Visualizzazione post con etichetta *Jackpot - The 5 Backpacks Winners*. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta *Jackpot - The 5 Backpacks Winners*. Mostra tutti i post

martedì 9 marzo 2010

GANGSTARR - MOMENT OF TRUTH (Noo Trybe, 1998)

Moment Of Truth è, come ogni capolavoro, un insieme di sfaccettature la cui somma delle parti trascende la mera matematica per diventare un qualcosa di assolutamente unico da qualsiasi prospettiva lo si voglia inquadrare. Non è solo un disco oggettivamente perfetto in cui si ritrova la sublimazione di una formula, è anche una specie di "segnalibro" avente un valore al contempo universale e personale: esso segna l'apice di un'epoca, indicando en passant l'evoluzione di quella che la seguirà e lasciando, di sponda, un segno indelebile nella memoria di chiunque lo abbia ascoltato all'epoca.
La pubblicazione di Moment Of Truth contrassegna infatti la definitiva spaccatura tra mainstream e underground, caratterizzando lo stile di quest'ultimo come nessun'opera era riuscita a fare fino a quel punto e nemmeno più vi riuscirà in futuro: pensate solo all'ondata di beat di Premier che avrà luogo tra il '98 ed il 2002 e, durante e dopo di essa, l'ondata di relativi imitatori (che quasi finirà con lo screditare un certo tipo di produzioni). E così si può dunque senz'altro parlare di enorme influenza in ambito musicale, non c'è dubbio; ma sarebbe peccaminoso fermarsi qui, e allora aggiungiamo che esattamente così come sorprendente fu il cambio di rotta di Primo in Daily Operation, ad esserlo qui è quello di Guru. Keith Elam forse non si era mai distinto per capacità di stupire, bensì per qualità e consistenza; ma in MOT è impossibile non riconoscere la vertiginosa crescita avuta da questi, prima ancora che in termini puramente tecnici, in quelli di scrittura.
Bene: questa unione di talenti è riuscita, dodici anni fa, a creare una di quelle poche opere dotate di tale bellezza da farti ricordare esattamente cosa stavi facendo nel momento in cui dalle casse dello stereo cominciavano ad uscire i primi suoni del campione di Flash It To The Beat e si sentiva Primo andare in voiceover gridando "The real... hip hop... emceeing and deejaying, from your own mind you know". Non vi annoierò con inutili note autobiografiche, ma state pur certi che è assai probabile che anche tra vent'anni mi ricorderò di quel pomeriggio di aprile del '98.
E come è già stato fatto notare altrove, il miglioramento di Guru è la prima cosa che si nota dopo essersi ripresi dall'impatto delle batterie di Preem: le sue tre strofe di battle rap purissimo trasudano personalità e confidenza in sè stesso come solo uno come lui potrebbe avere, e ora che si giunge al primo ritornello -cuttato, va da se- si ha abbassato ogni sorta di guardia e ci si è lasciati conquistare ancora una volta da questo duo. Una sorta di ipnosi, questa, che se subisce un microscopico rallentamento nella successiva Robbin' Hoodz Theory, vede da Work in poi un'impennata che prosegue pressoché senza soste fino alla fine del disco. Un fattore raro e che diventa quasi unico se consideriamo la durata dell'opera, cioè 20 tracce per quasi ottanta minuti di musica.
Ora, stabilire quali sono le fondamenta che reggono l'eccezionalità di Moment Of Truth è abbastanza semplice: si tratta di perfezione, varietà e profondità. La prima delle tre è facile da riconoscere ma difficile da spiegare, a meno che non si voglia provare a mettere nero su bianco quello strano «qualcosa» che spinge noialtri ascoltatori di rap a nicchiare con il capo come dei piccioni dementi. Più semplice risulta allora provare ad illustrare le altre due principali caratteristiche di questo disco, partendo dalla varietà. Varietà che si manifesta sia in termine di beat che di contenuti: i primi infatti possono passare con disinvoltura dalla durezza di You Know My Steez al soul di JFK To LAX, dalla malinconia di Betrayal all'aggressività di Militia, dal minimalismo di It's A Setup alla ricchezza di suoni di Royalty. Eppure, in tutti questi si sente il tocco di Premier e soprattutto affiora la convinzione, la certezza, che nessuno eccetto lui avrebbe mai potuto produrre del materiale così efficace oltre che bello: Work, per esempio, cattura l'ascoltatore non solo grazie alla sua forza d'impatto ma anche grazie alla melodia, esattamente così come il loop di piano di What I'm Here 4 attrae grazie alla sua leggerezza pur risultando a conti fatti piuttosto semplice nella struttura. Un'efficacia che si rispecchia anche nelle prestazioni di Guru, che mantiene una personalità a cavallo tra la durezza, la coscienziosità ed un generale coolness che da sempre contribuisce a rendere i suoi testi ancor più interessanti da ascoltare.
E volendo ora spendere due parole sulla terza ed ultima caratteristica di rilievo di Moment Of Truth, ossia la profondità, è doveroso tirare finalmente in ballo Guru e vedere quali sono stati i suoi miglioramenti. Il primo risulta evidente e riguarda la tecnica; laddove egli era sempre stato pulito ma un po' rigido nella metrica, qui ha fatto un notevole salto di qualità costruendo intrecci di sillabe ben più complessi ma che comunque non vanno a scapito del messaggio. Ed è proprio questo messaggio, o per meglio dire le modalità con cui esso viene portato all'ascoltatore, ciò che in realtà alla fine risalta maggiormente nei testi di quest'album. Attraverso gli occhi dell'autore ci viene consegnata una visione su diversi aspetti della vita che passano dai più futili a quelli più seri, col risultato finale di riuscire a stimolare un pensiero senza per questo annoiare o suonare eccessivamente autoesegetico. Difatti, per quanto il Nostro gonfi giustamente il petto in pezzi come You Know My Steez o The Rep Grows Bigga, le numerose autocritiche contenute in JFK To LAX o Moment Of Truth non lo fanno sembrare un abbaione; e se la serietà di una Betrayal o di una What I'm Here 4 potrebbero risultare pedanti se ripetute in ogni traccia, allora ecco che, senza sconfinare nel semplice battle rap, ci pensa un B.I. VS Friendship a riportare il mood su un binario più leggero. Aggiungiamo a tutto questo una serie di pezzi fatti per deliziare il palato del fan di rap duro & puro -la celebre Above The Clouds, It'z A Set Up o The Militia- oltre a numerosi ammiccamenti al mondo femminile, ed ecco che l'equilibrio presente in questi 80 minuti scarsi di musica si guadagna un'importanza pari a quella della tanto acclamata produzione musicale di Premier.
Dal canto loro, gli ospiti spezzano adeguatamente il flusso del disco e nessuno di essi si produce in performance inferiori alle aspettative. Anzi: Deck fa meraviglie e la sua strofa in Above The Clouds è giustamente considerata come una delle sue cose migliori; gli M.O.P. conferiscono una sana dose di aggressività a B.I. VS. Friendship, così come del resto fa Bumpy Knuckles in Militia; Scarface si conferma come uno degli MC più sottovalutati di sempre e Hannibal Stax, infine, scrive sedici misure assolutamente eccezionali dove usa una metrica che ancor'oggi mi lascia a bocca aperta. Unica nota negativa: G-Dep e Sha in the Mall che, come del resto tutta la canzone (francamente fiacca -e stupida- se paragonata al resto dell'album), si producono in versi che fortunatamente il flusso del tempo ha già cancellato.
Conclusione? Massimo dei voti, si capisce; più il mio personale riconoscimento come miglior album dei Gangstarr nonché uno dei dieci dischi fondamentali degli anni '90, accanto a robette come Illmatic, Enter The Wu e Infamous.





