatisi Sparsky & Dutch (fantastico!), provengono ovviamente da Brooklyn e se non ricordo male la loro prima apparizione di un certo rilievo fu sulla splendida Headz Ain't Ready, con Rock che declamava "You asked for it 'Who want beef' so here's WAAAR". Dalla colonna sonora di New Jersey Drive in cui appariva la suddetta canzone a Nocturnal passò poi poco più di un anno in cui la copertura di stampa fu più che ragionevole, ed anche la pubblicizzazione vera e propria fu egregia; tuttavia, per meccanismi che ancora non riesco a spiegarmi, l'esordio degli Heltah Skeltah fu un mezzo flop commerciale malgrado fosse difficile trovare qualcuno disposto a dire che questo fosse dovuto ad una scarsa qualità del prodotto. Decisamente, era un periodo in cui quelli che oggi malignamente potremmo definire portaborse puntualmente dimostravano di essere in realtà degli artisti dotati di un certo spessore; oltretutto, Nocturnal aveva pure un'indubbia peculiarità che avrebbe dovuto destare curiosità: pur rispettando il sound del collettivo di cui facevano parte, non tutte le tracce erano state affidate ai Beatminerz ma vi figuravano anche Shawn J. period, E-Swift degli Alkaholiks ed altri meno conosciuti (Shaleek su tutti). Invece niente.
Ma tant'è: ciò che davvero conta è che col tempo quest'album è entrato a pieno titolo nell'esclusivo circolo dei dischi venerati daglie stimatori dell'underground, fino a formare con Enta Da Stage e Dah Shinin' il tris d'assi della Boot Camp Clik. Ed ascoltandolo non è difficile capire perchè: da Letha Brainz Blo fino a giungere a Operation Lock Down si incontrano solamente una traccia del cazzo (Da Wiggy) ed una moscietta (Clans Posses Crews & Cliks); per il resto o ci si attesta sulla vera eccellenza oppure si viaggia su binari di estrema bontà. Ed il bello è che ciò avviene con una caratteristica che trascena l'ovvia qualità di beat e rime, e cioè il pressoché completo vuoto contenutistico. Ruck e Rock riescono infatti a partorire canzone su canzone senza affrontare alcun tema in particolare, ma solo spruzzando quà e là della buona arroganza, dei virtuosismi stilistici, dei riferimenti al proprio quartiere e via dicendo: insomma, il nec plus ultra del rap non-progressivo che quando è fatto bene sa intrattenere senza che si possa trovare una giustificazione plausibile per tutto ciò. E se questa sottocategoria del rap è da sempre una delle mie preferite, bisogna però aggiungere che per riuscirvi si deve giocoforza essere delle belve al microfono; ora, come tag team i due hanno secondo me davvero pochi rivali e la loro alchimia è qualcosa che al contempo è stupefacente ed immediato. Ruck, oggi meglio noto come Sean Price, è dei due quello dallo stile più pulito e dalla metrica più regolare. Compensa questa sua regolarità con metafore e punchline più complesse e ricercate del suo compagno e, anche se da questo punto di vista non si può negare che negli anni sia enormemente migliorato, è altrettanto indubbio che pure nel '96 non sfigurasse. Ma sarebbe ipocrita negare che in fondo la parte del leone la fa Ruck: con quella voce e quella destrezza nel giocare con le sillabe e la metrica, a uno non gliene potrebbe fregar di meno dell'arguzia dietro ad un gioco di parole: diretto nell'approccio, qualsiasi appunto sulla sua finezza viene spazzato da come dice le cose e difatti non è un caso che dei due fosse quello più papabile per cominciare una carriera solista (ah, l'ironia della