La provocazione, nell'arte, è una costante che si ripresenta puntualmente ogni qualvolta si va a creare uno status quo. La ripetitività ed il manierismo sono la nemesi dell'avanguardista, il quale di conseguenza li analizzerà e deciderà una contromossa spiazzante atta a metterne alla luce l'obsolescenza o l'involgarimento. Alla massa, che cammina in cerchio scavando solchi nel terreno, come Zio Paperone cammina nel suo silos pensando ai Bassotti, l'avanguardista appare come un esploratore che li può condurre fuori dall'autismo della ripetitività. Gli esempi abbondano, specie nel periodo moderno e contemporaneo: musicalmente si potrebbe definire il punk tutto come una provocazione ed al contempo una nuova via; così anche il futurismo ed il suo odio nei confronti della decadenza; per non parlare poi naturalmente dell'astrattismo. Sempre seguendo questa logica di analogie, io però sarei più propenso ad accostare questo Bon Appetit alla celeberrima "Merda d'artista" manzoniana. Intellettuale tra i più sensibili, O.C. ha colto l'angoscia insita nel rap del nuovo millennio e, seguendo la scuola junghiana, ha cercato di ridefinire il suo "es" con una parabola che può essere ricollegata alla fase anale del bambino, la quale secondo Jung è il momento in cui si comincia ad organizzare il rapporto tra dentro e fuori, tra esperienza corporea e mentale. Capacità quali ritenzione e plasmazione caratterizzano questa fase dove fa capolino per la prima volta la creatività insita nell'essere umano, e proprio dall'essenza, dal Innertum del genio, Omar Cradle decide di partire per evidenziare la decadenza di una fase storica di un genere musicale. L'importanza e l'innata provocazione di Bon Appetit, più un concetto d'arte che un mero oggetto d'arte, saltano agli occhi fino dalla forma: dopo cacche molli, dure, di vario colore ma pur sempre cilindriche, O.C. sconvolge l'accademismo di certi benpensanti partorendo una stronzata a forma di disco con, come ulteriore j'accuse meta-artistico, un misterioso buco al centro. Esso, risultando perciò inutilizzabile come frisbee (stabilità), come fermacarte (peso), come stabilizzatore di comodini vacillanti (spessore), obbliga dunque il fruitore ad un gesto estremo e oramai quasi dimenticato come l'ascolto su stereo. Ma le provocazioni non finiscono qui: sparse per il disco egli lascia alcuni appigli per coloro che dovessero credere di trovarsi di fronte ad un artefatto confortante, classico e dunque di facile digeribilità (Doin' Dirt, Respect The Drop, Psalm 23); nulla di più falso! L'arte di capovolgere l'analisi semiotica tradizionale si fa viva in tutta la sua proprompenza mediante stilettate al comun sentire quali Get It Dirty, Bounce Mission o Weed & Drinks: appare evidente la polemica nei confronti dell'establishment artistico, che finora riteneva di poter far muovere i culi e far versare Cristal nel club solo attraverso cifre stilistiche quali synth passati attraverso compressori da milioni di dollari ed un mixaggio professionale. Grazie alla collaborazione in tandem con Buckwild, il Nostro rivaluta in un'ottica postmodernista le tastiere Fisher Price e gli amplificatori deggli ambulanti che suonano jingle bells a natale in metrò. (i quali spesso portano l'ampli in uno zaino: un richiamo al suo personale passato di backpacker?) Analogamente veemente è il colpo che O.C. assesta allo stereotipo che un artista, per fare certa musica, deve esservi portato e non avere alle spalle un passato da liricista ortodosso: il suo strascicare parole e gli innumerevoli detournaggi di parole come "bounce" rende evidente la catarsi che egli cerca di far compiere ad un mondo che è evidentemente malàààto e che deve necessariamente affrontare i propri demoni per poter rivedere la luce. Un'epifania creativa che senz'altro non potrà non avvenire anche solo dopo un ascolto sommario a Bon Appetit, il quale grazie all'inversione dei segni ed alla stridente atonalità di composizioni quali, oltre alle già citate, possono essere Back To Cali o Pardise, non mancherà di aprire gli occhi all'ascoltatore sul lato oscuro del rap. Detta altrimenti, dove non sono riusciti gli Skiantos ce la fa O.C.; Bon Appetit: un'autentica merda d'artista.