Gangstarr - Moment Of Truth

VIDEO: ROYALTY

lunedì 22 febbraio 2010

EPMD - BUSINESS AS USUAL (Def Jam Remasters, 1990/2000)

L'ultima volta che ho scritto qualcosa sugli EPMD è stato quasi due anni fa, e da lì in poi è calato un silenzio assordante sul duo di Long Island. Il che per certi versi è strano, in quanto questa lunga pausa non ha coinciso con un mio disinteresse nei loro confronti. Tutt'altro. Ma forse ciò dipende solo dal fatto che ora, al posto degli entusiasmi iniziali ora vi sia solo una certa fiducia, una certa intesa, non diversa da quella che si ha con certi amici che si conoscono fin dall'infanzia, e dei quali magari non si parla ma sui quali si può sempre fare affidamento.
E gli EPMD appartengono appunto alla mia personale schiera di amici d'infanzia, se così li vogliamo definire, assieme ad altri come i Gangstarr, gli ATCQ o il Wu. Senonché loro sono coloro sui quali ho dormito più a lungo, cominciando a manifestare un certo interesse per le loro prime opere solo nel periodo tra Back in Business e Out Of Business; e anche una volta scoperte canzoni come Headbanger o You Gots To Chill ci ho messo il mio tempo prima di carpire appieno la grandezza di Erick & Parrish. Ma che volete, su certe cose sono un diesel; sia come sia, andando a ritroso nel tempo ho potuto stabilire quanto essi siano a livello personale uno dei gruppi pre-1990 che più ascolto volentieri, e a livello oggettivo uno di quelli che hanno saputo rinnovare il suono di un'intera città e di un'intera costa semplicemente attraverso la pubblicazione della loro musica.
Infatti, che cos'è che rende i loro album ancora così godibili? Non di certo le rime, che oggi suonano assai invecchiate sia per questioni di slang (ad esempio il mitico "Peace, and I'm Audi 5000) che di metrica o tecnica (cfr. il «call and response» delle varie Jane, per dire, o i vari omaggi a DJ Scratch), bensì il sound. Guardiamo per esempio a Business As Usual -ricordandoci comunque che il discorso si applica a maggior ragione alle opere precedenti: innanzitutto si nota quanto il funk sia un elemento fondamentale della cifra stilistica di Erick Sermon, che riesce ad inserirlo quasi in ogni traccia in una maniera molto più organica di quanto non si facesse allora. Mi spiego meglio: anziché campionare magari singoli suoni o brevissimi loop inferiori agli ormai canonici sei secondi, Sermon prendeva intere sezioni di fiati o di basso da qualche pezzo dei Parliament o di Curtis Mayfield e le lasciava scorrere senza metterci troppo le mani, nemmeno in termini di velocità o pitch. Una relativa rarità per l'epoca, specialmente nella Grande Mela, e se non vi fidate basta ascoltare Business As Usual e paragonarlo a, che ne so, Let The Rhtyhm Hit'Em o Live And Let Die, ossia due lavori eccelsi ma che rispetto a questo oggi suonano del tutto obsoleti.
Con questo non voglio ovviamente dire che le produzioni dell'Erick Sermon del 1990 potrebbero stare a fianco di beat di Polow Da Don del 2010 -emmenomale, aggiungo- bensì che conservano dei tratti di freschezza sorprendenti e che per motivi anagrafici nemmeno riesco a contestualizzare correttamente. Dunque, che passi di qui qualcuno dei soliti quarantenni per dirmi cosa non doveva essere sentire il campione della Love Unlimited Orchestra di Manslaughter, oppure quella bomba che è Hydra di Grover Washington in Underground, utilizzate in quel modo vent'anni fa.
Dal canto mio posso solo mostrare stupore & meraviglia per il lavoro svolto in questo disco da Sermon, anche perchè moltissimi dei sample presenti in Business As Usual (e ce ne sono a milioni e pure riconoscibilissimi, visto che il disco uscii prima del bordello sui diritti d'autore) sarebbero stati ripresi -spesso e volentieri senza significanti variazioni- negli anni a venire. Un fatto, questo, che spiega in maniera definitiva come mai quest'opera -e le altre della tetralogia originale- suoni così fresca malgrado l'età: infatti, persino chi se la perse al momento dell'uscita originale ha avuto modo di assimilarla «di sponda» negli anni, magari ascoltando gente che con gli EPMD non c'entrava nulla (esempio cretino ma simbolico: You Should be Mine di Roger Troutman la possiamo sentire nel '92 in Crossover e nel '95 in Però Dai Sì di Mauro Repetto. 'Nuff said.).
Avendo ora constatato la grandezza delle produzioni, che nel futuro si manterranno su livelli eccelsi ma senza raggiungere le vette d'innovazione qui toccate per l'ultima volta, è venuto il momento di parlare di emceeing. Emceeing che, nonostante un'evidente invecchiamento, se contestualizzato si dimostra essere il migliore raggiunto dal duo fino ad allora. Questo vale specialmente per PMD, all'epoca ancora capace non solo di dare la paga al suo compare come e quando gli pareva, ma anche di uscire a testa alta dal confronto con un esordiente Redman e soprattutto con un LL Cool J in modalità Jack The Ripper. Non una cosa da poco. E a conti fatti, se da diversi aspetti si nota che le liriche sono state scritte vent'anni fa, dall'altro resta apprezzabile la varietà offertaci: si passa ad esempio da uno degli episodi migliori di Jane, se non forse il migliore (anche se come beat preferisco la precedente), all'esilarante Mr. Bozack, storytelling estremo in cui la prosopopea fa da padrona e su cui c'è poco da dire se non che SEGUE SPOILER impersonare un pisello infetto da malattia venerea FINE SPOILER è cosa che oggigiorno nessuno avrebbe più il coraggio di fare. Hit Squad Heist invece pone le cose in una prospettiva più seria e "cinematica", così come del resto il loro approccio da "integralisti" ante litteram sempre pronti a denunciare l'annacquamento del rap in ogni suoa forma e circostanza.
Conclusione? Una sola, e cioè che se non me la sento di conferire gli allori di classico a quest'album è solo perchè prima di esso sono venuti Strictly Business e Unfinished Business. Ma che esso sia perfetto, questo sì che lo posso scrivere senza temere di essere sbugiardato.

[Edit: andatevene a cagare. È l'album dei due che preferisco, quello nel complesso più vario e più fico. Nulla contro gli altri, ci mancherebbe, ma questo vince. Epperò mi son detto: "Calma e gesso. Quello prima era sicuramente più fresho, per cui fai che dare 4 e 1/2 e 5 all'altro. Ma visto che mi sto prendendo del coglione e -cosa ben più grave- io per primo sospetto che ciò sia a ragion veduta, torno sui miei passi e do cinque come d'istinto sarei stato portato a fare. Quel che è giusto è giusto. Ma sappiate che lo faccio in questo caso e non per gli S&W, in cui il 4 e 1/2 continua ad essere giustificato]





EPMD - Business As Usual (link alternativo, se alcune tracce non funzionano non so che dirvi)

VIDEO: RAMPAGE

martedì 9 febbraio 2010

GOODIE MOB - SOUL FOOD (Laface, 1995)