sorte! Mi sembra comunque che in rete girino dei ruff mix del suo disco, in realtà assai discutibili). Ciò detto, potrei anche sorvolare sugli ospiti, che sono comunque tutti affiliati alla BCC (eccetto Vinia Mojica), ma perlomeno gli O.G.C. vanno nominati. Un po' perchè di essi fa parte Starang Wondah aka il membro più sottovalutato della Boot Camp, ma soprattutto perchè nel '97 faranno un disco secondo me assai bellino e perchè in teoria avrebbero dovuto creare un supergruppo con gli Heltah Skeltah, i Fab 5. Questo naturalmente non avvenna mai, ma ascoltare Leflaur Leflah Eshkoshka può solo dare un'idea di cosa sarebbe potuto nascere se il progetto si fosse avverato.
Ciò detto, dubito che qualcuno avrebbe mai potuto adorare quest'album se il tappeto sonoro non fosse come minimo persiano (apprezzate la metafora, grazie). Come già detto, pur non essendo l'intero ambito delle produzioni riservato ai Beatminerz, il suono è comunque in pieno stile Bucktown. Tuttavia, rispetto a un Dah Shinin', esso è molto più pulito e nitido sia per ciò che concerne i singoli elementi (batterie, basso, campione) che per quel che riguarda la loro fusione, il mixaggio. Questo si può notare in ambedue le "categorie" stilistiche a cui fanno riferimento gli Heltah Skeltah, ovverosia quella minimalista in cui oltre a basso e batteria c'è poco o nulla (vedi Leflaur ecc.) e quella più complessa, dove invece magari si concede più rilevanza al campione del caso (Grate Unknown o The Square bastano per rendere l'idea). Il risultato è secondo me molto buono e va ad aggiungere un tocco di qualità in più al lavoro, vuoi anche privando di un quid la cifra stilistica della BCC.
Ma al di là di questi aspetti tecnici la sostanza è grossomodo la medesima, vale a dire minimalismo melodico nella miglior tradizione dell'hardcore nuoiorchese e sezione di percussioni a fare da traino. La formula insomma è chiara e del resto l'ho ormai illustrata così tante volte che non mi pare il caso di ripetermi; preferisco piuttosto dedicare qualche riga alla scelta dei sample. Ebbene, quando essi sono presenti in maniera rilevante, si riconosce la matrice soul o jazz/fusion: vedi ad esempio l'ormai classico campione di Johnny Pate di Letha Brainz Blo oppure la commistione di pianoforte e campane eoliche di Soldiers Gone Psycho, come il sample vocal di Grate Unknown che si fonde ad una sezione di archi e vibrafono di inuadita bellezza. Ma il bello è che -contrariamente a quel che avviene fin troppo spesso ai giorni nostri- moltissimi di questi suoni sono tagliati, ricuciti, effettati e quant'altro che anche solo riuscire a distinguerne la natura -non parlo nemmeno del pezzo originale- è diviene opera da otaku del sound o laureati al conservatorio. Ebbene, questo da un lato dimostra l'impegno e la bravura dei produttori coinvolti (oltreché la loro mentalità), e dall'altro dona una certa freschezza all'insieme che poi trova l'ulteriore benedizione in set di batterie il cui suono e la cui programmazione diversificano ancor più l'ascolto. In due parole: niente monotonia.
E allora, come avreste dovuto intuire dall'entusiasmo mostrato e dagli elogi espressi al lavoro degli Heltah Skeltah e compagni, cosa volete che gli dia se non un quattro e mezzo? Capirò chi mi dirà che è esagerato, ma siccome è lo stesso voto che affibbierei a Dah Shinin' non vedo perchè no, soprattutto se devo prendere in esame quest'opera nell'ottica della sua non comune longevità.