Nas, O.C., i Black Moon: che dire, io adoro il cosiddetto "sophomore jinx", cioè la maledizione del successore del disco d'esordio perfetto. L'adoro non perchè abbia tendenze masochista, bensì perchè da un lato mi ricorda quanto imbecilli possano essere i fan in un particolare momento della loro vita, e dall'altro perchè mi fa venire una piacevole nostalgia e voglia di anni '90. Perchè dico imbecilli? Perchè non è possibile che un artista avente avuto un esordio perfetto (o quasi) debba poi passare il resto della sua carriera a prendersi i pesci in faccia da parte di chi gli rinfaccia di non aver saputo fare il bis - o sbaglio? Specialmente se in realtà la sua seconda opera non è in fondo affatto male ed anzi contiene alcune cose assai valide; un discorso, questo, che fila sia per un It Was Written che naturalmente per Jewelz, a patto che in ambedue i casi ci senda conto che è l'MC stesso ad essere profondamente cambiato e che alla luce di ciò sia fuorviante paragonare questi dischi ai predecessori. Infatti, l'unica cosa di cui si potrebbe accusare Omar Cradle (come Nas) è l'ipocrisia: voglio dire, dopo una Time's Up te ne esci con un album intitolato "Jewelz" (non sperare che qualcuno caschi nel doppio senso) in cui in più occasioni contraddici il te stesso di tre anni prima? Com'era, ancora, "I'd rather be broke and have a whole lotta respect"? Massì, possiamo anche farlo: O.C., bello mio, sei piuttosto un merdone. Però mi parrebbe stupido: perchè è vero che l'oltranzismo del suo precedente album è scomparso con la rapidità di un coguaro, però è altresì chiaro che non è stato sacrificato il legame con l'hip hop vero e proprio. Detto altrimenti, non si è passati da un estremo all'altro, come del resto si può facilmente notare anche solo dalla tracklist e dalla scelta dei collaboratori. Optare per un Premier, per un Bumpy Knuckles o per dei Beatminerz (inclusa naturalmente la D.I.T.C.) non mi sembra sia paragonabile al lavorare con Ma$e o a farsi produrre una traccia dai Trackmasterz, giusto? Ne consegue che le critiche ricevute all'epoca della pubblicazione erano in buona parte esagerate e sproporzionate rispetto ai puri meriti artistici, che in Jewelz risultano peraltro più sfaccettati che in Word... Life. E difatti di fronte a noi si aprono sostanzialmente due scenari: uno smaccatamente ruvido e, se vogliamo, purista: è rappresentato da pezzi come War Games, Win The G, The Crow e Jewelz. L'altro, invece, è più soft ma solo raramente scivolante nel melenso ed è costituito da The Chosen One, Stronjay, You And Yours e It's Only Right. E già che sto facendo la lista della spesa, diciamolo subito: dove O.C. fallisce è proprio nel secondo filone, quello diciamo "orecchiabile". La prima pecca è Far From Yours, in cui Yvette Michelle rovina definitivamente una traccia già non avvantaggiata da chissa chè beat; poi c'è Dangerous, che vedrà pure il Nostro duettare con un Big L in forma smagliante (e che infatti gli da una paga imbarazzante) ma ciò non basta per farci perdonare uno dei beat più brutti che abbia mai sentito produrre dai Beatminerz (bassi inesistenti, batterie di cartone, campione di Daisy Lady che puzza di jiggy da lontano un miglio... non fatemi dire altro); ed infine, last but not least, Can't Go Wrong, la quale sarebbe potuta andare bene al massimo