Se qualcuno è rimasto perplesso per la recensione di ieri e per il voto assegnato a Stunts Blunts & Hip Hop, allora aspettate di giungere al termine di questa recensione; ma prima di farlo leggete tutto per bene, per favore, cosicché non mi rompiate i coglioni a vuoto con appunti e rimostranze inesatte costringendomi oltretutto ad inutili autocitazioni. Grazie.
Detto questo, innanzitutto cerchiamo di cominciare a dare una descrizione quanto più completa di quest'opera partendo dal titolo; un elemento, questo, tradizionalmente poco rilevante nell'hip hop -dove a contare è l'allure di ficaggine più che il concetto, ammettiamolo- ma che stavolta ha un senso che vale la pena di esplicare soprattutto in considerazione dell'esotismo culturale che vi è insito. Partiamo dunque dal termine. Per «soul food» s'intende la cucina povera tipica delle classi mediobasse residenti negli stati americani del sud, le quali sono composte in stragrande maggioranza di afroamericani -inventori di una gastronomia che ha come tratto principale quello di essere ipercalorica, speziata e fondamentalmente tanto indigeribile quanto gustosa (immaginatevi perciò un bue impanato farcito di cozze, pizzoccheri e curry). Ma oltre all'accezione più squisitamente legata all'arte dei fornelli, ho letto -e mi è stato confermato- che parlare di «soul food» corrisponde all'evocare immagini di unità famigliare, e proprio quest'aspetto è quello che i Goodie Mob intendevano sottolineare dando questo nome all'album.
Perchè se da un lato possiamo facilmente cogliere il doppio senso del «cibo per l'anima», o dire mediante una metafora facile facile che il piatto offertoci dal quartetto di Atlanta è ricco e gustoso nella sua semplicità, dall'altro è forse meglio evidenziare il richiamo all'unità espresso mediante diversi messaggi contenuti nell'ora di durata di Soul Food. Il quale risulta interessante, profondo e sentito come poche altre opere perchè non viene espresso in maniera diretta e/o didascalica, bensì attraverso l'esposizione (quasi sempre autobiografica) dei tanti mali che affliggono il loro mondo, e la contrapposizione ad essi dei pochi momenti positivi che li rendono superabili. E, ovviamente, questi momenti positivi hanno come comune denominatore l'unità, unica panacea possibile per flagelli quali la guerra tra poveri, il razzismo, l'isolamento dal mondo dl benessere e via dicendo.
Ma malgrado questo messaggio positivo, che resta costantemente sullo sfondo, Soul Food è tutto fuorchè un disco solare e perciò si distanzia nettamente dalla scuola dei Native Tongues. Mi preme di nuovo sottolineare il fatto che l'unità viene (sotto)intesa come unica via d'uscita possibile per la situazione presente, e che questa indicazione ci arriva attraverso l'esposizione del background in cui i quattro si trovano a vivere anzichè come gioioso richiamo alla fratellanza in nome del volèmose bene. Critica, paranoia e senso d'oppressione sono presenti in dosi massicce già nel coraggioso singolo Cell Therapy, in cui possiamo ascoltare squarci di angoscia come questi: "Me and my family moved in our apartment complex/ A gate with the serial code was put up next/The claim that this community is so drug free/ But it don't look that way to me, cause I can see/ The young bloods hanging out at the store/ 24/7 junkies looking got a hit of the blow, it's powerful" oppure "United Nations overseas, they train assassins/ To do search and seize, aint knocking or asking/ Them coming for niggas like me/ Poor white trash, like they, tricks like her back in slavery". Ma non è tutto qui: in Live At The O.M.N.I. il quartetto si scaglia contro le logiche del sistema carcerario americano e soprattutto contro la repressione poliziesca, specialmente se esercitata da quella che loro considerano la propria gente: "I went to jail fo' the cause/ And to the black police: wouldn't give 'em the sweat off my fuckin' balls/ Suckin' on the devil's dick/ Already kissin his ass for a ten dollar raise, bitch/ Beat me down for some petty cash/ Smilin' in my face as the beast looked and laughed".
E se quasi ovunque nel disco si possono leggere messaggi di questo tenore (anche se non sempre così specifici), come in I Didn't Ask To Come, Sesame Street o The Coming, alla fin fine quelle che marcano in maniera definitiva la specificità dei Goodie Mob sono senz'altro la title track (inusualmente leggera rispetto al resto) e soprattutto la traccia denominata Dirty South: il fattoo che sia stata questa canzone a descrivere fin da subito un'intera regione credo basti per indicarne l'altissima rappresentatività. Ascoltare per credere.
Del resto, se i loro messaggi centrano tutti il segno è perchè appare evidente la loro trasparenza e la loro onestà nel descrivere date situazioni così come se stessi; non una volta infatti si fa vivo il sospetto che stiano esagerando nel narrare una determinata situazione, magari per farci una figura migliore; anzi, in casi come Guess Who (una delle migliori dediche alle madri assieme all'intramontabile Dear Mama di 'Pac) si nota quanto siano al contempo profondi e schietti. E alla fine, quando si prendono una pausa da tutta la serietà del disco con l'immancabile ode al fumo che è Goodie Bag, ci si rende conto che quello che abbiamo di fronte è uno dei gruppi più credibili di sempre.
Nulla contro i Public Enemy, per esempio, ma la quasi totale assenza di autobiografismi (passatemi il termine) alle volte me li ha resi freddi, distanti; idem i Dead Prez, che oltretutto ai miei occhi si sono sputtanati con la über-farlocca Mind Sex; e anche gli N.W.A. risultavano così iperbolici da far passare spesso in secondo piano il succo dei loro discorsi. I Goodies, invece, pur mantenendo un approccio sociale molto marcato sono riusciti a conservare un'attitudine da strada -da non confondersi con gangsterismi di sorta- a cui moltissimi MC e gruppi che gli sono succeduti negli anni devono qualcosa. Ma su quest'aspetto tornerò dopo, intanto lasciate che elogi la bravura di T-Mo, Big Gipp, Cee-Lo e Khujo, perchè senza di essa molta della bontà di Soul Food sarebbe andata persa. Grazie invece alla loro abilità di MC e, soprattutto, di scrittori, la forza del messaggio guadagna punti risultando inoltre un piacere per l'orecchio, complici le loro metriche elastiche e gli accenti del sud; ciliegina sulla torta è l'alchimia sussistente tra i quattro, cosa più unica che rara e lampante in uno qualsiasi dei numerosi passaggi di microfono che avvengono nel corso del disco.
Ebbene: al loro ormai conclamato ma sempre stupefacente talento vanno ad affiancarsi dei beat che definire perfetti sarebbe poco. Ma attenzione: quando scrivo "perfetti" vorrei che fosse chiaro che mi riferisco soprattutto alla capacità che essi hanno di fondersi con le liriche per accentuarne l'evocatività e l'atmosfera. Gli Organized Noize hanno qui fatto un capolavoro, creando un suono organico dotato sì di chiari riferimenti al miglior sound di New York, ma capace al contempo di distanziarsi da esso e suonare fresco ed originale. Apprezzabile è inoltre la totale assenza di synth o ammiccamenti alla west coast -cosa invece sovente presente nei dischi dell'epoca provenienti dal sud, cfr. 8Ball & MJG o i Geto Boys- il tutto a favore di batterie belle pesanti avvolte in bassi corposi e campioni minimalisti degni dei migliori Beatminerz. E la loro capacità di creare beat efficaci, sporchi e d'atmosfera è aiutata molto dal fatto che spessissimo vi siano uno o più strumenti suonati live (cosa che si sente, credetemi, sentite solo l'attacco di Sesame Street), che pongono la cosiddetta ciliegina sulla torta rendendo Soul Food una delle opere meglio prodotte di tutto il decennio. Stando così le cose è difficile stabilire quali siano i pezzi migliori, al limite si possono avere delle preferenze personali: le mie vanno senz'altro a Sesame Street, Guess Who, The Coming e The Day After, ammesso che la cosa possa interessare.
Insomma, a conti fatti mi riesce impossibile non definire Soul Food un capolavoro degno di stare a fianco di Enter The Wu o Word Life: l'esecuzione è perfetta, originale, intelligente e creativa e ad oggi nessuno è stato capace di battere i Goodie Mob sul loro terreno. Ascoltare quest'album insegna diverse cose su determinate realtà e, soprattutto, ascoltarlo senza provare un certo tipo di partecipazione è impossibile -e se succede a me, che con loro non centro assolutamente nulla, non fatico a capire come mai al di sotto della linea Mason-Dixon sia venerato come un'opera unica. Ma non crediate che l'influenza avuta da Soul Food si sia limitata alla Georgia o al Texas, in cui è peraltro evidente; pensate a tutto il cosiddetto "blue collar rap" che oggi va tanto e viene giustamente acclamato: da dove pensate che venga, chi pensate che l'abbia forgiato nella sua forma attuale? Certo, sarebbe probabilmente nato anche senza questo disco, ma visto che la storia non si fa con i "se" vi suggerisco di pensare ai Goodies ogni volta che vi vien voglia di dare un ascolto ai Little Brother, ai Cunninlynguists (i loro eredi spirituali più vicini non solo geograficamente), a Blu o Talib Kweli. E casomai doveste leggere queste righe ed ascoltare Soul Food mentre siete ancora ai primi passi di rap, e non vi dovesse piacere praticamente per nulla, fatevi dare un consiglio: compratelo lo stesso perchè tempo due-tre anni e comincerete a cambiare idea su di esso fino a giungere alla sua venerazione, esattamente come successe a me quindici anni fa.