Heltah Skeltah - Nocturnal

VIDEO: OPERATION LOCKDOWN

martedì 9 settembre 2008

BLACK MOON - ENTA DA STAGE (Wreck, 1993)

Nella precedente recensione avevo definito il 1996 come uno degli anni migliori per l'hip hop: grandi dischi vennero pubblicati in quell'anno e sicuramente pochi possono negare che sia stato uno dei saltuari canti del cigno (passatemi la contraddizione logica) che produce questo genere musicale; tuttavia, ancor meglio e certamente più rilevante è stato il 1993. I più giustificheranno quest'affermazione facendo riferimento alla pubblicazione di 36 Chambers, il che è tanto giusto quanto inesatto in quanto ciò relega automaticamente l'altro grande classico di quell'anno in secondo piano. Ma se il rap degli anni a venire ha avuto certe sonorità o date influenze, questo lo si deve anche a Enta Da Stage.
Tanto per dirne una: avete presente i cori urlati da un mucchio di persone, che così bene caratterizzano il suono nuiorchese di quegli anni? Beh, ringraziate i Black Moon. E cosa dire delle produzioni filtrate da ogni tono alto e praticamente "abbandonate" alla sola batteria e basso? Beatminerz, miei cari. E, certamente, se da un lato erano stati i Tribe e i De La Soul (con Buhlōōne Mindstate) ad usare pionieristicamente massicce quantità di campioni jazz nelle loro produzioni, si può dire che solo con Enta Da Stage questi vennero reinterpretati in una chiave decisamente più cupa ed alienante. Insomma, per farla breve, questo disco è una delle migliori colonne sonore esistenti per descrivere in note l'atmosfera urbana di una città in novembre. Non esistono aperture: basso e batteria scandiscono i passi mentre i campioni riflettono lo stridio delle rotaie delle metropolitane e delle gomme delle macchine, mentre la descrizione verbale dell'insieme viene affidata in gran misura al solo Buckshot e agli occasionali ospiti.
Tutto ciò avviene senza soluzione di continuità, anche prendendo in considerazione la suddivisione dell'album in due fasi (il che non è un semplice vezzo ma riflette effettivamente un diverso "taglio" musicale): sia l'iniziale Powaful Impak che la conclusiva U Da Man rientrano nell'estetica ruvida così fortemente distintiva di questo disco. Il merito di ciò va alle produzioni dei Beatminerz, non c'è dubbio: il filtraggio dei campioni di cui dicevo prima, abbinato ad un'equipaggiatura poco più che casalinga, conferisce ad ogni singolo pezzo un timbro cupo, oscuro, quasi come se si sentisse il beat provenire da un lontano scantinato. E la marea di campioni usati vengono usati non per conferire una melodia alle canzoni, bensì unicamente per "spezzarli" con una certa regolarità o per separare i ritornelli dalle strofe. Tuttavia, si può notare una variazione nell'approccio produttivo tra le prime sette tracce e le altrettante che le seguono: nel "first stage" il sound è più legato agli anni precedenti e risulta, in generale, più "energetico" (vedi Who Got Da Props, Niguz talk Shit e la sublime Buck 'Em Down); per converso, nel "second stage" le atmosfere virano verso una ruvidità meno gridata e certamente più vicina ai dischi che sarebbero usciti in seguito (ne sono ottimi esempi Shit Iz Real, I Gotcha Opin e -soprattutto- l'eccezionale Slave). La spiegazione pare essere questa: a cavallo tra il '92 ed il '93, durante le sessioni d'incisione i Black Moon s'imbarcarono in un tour con Kool G Rap e Nas e, sentendoli, Buckshot decise di rendere meno serrato il suo flow. Di rimando, i Beatminerz optarono per un adattamento a questo cambio di stile virando così le sonorità verso toni più smorzati. Ed in fin dei conti la scelta si rivelò vincente oltre che attuale: non è un caso, infatti, che Buckshot sia oggi come allora immediatamente riconoscibile già solo dall'uso della voce, mentre 5ft si può facilmente perdere nel marasma degli MC competenti o poco più. Sia come sia, il punto è uno solo: le produzioni sono perfette, stop. Da Frank Zappa a Cannonball Adderley, passando per Miles Davis e Barry White, i Beatminerz piegano qualsiasi campione alle loro necessità ed alla loro personalissima estetica come ben pochi -specialmente se esordienti- sanno fare.
A questo punto, di fronte all'enfasi che ho dato nell'elogiare il lavoro, è curioso notare come, storicamente (fin dalla sua uscita, cioè), Enta Da Stage abbia ricevuto il plauso del pubblico grazie all'abilità di Buckshot al microfono. Intendiamoci: non voglio sminuire il suo contributo e men che meno mettere in dubbio il suo straordinario talento, semplicemente trovo che di fronte ad un'esecuzione perfetta (rime, controllo del respiro, stile tout court) non vi sia quell'innovazione o quella capacità di influenzare altri ottenuta, che so, dai membri del Wu o da Biggie. Ma questo non fa parte di eventuali difetti oggettivi; tralasciando dunque queste mie "critiche alla critica" di scarsa rilevanza, ciò che conta è che il nostro nanetto (è, tipo, alto come Berlusconi) fa letteralmente a pezzi il microfono su ogni traccia. E nel fare questo, raramente incappa negli stilemi dell'epoca, risultando ancor'oggi godibilissimo da ascoltare pur nella (in realtà, soprattutto grazie alla) sua sbruffoneria e nelle evidenti esagerazioni nel narrare la cosid. street life.
Insomma, tre sole parole per definire Enta Da Stage: classico, influente, imprescindibile.