come skit ma che nella sua monotonia e pochezza d'inventiva non regge i 3'46'' di durata. Ma tolte queste tre fetecchie il resto del materiale va dal bello al molto bello; l'eccezionalità non viene purtroppo raggiunta, ma a fronte di un ascolto complessivamente più che piacevole questa è una pecca facilmente perdonabile. My World, ad esempio, vede al campionatore il sempre affidabile DJ Premier il quale, pur non regalando la base della sua vita, dota di una buona costruzione melodica il Nostro, che difatti si fa trascinare dalla melodia di xilofono e flautino effettato (oppure un semplice fischio umano, difficile dirlo) e scrive tre buone strofe che contribuiscono a far scorrere il pezzo come olio. Tutt'altro discorso va invece fatto per Win The G., in cui su un beat nel suo minimalismo assolutamente superbo (beat, batterie ed un sample di campanelle ogni due misure) Bumpy Knucks e Omar fanno numeri da applausi. Approfitto per dire che in quest'occasione è interessante notare quanto l'alchimia tra i due funzioni bene, tanto che vien da spiacersi se si pensa che, a parte la successiva M.U.G. (anch'essa prodotta da Primo), negli anni a venire non avrebbero pià lavorato insieme. Ma tant'è. Di buona fattura anche se lievemente inferiore è l'ultima creatura di Premier, War Games, in cui gli Organized Konfusion vengono letteralmente sprecati per il solo ritornello ma che fortunatamente sanno comunque conferire energia ad una produzione forse troppo triviale; buoni risultati li ottiene anche The Chosen One, dove Buckwild, grazie ad un bel campione di piano elettrico e delle batterie di classe, si fa parzialmente perdonare le sue altre prestazioni onestamente deludenti. Lo stesso dicasi per i Beatminerz, che sia che si trovino in versione semiclubbeggiante (It's Only Right), sia che puntino ad una maggiore cupezza (Stronjay), ritrovano il senno e lavorano di bassi e batteria nella loro miglior tradizione. Ma alla fin fine la chicca di Jewelz, il pezzo non solo più bello ma anche tra i più longevi che conosca, è la title track: qui Lord Finesse campiona un magnifico bridge di Changing Face della J.J. Band e, data la bellezza di questo, non deve far altro che mettergli sotto delle batterie (che fanno solo da accompagnamento, quasi) per partorire un autentico gioiellino. Goiellino che, vivaddio, O.C. non spreca: è difatti anche la traccia in cui sia contenutisticamente che stilisticamente si trova la quadratura del cerchio, mentre nel resto del disco egli puntualmente passa da un aspetto all'altro con estrema decisione. Ah, ecco, visto che alla fin fine chi ricevette più critiche fu O.C. stesso, in quanto lo si accusò di aver annacquato il suo stile, possiamo col famoso senno di poi chiarire questo punto? Sì, e facciamolo constatando che effettiamente ora appare molto più rilassato e meno propenso a lasciarsi andare ad esibizioni di pura tecnica: per intenderci, non aspettatevi nulla di equiparabile alla seconda strofa di Constables. Tuttavia questo ammorbidimento non è in sè e per sè sgradevole ed anzi gli permette di scrivere cose come Hypocrite, Stronjay o appunto Jewelz che contenutisticamente sono assai interessanti. E d'altro canto anche i suoi rap da battaglia riescono ancora a colpire (cfr. M.U.G., Win The G e War Games), per quanto talvolta scivolino nella prevedibilità (My World) oppure nella più completa inefficacia (Dangerous). Ma nel complesso Jewelz si rivela essere un album a mio parere molto, troppo bistrattato. fermo restando infatti che non è un capolavoro e che vi sono pezzi brutti come loffi, lavorando nemmeno troppo di skippaggio si può assolutamente godere dell'ascolto. Anzi, all'epoca a me piacque davvero molto benché in giro ci fossero cosucce da nulla come Hell On Earth o Nocturnal e dunque, per quanto dopo dodici anni sia tentato di dargli un tre e mezzo, credo che farò affidamento alla memoria conferendogli quattro nobili zainetti.