Goodie Mob - Soul Food

VIDEO: CELL THERAPY

lunedì 8 febbraio 2010

DIAMOND D & THE PSYCHOTIC NEUROTICS - STUNTS, BLUNTS & HIP HOP (Chemistry/Mercury, 1992)

A causa della mia ignoranza per lungo tempo ho reputato il 1992 come un anno piuttosto fiacco per l'hip hop; la mia soddisfazione per i vari Mobb Deep e Heltah Skeltah dell'epoca non mi spingevano a grandi ricerche e/o retrospettive, e così c'è voluto un po' di tempo per farmi scoprire che diciotto anni fa apparvero sul mercato musicale dischi storici (o quasi) come Mecca & The Soul Brother, Don't Sweat The Technique, Live And Let Die, Runaway Slave, il primo di Redman e soprattutto questo Stunts, Blunts & Hip Hop. Pazienza: meglio tardi che mai, direbbe qualcuno.
Purtroppo, però, questa mia défaillance non solo ha fatto sì che all'epoca mi perdessi della musica di indiscussa qualità ma, peggio ancora, mi ha fatto perdere quasi del tutto la possibilità di contestualizzare quest'ultima in modo tale da poterne parlare con sufficiente competenza. Oltretutto, trattandosi in questo caso di un'opera che si distingue prevalentemente per il beatmaking, il mio non essere un produttore o un cosid. crate digger comporta inevitabilmente una minore capacità analitica di quella che Stunts Blunts & Hip Hop meriterebbe. E dico ciò in quanto ritengo che se la stragrande maggioranza dei beat di Diamond D "funziona" ancora oggi è perchè dietro ad essi non via è solo perizia ma anche grande tecnica e, ovviamente, non poco talento.
Ma tant'è, inutile piangersi addosso, anche perchè fin dal titolo si può intuire che il Leitmotiv di questo esordio -uno dei migliori di sempre- è il cazzeggio in tutte le sue forme a partire proprio dall'hip hop come mezzo d'espressione. Non c'è molto né dei Public Enemy, né degli N.W.A., ma solo un'attitudine smaccatamente nuiorchese e decisamente ortodossa nel suo immaginarsi la musica principalmente come sfogo creativo a tutti costi. E così ecco che uno storytelling tutto sommato moralista come Sally Got A One Track Mind riesce a convivere tranquillamente con uno decisamente più ghettuso come I'm Outta Here; e le varie Check One Two, Fuck What You Heard o Keep It Simple Stupid alla fine non fanno che sottolineare quanto Diamond D tenga all'intrattenimento più che ad ogni altra cosa. Un obiettivo, questo, che secondo me diventa condivisibile appieno solo nel momento in cui esso è realizzato bene, e fortunatamente ciò avviene praticamente sempre. Il successo è dovuto naturalmente a Diamond stesso, che forse non dimostra l'agilità lirica di Big Daddy Kane ma di certo si difende bene per l'epoca -non solo contro colleghi come Large Professor o Pete Rock ma anche contro gente tipo il primo Sadat X o persino il compagno di crew AG; ma oltre a ciò, oltre alla sua bravura, buona parte del merito va ai diversi ospiti, che così riescono ad offrire quel po' di varietà che lo stile piuttosto asciutto del Nostro da solo non saprebbe dare. Liricamente non ci sono momenti fiacchi, e l'inventiva qui mostrata nel creare metafore (si vede che frequentava Finesse già da tempo) alla fine fa scivolare in secondo piano una metrica non particolarmente originale ed un timbro vocale abbastanza monocorde.
Ciò detto, veniamo al punto focale del discorso: i beat. Tanto per cominciare sarei curioso di sapere quanti dei campioni qui usati hanno visto il loro debutto sulla scena grazie a Diamond D e, soprattutto, quanti di essi sono stati poi riciclati più e più volte negli anni a seguire. Come vi ho già detto, non è che la mia conoscenza musicale in tal senso sia un granchè, ma posso quantomeno farvi un paio di esempi: Ready Or Not dei Delfonics, Faded Lady dei SSO, Pride And Vanity degli Ohio Players (uno dei miei campioni preferiti di sempre) o American Tango dei Weather Report… Da questo punto di vista non solo è positivo che oggigiorno si conoscano quasi tutti i sample utilizzati in SB&HH, visto che si può accrescere la propria cultura musicale non solo in termini accademici, ma soprattutto lascia sgomenti vedere quanti campioni si possono trovare in un solo pezzo (del resto quest'album è forse l'ultimo pubblicato prima che gli effetti della causa contro Biz Markie si facessero sentire in tutta la loro forza). E alla fin fine, com'è ovvio, il poter attingere a così tante fonti sortisce i suoi effetti: musicalmente quest'album è di una varietà impressionante, e pur avendo un mood riconducibile principalmente al jazz non sfuggono le numerose incursioni nel soul e nel funk. E a colpire non è solo la diversa natura dei sample ma anche le diverse velocità, la ricchezza delle composizioni così come anche alle volte la loro semplicità. Fate una prova: passate da Sally Got A One Track Mind a Day in The Life a Check one Two e a momenti penserete che il produttore non possa essere lo stesso.
Last but not least, uno dei più grandi pregi di questo disco è quello di suonare ben più attuale di altri prodotti usciti nello stesso periodo: I Went For Mine per esempio potrebbe benissimo passare per qualcosa di MF Doom, K.I.S.S. invece per un J. Rawls, What You Seek per materiale dei Jurassic 5 meno noiosi e Confused per un Oh No del 2004/6. Insomma -complice anche il revival degli ultimi anni- il punto è che Stunts Blunts & Hip Hop aggiunge ad un valore storico inconfutabile quello di puro godimento, anche a distanza di diciotto anni. Prova di ciò ne è il fatto che, paradossalmente, l'impressione di attualità è da me più sentita oggi che non quando acquistai originariamente questo disco, ossia nel '99 (sì, lo so, sono un marcione eccetera eccetera).
Morale della favola? Morale è che più passa il tempo e meno si tiene conto -se non della rilevanza- della bellezza di un album come Stunts Blunts & Hip Hop. Cerchiamo di evitare, ok? E prima di comprarvi l'ennesimo disco -magari anche bellino- di quest'anno, date un ascolto a Diamond D. Potreste cambiare idea circa le priorità degli acquisti. A qualcuno il pieno dei voti e lo status di classico potranno sembrare esagerati, ma francamente trovo che questo sia il migliore disco della D.I.T.C. dei primi temi nonché un'opera capace di reggere tranquillamente il confronto con cosucce tipo Mecca & The Soul Brother o Live And Let Die.





Diamond D & The Psychotic Neurotics - Stunts, Blunts & Hip Hop

VIDEO: SALLY GOT A ONE TRACK MIND

venerdì 8 gennaio 2010

MOBB DEEP - THE INFAMOUS (Loud/RCA, 1995)