Black Moon - Enta Da Stage

VIDEO: HOW MANY MC'S...

giovedì 19 giugno 2008

BLACK MOON - TOTAL ECLIPSE (Duck Down, 2003)

Quando uscì Enta Da Stage, il primo, fondamentale album dei Black Moon, il sottoscritto aveva 12 anni e mai si sarebbe aspettato un futuro come l'attuale presente. Non solo non potevo prevedere che sarei rimasto sotto col rap, ma nemmeno avrei potuto immaginare di trovarmi in un ufficio la mattina del 19 giugno 2008 a cercare di sopravvivere al costante assalto alla baionetta alla mia intelligenza perpetrato dalla radio di turno. Sapete, fin dalla più tenera età non son mai stato un grande fruitore della modulazione di frequenza a causa della ripetitività della programmazione; in più, ad ogni estate che s'avvicinava, cominciavo a sospettare -beata innocenza!- che qualcuno volesse prendermi per il culo passando in serrata ripetizione una ben specifica canzone. E così, tormentone dopo tormentone (All That She Wants, What Is Love, Lemontree...), mi sono sempre più isolato da quello che era "hot" al momento. Un backpacker ante litteram, insomma. La mia maschia resistenza passiva [no homo] prosegue anche in questi giorni di estrema sfrangiatura dei testicoli, e così, mentre i danesi Alphabeat ci regalano la solita cacatiella-allegra-perchè-siamo-in-estate-dobbiamo-divertirci, io controbatto nell'intimità delle mie cuffie con l'ultimo album dei Black Moon. E il cerchio si chiude.
Dopo la parziale delusione di Warzone ed una generica assenza dalle scene della Boot Camp Clik tutta, durata -ahimè- circa cinque anni, il 2003 verrà ricordato come l'anno in cui il collettivo di Brooklyn cominciò a recuperare i vecchi fan e ad aggiungerne di nuovi, ingranando una marcia produttiva che si concretizzerà nella pubblicazione di opere collettive così come individuali, in ambo i casi reputate (quale più quale meno) di buon valore. Tuttavia, per quanto possano piacere i dischi di Sean Price, Buckshot e dei Smif 'N' Wessun, non si può ignorare il fatto che dietro a Total Eclipse ci siano principalmente i Beatminerz, cioè coloro che per una buona metà hanno contribuito a decretare il successo della cricca a metà anni '90.
Una differenza vuoi anche solo psicologica, può darsi, ma non posso nascondere il fatto che introdurre l'ascolto di un album partendo dal ruvido boombap di Stay Real anzichè dall'ennesimo campione soul pitchato dia tutt'un'altra verve. Il minimalismo degli anni '90 è stato riveduto & aggiornato, ma la "sporcizia" del campione, l'imponente linea di basso sfondawoofer e le batterie secche sono Beatminerz genuini al 100%, e così è solo logico sentire il suadente flow di Buckshot nella prima strofa: "On the block that I'm from, late night is a hustle hour/ Anything gets sold, weed, clothes, plus the powder..." Puro Brooklyn, insomma. Nel tempo, inoltre, il Nostro è riuscito a trovare una via di mezzo tra l'aggressività degli esordi e la (secondo me) eccessiva calma di molti pezzi di Warzone, creando in questo modo una sintesi efficace e personalissima tra Snoop e O.C. Diciamo che è uno dei pochi veterani che anche a dopo dieci anni di onorata carriera è riuscito a perfezionare il suo stile guadagnando punti sia dal punto di vista tecnico (dizione, rime, stile) che da quello contenutistico. Perchè, sì, ammetto che è difficile trovare enormi spunti cervellotici in un