In alcune delle passate recensioni ho più volte menzionato alcuni dei criteri che rendono classico un determinato disco. Volendo riepilogare grossolanamente, potrei per esempio citare la presenza di uno o più pezzi forti capaci di distinguersi dal resto delle tracce presenti, che comunque debbono essere tutte di alta qualità; poi, l'innovazione gioca un forte ruolo, certamente, ma non va scordato che anche la "sola" perfezione può bastare; in aggiunta a ciò si può scoprire che nella maggioranza delle pietre miliari si può notare la presenza dello Zeitgeist dell'epoca; infine, la coesione ha da essere presente affinché si possa notare una sorta di visione artistica complessiva, senza la quale si avrebbe una mera compilation e non il ritratto di un artista. Fermi restando questi punti, vorrei però aggiungere un elemento forse non fondamentale ma anch'esso sovente rintracciabile in album come It Takes A Nation Of Millions, AmeriKKKa's Most Wanted o The Infamous: la presenza di un concetto forte, personale, dichiarato per tutto il disco. Esso può essere estroverso (vedi l'afrocentrismo di fine anni '80) come introverso (l'arroganza e l'ultratamarria del fare bbrutto dei Mobb Deep) ma, a prescindere da ciò, questo se espresso bene andrà a creare schiere di accoliti ed anche "imitatori" e contribuirà in seguito a definire un certo modo di pensare. E Word Life fa esattamente ciò: principalmente attraverso il singolo Time's Up ma anche con pezzi tipo O-Zone o la traccia omonima, questi sintetizza il pensiero dei cosid. puristi, lo amplifica in un primo tempo, ed infine diviene esso stesso una sorta di Segno convenzionale. Senza scomodare De Saussure, basti andare col pensiero a qualsiasi backpacker degno di questo nome ed alla sua collezione di dischi... e TUTTI sono stati backpacker almeno una volta nella vita. Paradossalmente proprio io, che invece zainettaro continuo ad esserlo ininterrottamente da quindici anni e più, solo recentemente ho aggiunto ai miei dischi una copia originale di Word Life. Fino a poco tempo fa, difatti, a causa dell'irreperibilità dell'album e dei pregiudizi altrui (il "mentore" che mi iniziò al rap diceva che O.C. era solo bravino, pensate che coglione lui e più coglione io a dargli retta. Ma s'era sbarbi), l'esordio di Omar Cradle aveva girato prima su cassetta, poi su Minidisc, poi in Mp3 ma mai su ciddì. Fortunatamente, quella stessa buonanima di O.C. ha ben pensato di dare alla luce una sontuosa ristampa in cui oltre agli originali troviamo pure un paio di remix, inediti e chicche oramai introvabili; sicché a questo punto l'acquisto è divenuto obbligatorio e pertantoi eccomi qua a svelare per un'ennesima volta la bellezza di questo prodotto. Il singolo, per esempio, lo conosceranno cani e porci ma come esimersi dal tesserne le lodi e sottolinearne la magnificenza? Negli anni Time's Up non solo è diventato un punto di riferimento concettuale per molti, ma soprattutto è uno dei rari esempi di vera perfezione: la produzione di Buckwild, che campiona Dolphin Dance, è nel tempo giustamente assorta a pietra miliare del beatmaking in quanto non solo riesce a dare un taglio squisitamente hardcore al pezzo originale (paragonare per credere: Resurrection di Common), non solo lavora di batteria in un modo tale da astrarsi dal sound tipico dell'epoca, ma come ciliegina sulla torta vi inserisce dei cut di Slick Rick che raramente come in quest'occasione s'imprimono nella mente e diventano parte essenziale della canzone. E O.C., dal canto suo, rilascia due strofe dense di frasi che negli anni sono state più volte campionate -e fin