Ci sono artisti per i quali compilare raccolte antologiche è quasi una necessità, in quanto la loro discografia è qualitativamente frammentaria e perciò farne una sorta di riassunto quasi giova alla loro reputazione; altri, invece, ne hanno bisogno perchè la loro carriera è talmente lunga che avere una sorta di Bignami può aiutarli a guadagnare i fan più giovani. Altri ancora, infine, presentano una peculiarità parecchio tediosa per chi si dovesse cimentare in questa sorta di operazione, consistente cioè nell'avere all'attivo un album definibile come «classico» a tutti gli effetti: non solo quindi per quanto riguarda strettamente la loro storia, ma quella della musica in generale. Succede perciò che il compilatore da un lato deve necessariamente scremare del materiale, ma dall'altro sarebbe spinto ad includere l'intera opera e bona lé. Questo è il caso di Nas, di GZA, dei Public Enemy e, appunto, dei Mobb Deep.
Infatti, quando qualche tempo fa mi sono cimentato nella loro antologia, pur disponendo di ben 240 minuti di tempo/spazio vi giuro che ero tentato di includere l'intero The Infamous: ma non solo perchè questo disco è uno dei pilastri della storia dell'hip hop, ma anche perchè personalmente il mio legame con questa meraviglia di album è fortissima, forse ancor più che con Illmatic o Liquid Swords. Non scherzo quando dico che da quattordicenne quest'album segnò i punti cardinali di quello che per me dev'essere innanzitutto il rap, cioè basi cupe dalle atmosfere caduche, sulle quali qualcuno deve rappare in maniera tale da appagare sia l'aspetto tecnico che quello della scrittura. L'hardcore, insomma. Punto. Poi, certo, nel tempo mi sono ammorbidito ed ho imparato ad apprezzare molte delle miriadi di sfumature di questa musica ma, ancor'oggi, fornitemi materiale analogo a quello dei Mobb Deep e sappiate che di base lo preferirò sempre a qualsiasi altra cosa, per bella che essa possa essere. Per dire: Nation Of Millions? Storico. Low End Theory? Capolavoro. Enta Da Stage? Non c'è nemmeno da chiedere, ma... per quel che mi riguarda Infamous è tutt'un'altra cosa, mi spiace.
Considerato a ragione uno degli artefici della riaffermazione della supremazia nuiorchese su tutto il resto, quando il secondo album dei Mobb venne anticipato dal singolone Shook Ones Pt.II -anch'esso senza dubbio tra le migliori dieci canzoni di sempre- risultava chiaro che qualcosa di grosso stava per succedere: l'attacco di hihats e rullante, il campione di Quincy Jones che pare quasi un lamento, ed infine la frase introduttiva per definizione "To all the killers and the hundred-dollar-billers" che lascia libero spazio ad una delle linee di basso più potenti che si fossero mai sentite da You Gots To Chill in poi. Pura poesia. E se già questo potrebbe bastare, come scordarsi delle strofe di Prodigy e degli innumerevoli quotables che esse contengono? Secca ammetterlo, ma aveva perfettamente ragione Phonte dei Little Brother quando scriveva che uno dei motivi per cui P è di diritto entrato nella storia dell'emceeing è dovuto alla sua capacità di regalare singoli versi a dir poco memorabili. Insomma, tanto per farla breve mi limito a dire questo: qualora qualcuno dovesse dimostrare curiosità per il rap e voi voleste fargli sentire qualcosa, dategli Shook Ones; se gli piace c'è speranza e vale la pena passargli altro, mentre in caso contrario non è la musica che fa per lui.
Ma se fosse solo per Shook Ones i Mobb potrebbero esser stati delle meteore come tanti altri; il fatto è però che nel loro caso sono riusciti a mettere insieme tredici canzoni spettacolari di cui alcune a dir poco immortali, per cui i 66'51'' di durata di Infamous ancora oggi scorrono con una naturalezza ed un godimento da parte dell'ascoltatore assolutamente impareggiabili. in più, essi son stati capaci di creare un intero mondo o, meglio ancora, un immaginario quasi cinematografico di cui The Start Of Your Ending, con i suoi melancolici arpeggi appoggiati da un set di batterie a dir poco brutale, non è che solo l'inizio. La discesa nel ventre di una New York -più esattamente il Queensbridge- violenta ed ostile proseguono con Survival Of The Fittest, il cui minaccioso campione di piano ha contribuito a far entrare nella storia la canzone: in essa Hav e Prodigy ci ricordano quanto sono propensi alla violenza ("I'm going out blastin' takin' my enemies with me"), in un crescendo di minacce ("There's a war going on outside no man is safe from") e accenni a diversi gradi di antisocialità ("Fuck lookin' cute I'm strictly Tim boots and army certified suits"). Ora, nel bene e nel male questa loro forma di ultraviolenza ha segnato una dipartita da quelle che erano le tematiche classiche legate a New York, in cui certo non si respirava aria di tarallucci e vino ma nemmeno s'aveva assistito ad un simile sfoggio di aggressività, storicamente ben più vicino agli ambienti di Compton e South Central; da Infamous in poi la tendenza prenderà sempre più piede in un'orgia di chi la spara più grossa e questo a molti non è piaciuto ma, come dire?, gli effetti speciali spesso e volentieri ci stanno (vedi quel che recentemente ha scritto Combat Jack).
Ma ultraviolenza a parte, questo disco presenta altri aspetti della famigerata street life che qui vengono esplorati sotto prospettive diverse ed a loro modo innovative: ne sono esempi lo storytelling über-ghettuso di Trife Life, l'excursus nella paranoia da arresto di Temperature's Rising -logicamente seguita da Up North Trip, descrizione di un viaggio e raltivo soggiorno a Riker's Island- o anche la concept track Drink Away the Pain. Insomma: The Infamous non solo porta agli estremi la logica della hood tale così come già affrontata in precedenza da Kool G Rap, ma da un lato la esaspera ai limiti del surreale e dall'altro la rinchiude all'interno delle mura del ghetto, del quale è componente essenziale e diffusa. In più, a ciò aggiunge valanghe di paranoia diffusa su più livelli ed una misantropia non comune, col risultato finale che nelle azioni dei Mobb -idealmente rappresentativi del QB- non c'è né catarsi, né speranza ma solo negatività.
Piaccia o meno l'idea, l'esecuzione è indiscutibilmente perfetta sia dal punto di vista delle liriche che da quello dei beat. E parlando di questi, esattamente così come i testi hanno segnato una svolta stilistica estesasi ben oltre i soli Havoc e Prodigy, essi hanno apportato diverse innovazioni in senso generale oltre ad aver conferito un'identità, un sound al loro quartiere d'origine. I brevissimi loop scelti da Havoc vengono difatti tagliati, ricomposti e sovrapposti ad altri con abbondante uso di filtri; contestualmente, le batterie suonano secche ma il fatto di utilizzare sovente di un riverbero conferisce loro comunque potenza, la quale infine viene sottolineata da linee di basso corpose ma mai troppo pulite. Oltre a ciò, la predilizione di pianoforti e archi nel sampling -rispetto alle cose più jazzate o funk degli anni precedenti- distacca definitivamente The Infamous dallo stile predominante dell'epoca permettondogli di coniare un nuovo filone che fa della cupezza la propria cifra stilistica. Difficile in tal senso trovare produzioni indiscutibilmente superiori ad altre -Shook Ones Pt.II a parte- ma la cosa non è grave; sia che si tratti di Q.U. Hectic che Up North trip, alla fine ciò che si assaggia non sono soamente che diverse fette della stessa torta.
Difetti, quindi, nessuno; storico, impeccabile, innovativo, longevo e soprattutto il mio album preferito di sempre. Infamous continua a far storia da quindici anni a questa parte. Stab your brains with your nosebone...





Mobb Deep - The Infamous

VIDEO: SHOOK ONES PT. II

venerdì 13 novembre 2009

CANNIBAL OX - THE COLD VEIN (Def Jux, 2001)