album dei Black Moon e di certo non voglio dire che ci troviamo di fronte a Chuck D, ma quà e là si trovano tracce della maturazione di Buck, ad esempio nella rilettura di Ain't The Devil Happy, Confusion (beat a parte non c'entra nulla con l'originale, ma l'attacco alle logiche del mercato discografico è chiaramente proveniente da una persona che parla a ragion veduta). Infine, per quanto 5Ft non sia mai stato il motivo principale della celebrità dei Black Moon, bisogna dire che risentirlo quà e là fa sempre piacere e spesso aiuta a spezzare bene le prestazioni di Buckshot. In quanto ad ospiti ci viene offerta qualche comparsata da parte dei soci della Boot Camp, i quali -e non dovrebbe stupire- regalano prestazioni quantomeno solide e che alle volte riescono ad oscurare i nostri eroi: ne è l'esempio perfetto Sean Price, che oltre ad anticipare il personaggio del "brokest rapper alive" in What Would U Do, tira fuori una strofa da 90 sull'eccellente Looking Down The Barrel che gli varrà un buon 70% di pubblicità per il suo futuro solista d'esordio.
E, a proposito di Looking Down The Barrel, una menzione speciale va ai beatmaker che saltuariamente vanno a sostituire i Beatminerz alle macchine. L'ineccepibile MoSS, che di Barrel è l'autore, non fa rimpiangere Walt e compagni grazie ad un beat di una semplicità triviale che fa a pezzi le casse e permette agli MC di giostrarsela come meglio par loro, salvo poi far entrare nel ritornello un campione vocale canticchiato reperito chissà come e chissà dove: "Looking down the barrel... of a twelve-gauge magnum...". Perfetto. Non da meno sono Kleph Dollaz e la sua quasi-melodica How We Do It, Coptic (che produce la rilassata This Goes Out To You, con un gran bel loop misto piano e chitarra acustica) e Tone Capone, che per The Fever riprende un campione oramai piuttosto abusato ma allora relativamente fresco (ricordarmi il nome, mannaggia). Nota a parte merita il contributo di DJ Static, che riprendendo paro paro Ain't The Devil Happy di Jeru & Primo non fa nulla di male ma nemmeno rivoluziona la musica. Ma fermi restando i complimenti ai suddetti, va da sè che il ruolo delle star lo giocano i Beatminerz che, come già detto, aggiornano il loro suono dandogli un viraggio più smaccatamente settantone di buon effetto e, pur perdendo così l'unicità che permetteva di collegare I Gotcha Opin a Wrekonize e Headz Ain't Ready a orecchio, risultano al passo dei tempi quanto basta. Certamente vi sono tracce più riuscite di altre, così come va sottolineata l'assenza di una "punta di diamante" tra le varie produzioni, ma nel complesso direi che proprio non ci si può lamentare.
Insomma, per quanto enormemente sottovalutato (in questo i Black Moon mi ricordano gli ultimi Beatnuts), Total Eclipse è un must-have per chiunque desideri ascoltare di tanto in tanto dell'ottimo rap fatto per il gusto di fare rap. Non ci si troverà nient'altro che stile e competenza nel settore -in tal senso è un prodotto per pochi- e di questi tempi è un approccio molto più genuino rispetto a quello del throwback ex post.





Black Moon - Total Eclipse (N.B.: inspiegabilmente, riesco a rippare solo fino alla tredicesima traccia, poi va in bomba Itunes. Ergo, ho fatto un collage tra le "mie" tracce e le restanti. Se ci dovessero essere ciocchi, fateme sape').

VIDEO: STAY REAL