qui nulla di particolarmente eccezionale- ma che soprattutto sono diventate un manifesto di cosa significhi nel concreto l'emceeing. In tal senso citare la celeberrima frase "I'd rather be broke and have a whole lotta respect" è tanto scontato quanto obbligatorio, perchè aggiunge al classico "devi essere bravo" un concetto più vicino a concetti etici che puramente artistici; concetto, questo, che più di una volta era stato implicitamente dichiarato da altri suoi colleghi ma che ora trova la sintesi definitiva. Ma per quanto questa dichiarazione intenti sia decisamente forte in Time's Up, fortunatamente non lo è a sufficienza per gettar ombra sugli altri pezzi. Impossibile infatti non notare la potenza di O-Zone, sì più classica come beat che come esposizione dei concetti ma non per questo meno d'impatto; o la stupenda Word... Life, la cui matrice jazz conferisce una melodia orecchiabile che ben s'accompagna al tiro lievemente più veloce della media. E se i contenuti in ambedue questi pezzi rientrano comunque nella categoria del "vi faccio vedere io chi ci sa fare", bisogna ammettere che O.C. riesce anche a sconfinare in territori con un approccio decisamente personale: Ga Head, ad esempio, di primo acchito potrebbe sembrare il consueto sfogo nei confronti della ragazza macchiatasi di adulterio; ma al di là del fatto che l'esecuzione è comunque degna di nota, il fatto che si scopra che il tradimento è avvenuto seguendo le vie di Saffo rende il tutto meno scontato (e per certi versi più tragicomico). Le fa sponda Let It Slide, ancora più unica della precedente nel suo sostenere che talvolta, anzichè accettare provocazioni, è meglio lasciar correre (se ci pensate, una simile affermazione in un contesto sostanzialmente da bullo come quello del rap è abbastanza clamorosa); o, ancora, Constables, che pur riproponendo il tema già esplorato della violenza da parte delle forze di polizia gli da un taglio meno estremista della media e soprattutto lo fa attraverso uno storytelling che anche nella peggiore delle ipotesi rende più digeribile l'insieme. Per il resto non è che i temi si discostino un granché dagli standard reppusi del tempo, ma al di là dell'esecuzione stessa sono i beat di Buckwild (e di Ogee e degli Organized Konfusion) a fare la parte del leone. Eccetto Born 2 Live -un tentativo di crossover non proprio riuscitissimo- le musiche sono straordinarie. Il punto di riferimento più vicino che posso trovare è Pete Rock (soprattutto in Point O Viewz), ma sarebbe del tutto sbagliato non riconoscere il talento e l'originalità del Nostro, che in questo album riesce a concentrare una varietà di atmosfere considerevole, certamente, ma soprattutto contribuisce attivamente a dettare gli standard del sound nuiorchese dell'epoca. Pensate, infatti, ai nomi di album che inevitabilmente vi vengono in mente quando qualcuno vi chiede degli esempi della New York di metà anni '90: The Infamous, Illmatic, Living Proof, Ready To Die e, appunto, Word Life -non si sfugge. Anche in questo caso, in realtà, le cose da aggiungere in materia sarebbero molte; dal canto mio, però, non solo reputo che vi sia gente che lo ha fatto meglio di quanto potrei io, ma soprattutto che la cosa più logica da fare sia ascoltare il tutto in prima persona (nella rara eventualità che non lo si fosse già fatto). Detto ciò, mi pare evidente che di fronte abbiamo un vero e proprio classico nonchè l'opera migliore di O.C.; una pietra miliare che, al pari di Illmatic (MC Serch è coproduttore di ambedue gli album), pur non raggiungendone la stessa perfezione è imprescindibile per chiunque abbia a cuore un genere musicale in cui da sempre si deve scremare parecchio per trovare autentiche perle.
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