Trasporre la nozione di polarità dalla chimica in altri contesti è una tentazione alla quale molti non sanno resistere, dato che così facendo non solo si spera di spiegare la coesistenza nello stesso ambito di diverse anime apparentemente inconciliabili tra loro, ma spesso si può poi sfruttare questo apparente stato delle cose per giungere a conclusioni pratiche tendenti a migliorare proprio quest'ultimo. Inutile dirlo, ma questa pratica fa acqua da tutte le parti in qualsiasi situazione e da qualsiasi punto la si voglia osservare: prima ancora che nella pratica, nella logica. Essa difatti presuppone una reazione causa-effetto che non sempre c'è e, soprattutto, dà connotazioni ai due diversi poli che dovrebbero avere lo scopo di influenzare il giudizio di terzi. Gli esempi si sprecano: nella politica prima che in altri settori (penso all'abuso della teoria degli opposti estremismi o, più recentemente, all'autoesegesi dei cosid. «terzisti» del CorSera), ma anche nel cinema (chi giustifica l'esistenza di Boldi e De Sica jr. dicendo che sono l'inversione speculare dei film di Antonioni) e nella musica.
Avvicinandoci al succo della recensione, entro nel dettaglio parlando di come nel rap l'utilizzo -inconsapevole o meno, è irrilevante- di questa logica fallace sia da un lato uno dei motivi principali per l'esistenza e la crescita negli ultimi 15 anni di autentiche ciofeche, e dall'altro la causa di una mancanza di discernimento da parte degli utilizzatori finali (chiamiamoli così). Quante volte infatti abbiamo letto dichiarazioni dell'artista X in cui esso ci spiegava tuttto gongolante che il suo è "an album made for everyone. You got the party joints, the introspective gems and that street shit", come a dire che in medio stat virtus; poi, puntualmente, all'uscita dell'opera in questione il tutto si rivelava essere una mediocre merdina incapace di distinguersi dal marasma di uscite analoghe. Insomma, non è un caso se l'ultimo disco capace di fondere efficacemente questi diversi aspetti sia stato forse Capital Punishment, no? Ma, peggio ancora, questa impostazione ha avuto per troppo tempo influssi devastanti sui gusti del pubblico, che tra il '98 ed oggi è riuscito a sorbirsi puttanate stratosferiche come l'80% della roba targata Ruff Ryders, le ultime creazioni di Busta Rhymes ma soprattutto gli aborti di Fat Joe. Tutto materiale privo di spina dorsale e fondamentalmente definibile come «indecenti paraculate» che sarebbe da spernacchiare con cori di rutti e controcanti di scorregge, se non fosse che così facendo li si darebbe un'ultima chance di essere ricordati.
A restare nella memoria, invece, oltre a veri e propri fenomeni di costume come è stato Get Rich Or Die Tryin', sono -pensa un po'- album dotati di un'identità e di un target ben precisi, oltre naturalmente ad una qualità superiore alla norma. Nel 2001 abbiamo avuto due di questi esempi: The Blueprint da un lato, e The Cold Vein dall'altro. Ma dei due, quello che forse può dirsi di maggiore impatto (sempre considerando i rispettivi ambiti, si capisce) è stato quest'ultimo: più che Funcrusher Plus è stato l'esordio dei Cannibal Ox a rendere rilevante qualsiasi lavoro di El-P e a cementare la sua fama di beatmaker d'eccezione, senza contare il fatto che, speculando un po' ma nemmeno troppo, Cold Vein ha messo in evidenza la Def Jux tutta come fucina di talenti e guida di quello che viene definito abstract hip hop. Inutile in quest'occasione dibattere sul valore di questi termini, diciamo semplicemente che Cold Vein sta alla Def Jux e al rap underground come Radio sta alla Def Jam degli esordi. I motivi? Ce ne sono a bizzeffe.
Il primo è che se questo disco viene spesso paragonato a Enter The Wu (nientemeno!) ciò si deve innanzitutto alla produzione. I beat di El-P si possono immediatamente identificare come lo-fi, per quanto in realtà essi siano sovente costruiti da complessi strati di suoni tagliati e reincollati in maniera peraltro inusuale e fresca. Le batterie, soprattutto, pur conservando l'impatto sonoro di un Large Professor spesso vengono arricchite da distorsioni e flange di vario genere, senza contare riverberi metallici ed il frequente utilizzo dei soli cassa e rullante. Ad essi poi si aggiungono a seconda dei casi singole note di synth, brevi campioni raramente riconoscibili (cfr. Love & Happiness di Al Green) o quasi completamente ignoti al pubblico tipo dell'hip hop (Philip Glass, ad esempio), oppure veri e propri crepitii o interferenze date da elettricità statica. Un sound alienante, insomma, capace di proiettare l'ascoltatore all'interno di scenografie fino al 2001 pressoché sconosciute. Questa sommaria descrizione può chiudersi poi con un breve commento alle atmosfere: urbane, cupe, deprimenti e fredde come in ambito visivo solo Blade Runner di Ridley Scott ha saputo proporre: un parallelismo inflazionato, certo, ma ciò nondimeno il più azzeccato che vi sia per il lavoro svolto da El-P per Cold Vein.
Ora, dev'essere chiaro che però nel corso delle quindici tracce che compongono quest'opera vi sono diversi livelli in cui le caratteristiche di cui sopra vengono declinate: Ox Out the Cage, Straight Off The D.I.C., B-Boys Alpha e The F-Word sono quelle più vicine agli standard tradizionali; Battle For Asgard, Atom, Ridiculoid e Scream Phoenix si distanziano invece già di più dagli stilemi più classici; e, infine, Raspberry Fields, Real Earth o Pigeon risultano le più sperimentali dell'insieme, con pattern di batteria imprevedibili ed un uso dei sample e dei suoni impossibile da imitare -almeno all'epoca. Cold Vein ha quindi più possibilità di lettura e di certo non basta un ascolto per coglierne tutte le sfumature; al contrario, per riuscire ad apprezzarlo nelle sue sonorità gli ascolti devono essere ripetuti, e senza sforzo ma solo con esperienza si potranno apprezzare aspetti inizialmente apparsi magari come cacofonici.
[Apro una parentesi: devo fare un mea culpa: all'inizio Cold Vein mi faceva cagare. Ma di brutto, eh. Se da un lato questo era dovuto a un fraintendimento del senso dell'accostamento a 36 Chambers, dall'altro era semplicemente perchè ero ancora troppo legato all'ortodossia. Mi ricordo i primi tentativi d'ascolto, culminati appunto in un'enorme incazzatura per dei soldi che pensavo di avere buttato nel cesso e, tanto per non sbagliare, in macumbe e maledizioni varie volte contro chi ne aveva parlato in termini così entusiasti (Damir sul primo Groove, mi pare di ricordare). C'è voluto un ascolto casuale di Straight Off The D.I.C. qualche anno dopo, tipo nel 2003 o il 2004, per farmi riscoprire un disco che semplicemente richiede una certa esperienza d'ascolto che nel 2001 semplicemente non avevo. Che nessuno pensi che io sia stato così dritto da comprendere la portata di Cold Vein in tempo reale, ebbene sì, sono un fesso. Chiusa la parentesi.]
Tornando all'album, invece, è evidente ma non trascurabile l'apporto che Vordul e Vast Aire danno alle atmosfere di El-P. Innanzitutto perchè -e qui si ripropone il parallelismo Can Ox/Wu- quest'opera è piena fino all'orlo di versi memorabili capaci di farti dire "questi due sanno davvero quello che fanno". Il viaggio del duo nei meandri più bui di New York, argomento che permea pressoché ogni traccia di Cold Vein, è scandito da autentici colpi di genio come questi: "Mother didn't want you, but you were still born/ Boy meets world, of course his pops is gone/ What you figure, that chalky outline on the ground is a father figure"; "My first fight was me against five boroughs"; "Birds of the same feather flock together, congested on a majestic street corner/ That's a short time goal for most of 'em 'cause most of 'em/ Would rather expand their wings and hover over greater things". E mi fermo qui. Devo poi far notare che tutte queste citazioni sono di Vast, che del duo è indubbiamente il più riconoscibile e quello dotato della penna più immaginifica, ma è anche colui più proteso a salti logici apparentemente casuali; ed è qui che entra in gioco Vordul. Il suo stile più diretto e la narrazione più lineare (o terra-terra, se vogliamo) è un buon contrappeso ai viaggioni di Vast, e contrariamente a quel che sarebbe avvenuto nel suo disco da solista, la sua concretezza qua si fa apprezzare non poco.
Ma New York on è l'unico tema trattato, va detto: per quanto affrontato in maniera affascinante, da solo sarebbe un po' poco e così, oltre all'inevitabile autoesaltazione -vedi alle voci Battle For Asgard e Atom- vi sono in particolare due canzoni che risaltano: A B-Boys Alpha (che si collega per certi versi a Stress Rap) e The F Word. La prima (ed il suo collegamento) tratta sostanzialmente delle loro biografie e di come il reps abbia contribuito a tenerli lontani dai delirii della vita quotidiana in posti allegri come dovevano essere i ghetti negli anni '80; un tema già affrontato da altri in passato ma che qui, grazie all'esecuzione, funziona a prescindere da una relativa "obsolescenza". Il secondo brano, invece, è quello che più ha colpito l'immaginario collettivo e, detta molto brutalmente, si tratta di una versione per adulti della Regola Dell'Amico degli 883. Mi rendo conto che detta così vien da ridere, ma provate a fare uno sforzo d'immaginazione e concepite il testo come uno storytelling il cui di per sè vacuo contenuto guadagna in valore grazie alla scrittura; per dire, frasi come "she was in a love triangle, but it wasn't like my feelings weren't there to make it a square" Max Pezzali non le scrive mica. Liricamente, quindi, forse non c'è tutta la freschezza portata da El-P ma è fuor di dubbio che certe cose fino a quel momento non s'erano sentite, e per una volta tanto i voli pindarici ed i riferimenti oscuri in cui i due si lasciano andare non risultano ridondanti e/o fini a sè stessi.
In conclusione, l'unica cosa che si può fare è verificare se si tratti di un classico o meno; perchè che sia un discone coi controcazzi è fuor di discussione. E qui io sono francamente indeciso; propendo per il sì (il perchè dovrebbe essere chiaro), ma d'altro canto ci sono due difetti fondamentali che però mi disturbano -nel senso che altri classici ne sono privi- e cioè che lo trovo comunque un po' pesante e che due canzoni (Ridiculoid e Raspberry Fields) mi risultano indigeste. Tuttavia, mi rendo anche conto che si tratta di aspetti estremamente soggettivi, per cui io magari gli darei quattro e mezzo ma in nome dell'oggettività (e del quieto vivere) gli sparo un ricco cinque.






Cannibal Ox - The Cold Vein

VIDEO: PAIN KILLERS

giovedì 15 ottobre 2009

NAS - ILLMATIC (Sony Columbia, 1994)

Come promesso, ecco la versione originale di Illmatic. Nel pomeriggio invece la recensione del dì. Ovviamente non sto a ripetere il voto, mi pare ovvio che sia un cinque.

Nas - Illmatic

VIDEO: HALFTIME

mercoledì 14 ottobre 2009

NAS - ILLMATIC: 10 YEAR ANNIVERSARY PLATINUM SERIES (Ill Will/Sony Columbia, 2004)

Sperando che il pacchetto da Amazon mi arrivi in giornata, vorrei oggi riportare il blog sulla terraferma del rap più ortodosso ed al contempo farmi perdonare da alcuni dei miei lettori per l'exploit di Kid Cudi. E allora calo l'asso: niente cazzetti underground bensì Illmatic. Nas. Uno dei più grandi dischi di sempre, sicuramente nella top 5 della storia del rap -ditemi di no e vi mando a fanculo- e per giunta nella versione rimasterizzata e con delle tracce bonus. E volete sapere una cosa? Ho comprato quest'edizione solamente per trovare un qualche appiglio per poter scrivere la recensione di un disco su cui è stato detto praticamente tutto e che a distanza di quindici anni basterebbe quindi definire "perfetto" e chiuderla così. Ma non è possibile o, comunque, non ci riesco: devo assolutamente scrivere qualcosa su una di quelle opere capaci di ridarti la fede nei confronti di un genere che troppo spesso mette a dura prova la pazienza ed i timpani dei suoi fan, e così proviamo a ripassare mentalmente tutti quei nove motivi che rendono Illmatic un capolavoro sotto ogni punto di vista.
Dopo l'intro, in cui ci viene efficacemente presentato il contesto in cui Nas si muoverà mediante un campione di treni sferraglianti preso da Wild Style, si parte con quella che è una delle più vivde descrizioni di quello che era l'angolo oscuro della New York del '94. Il campione di piano tratto da Mind Rain di Joe Chambers è perfettamente adeguato per le batterie di Premier, che qui supera sè stesso, ma soprattutto per le abilità descrittive di un Nas che riesce ad immortalare luoghi e circostanze con una serie di istantanee che si staccano da un certo iperrealismo per creare addirittura degli archetipi validi per il futuro. La macchina da presa di Nasir Jones si muove tra palazzi abbandonati, giardini incustoditi pieni di erbacce ed i fumi che escono dai tombini in inverno con una precisione ed una forza poetica degna del miglior Scorsese, impreziosendo il tutto con one-liners che sarebbero entrati immediatamente a far parte della Storia del genere: "I never sleep, 'cause sleep is the cousin of death", "I ran like a cheetah with thoughts of an assassin", "Life is parallel to Hell but I must maintain"... gli esempi sono troppi, ma basta la seconda metà della seconda strofa per riconoscere che si ha di fronte ben più che un semplice MC.
Non da meno è Life's A Bitch, in cui un giovanissimo AZ scrive una strofa indimenticabile (Visualizin the realism of life and actuality/ Fuck who's the baddest, a person's status depends on salary) che lo condannerà per il resto della vita a doversi scusare per non aver più saputo riproporre nulla del genere; ma anche il contributo di Nas, spesso ignorato a favore del precedente, vede nuovamente un ricco immaginario venir delineato con un miscuglio di fotografie e riflessioni personali da queste derivanti. Non per ultimo, l'assolo di tromba di Olu Dara, padre di Nas, conferisce all'etereo beat di L.E.S. un ulteriore tocco di classe e suggestività.
E The World Is Yours? Cosa dirne? Certamente si nota una maggiore positività sia nel taglio del beat che nelle strofe di Nas, ma siamo ben lungi dagli eccessi che sarebbero venuti negli anni successivi (purtroppo anche da parte di Nas stesso); il materialismo che ha sempre caratterizzato il rap qui è solo accennato in un paio di passaggi, e pure in modo relativamente sobrio, mentre per il resto ci sono libere associazioni di pensiero quasi che il Nostro stesse sognando ad occhi aperti: " There's no days, for broke days we sell it, smoke pays/ While all the old folks pray, to Je-sus' soakin they sins in trays/ Of holy water, odds against Nas are slaughter/ Thinkin' of a word best describin my life to name my daughter/ My strength, my son, the star, will be my resurrection/ Born in correction, all the wrong shit I did, he'll lead a right direction". Un mood che, espresso nella scrittura e nel flow ineccepibile di Nas, si sposa a perfezione con il sobrio beat di Pete Rock, che campionando veloci passaggi di piano contrapposti ad altri più scarni e brevi, si conferma essere il genio da molti ormai riconosciuto.
E già che siamo in tema di geni, mica salta fuori Large Professor con Halftime? Prodotta e registrata nel '92, è sorprendente vedere come comunque regga il confronto con gli altri pezzi qui presenti, e per quanto si noti una certa "superficialità" da parte del protagonista -siamo al puro e semplice braggadocio- non si può sorvolare su come già due anni prima egli fosse tecnicamente un MC ineccepibile.
Ma per vederne la peculiarità si sarebbe dovuto aspettare l'uscita di Illmatic; come già detto, la sua capacità di fondere poesia e realismo è unica, e questo viene ulteriormente dimostrato nella amarcordiana Memory Lane, contenente due strofe eccezionali e soprattutto uno dei beat più melodici offertici in quegli anni da Premier: uno stupendo campione di Reuben Wilson, caratterizzato in particolar modo da un cantato sommesso/mormorato, fornisce quel quid di atmosfera nostalgica senza però scadere nel melenso e comunque mantenedo una buon tiro. Classico, così come classica è anche One Love: so che la conoscono tutti, ma come non ripetere che il beat di Q-Tip è, nella sua semplicità, un qualcosa di geniale degno di stare nell'Olimpo delle migliori produzioni di sempre. Asciutto, lineare ed accompagnato solo da basso e batteria, il loop di xilofono fornisce a Nas il tappeto sonoro perfetto per scrivere la miglior canzone-lettera ad un amico incarcerato di sempre e che, in quanto tale, e come altre canzoni sentite finora, merita un posto nella Storia dell'hip hop.
A seguire c'è poi l'unico pezzo meno che superbo del disco -cioè One Time 4 Your Mind, dalla produzione un po' tanto scarna- al quale fa seguito Represent, anch'essa spesso criticata per la produzione un po' "pigra" di Premier ma che stavolta mi vede nuovamente entusiasta. Certo, non c'è la genialità mostrata in NY State Of Mind o Memory Lane, ma ciò non di meno resta un gran bel beat, perfetto per dare il "la" ad un Nas in perenne forma smagliante. Infine, arriviamo a It Ain't Hard To Tell, che chiude in bellezza un disco di suo impeccabile. A colpire quà non c'è solo il liricismo di Mr. Jones, sul quale non francamente più nulla da aggiungere se non "m'inchino", ma anche una base curata da Large Pro che se la gioca in bellezza con NY State Of Mind e One Love: a impressionare non è solo l'evidente bellezza del campione di Human Nature, ma come questo viene smontato e rimontato da Extra P e come egli sappia impreziosirlo con una linea di basso ugualmente fantastica.
Whew. Ce l'ho fatta. Ora, non sta a me riassumere i motivi per i quali questo disco ha rivoluzionato il genere specialmente sotto il punto di vista del liricismo; so solo che dopo di esso l'hip hop è cambiato e che ancor'oggi, se si vuol fare un album, Illmatic è uno dei pochi punti di riferimento validi. Tuttavia, resta ancora qualche parola da spendere su questa edizione celebrativa, e la prima cosa riguarda la rimasterizzazione. Contrariamente a quello che può avvenire con la musica suonata live, ancor più se ha venti o trent'anni e in originale è stata registrata con mezzi tecnici appena passabili (vedete solo le riedizioni di Murmur o Unknown Pleasures), nel caso dell'hip hop i margini di miglioramento sono relativi. In questo caso, se da un lato è inevitabile che il tutto abbia un suono più pulito e meno "amalgamato" nel suo insieme, dall'altro non è che le migliorie siano fondamentali -e poi non è che Illmatic di suo suoni come una puzzetta- e, soprattutto, forse toglie un po' del fascino dell'opera originale. Insomma, è come quando nell'800 si restauravano opere vecchie di trecent'anni attualizzandole secondo i criteri correnti, un'operazione sempre un po' al limite. Casomai, il motivo per un acquisto di questa 10th Anniversary Edition, se si è già possessori dell'originale può essere ritrovata nel disco bonus; tuttavia, devo dire che la scelta di non includere remix dell'epoca ma attualizzazioni -valide o appena passabili, ma nulla più- per me non ha un briciolo di senso. Cosa vuoi che mi freghi di avere un remix parajiggy di Life's A Bitch? O una versione da quattro soldi di It Ain't Hard To Tell? A conti fatti, l'unica che si salva è The World Is Yours, più l'inedito Star Wars e l'ormai stranota On The Real, che però stavolta ci viene presentata nella forma interamente rappata da Nas.
Diciamolo: come bonus non è che ci sia un granchè di valido, e d'altronde anche il remastering lascia il tempo che trova anche se perlomeno non sono stati troppo invasivi; ora, io oggi vi passo questa versione, che ha comunque il pregio di costare davvero una sciocchezza, ma domani vi giro anche l'originale. In ogni caso, l'uno o l'altro vanno comprati, non c'è dubbio.





Nas - Illmatic: 10 Year Anniversary Platinum Series

VIDEO: IT AIN'T HARD TO TELL

mercoledì 23 settembre 2009

SHOW & AG - FULL SCALE LP (Fat Beats, 2000[?])

Scusatemi per il ritardo nell'aggiornare il blog, ma stamattina la situazione lavorativa è stata infuocata; inoltre, avevo già preparato la recensione di Trife (che mi sarebbe dovuto arrivare assieme a Cuban Linx II già ieri) e che però per motivi tecnici ha dovuto essere posticipata a domani. Poco male; per sdebitarmi vi propongo allora un disco realmente imperdibile, ovverosia il Full Scale LP di Show & AG. Ma prima di addentrarmi in una descrizione maggiormente dettagliata, un po' di storia.
Quando nel 1998 venne pubblicato l'omonimo EP, io avevo già sentito Q&A via internet e ne ero rimasto talmente entusiasta che la sola presenza di quella traccia mi spinse ad acquistare per l'occasione un giradischi, oltre ovviamente al vinile: non era infatti prevista, o quantomeno disponibile, una versione in CD. A questa mancanza provai a supplire io, trasferendo le tracce su CD; ma siccome non è che fossi proprio un genio dell'elettrotecnica, non ero riuscito a risolvere un banale problema di messa a terra che andava a concretizzarsi nel tipico ronzio sui 50hz e che, ancora più concretamente, rovinava in modo non indifferente il piacere dell'ascolto. Fortunatamente, un mio amico più esperto mi aiutò a collegare correttamente il piatto all'amplificatore e così finalmente potei avere delle versioni degne d'ascolto su CD. Tuttavia, quando nel 2001 feci il mio viaggio negli Stati Uniti e, ovviamente, andai in pellegrinaggio al Fat Beats, vidi questo LP ed immediatamente sborsai le du' lire che erano richieste per l'acquisto.
Il motivo di quest'azione si può ravvisare senz'altro nel mio collezionismo compulsivo, ma soprattutto nel fatto che quello che si presenta come un'estensione del precedente EP altro non è che una raccolta su CD di svariati 12" pubblicati dal '98 al 2000 [*] in cui era coinvolto il duo del Bronx, oltre naturalmente alle cinque tracce originali. Accanto quindi alle varie Q&A, Spit eccetera, potremo trovare Themes Dreams & Schemes, Dignified Soldiers, Weekend Nights (qui elencata come Spit Remix) e persino il primo singolo ufficiale dei Ghetto Dwellas, con tanto di b-side e annessi e connessi. Ne consegue che se da un lato il titolo è fuorviante e truffaldino, dall'altro si ha la possibilità di mettere mano su alcune delle cose migliori della DITC ad un costo esiguo e con il vantaggio di una qualità sonora impeccabile.

[*] Andando su Discogs potrebbe sorgere un po' di confusione, in quanto quest'album viene datato al 1998 e non essendoci alcun tipo d'indicazione sul disco stesso non c'è modo di fare una verifica inconfutabile. Io però trovo che questa datazione sia erronea, principalmente per tre motivi: il primo è che il 90% dei pezzi che reputo essere degli extra sono usciti come singoli e b-side degli stesso (Themes Dreams & Schemes, Time To Get This Money, Get it Dirty, Hidden Crates, Who's The Dirtiest), ed una simile logica non avrebbe alcun senso se la loro origine fosse una sola; il secondo, che diversi di questi risalgono al '99 e per giunta tutti per etichette diverse, il che sarebbe impossibile se la paternità fosse una sola; il terzo, infine, che questi appunto non figurano mai come prodotti di Show & AG bensì come roba della DITC, dei Ghetto Dwellas, di Giant... insomma, per me sia Discogs che Wikipedia hanno preso un abbaglio. Ergo, devo dedurre che in realtà il Full Scale LP sia del 2000 e non del 1999, men che meno del '98, visto che non avrebbe molto senso fornire una raccolta di canzoni nell'anno stesso in cui queste sono state pubblicate in altri formati. Chiusa parentesi.

Cominciamo quindi a magnificare quel che dev'essere magnificato, partendo proprio dall'EP originale. Come già detto, e com'è ovvio, qui ritroverete tutti i pezzi presenti nella versione del '98 ad eccezione delle strumentali; la tracklist non è identica ma poco importa, dato che nel corso dell'ascolto ci si potrà imbattere in Drop It Heavy, Raw As Ever, Q&A, Spit e la stessa Full Scale. Di questi cinque pezzi non so davvero cosa dire, nel senso che sono tutti delle chicche indiscutibili. I beat rientrano nella miglior tradizione della scuola DITC, suonando minimalisti e potenti allo stesso tempo, con poche o nessune concessioni all'orecchiabilità; da questa prospettiva spiccano soprattutto Spit, autentico capolavoro di beatmaking, e l'altrettanto fantastica Q&A, che recentemente ha visto una rivisitazione non ufficiale da parte di Marco Polo e Torae nell'ottima Lifetime (il campione è lo stesso e l'effetto finale pure). Come liriche anche qui ci siamo, nel senso che AG in quel periodo era secondo me all'apice del proprio percorso creativo, il che comporta un equilibrio tra la sua particolare enunciazione (che era molto forte in Goodfellas) e la complessità della metrica. Pur non spingendosi al di fuori dei confini del meta-rap, è impossibile non restare affascinati dalle sue strofe ed alla fine gli unici capaci di distogliere la nostra attenzione dal suddetto sono nientemeno che KRS One e Big Pun, che contribuiscono ad aggiungere Drop It Heavy alla lista delle canzoni migliori dell'insieme. Insomma, come nota a margine (ma nemmeno troppo) vorrei puntualizzare che non solo conferirei il massimo dei voti all'EP, ma aggiungo anche che esso è secondo me uno dei tre migliori extended playing di sempre.
Venendo invece ora al resto del materiale, la qualità in questo caso diviene più ondivaga restando pur sempre in fascia alta. Dignified Soldiers (sia remix che originale), Time To Get This Money e Weekend Nights sono ad esempio eccezionali, mentre invece Hidden Crates, Put It In Your System, Who's The Dirtiest e Themes Dreams & Schemes lo sono meno. Questo dipende sia dai beat, che magari colpiscono meno oppure rischiano di scivolare nella ripetitività, sia dagli ospiti: in effetti, per quanto mi piacciano i Ghetto Dwellas non si può certo dire che siano dei mostri del microfono, e se Party Arty riesce a compensare le sue lacune grazie alla voce ed al carisma, D-Flow non ha grandi appigli che gli consentano di uscirsene a testa alta in un confronto con AG. E ciò diventa deleterio le poche volte in cui la base non è molto solida, com'è il caso di Get Dirty, indubbiamente il pezzo meno valido dell'insieme assieme a Hold Mines: quest'ultima è infatti retta dall'abilità di AG e così riesce a salvarsi in corner, mentra la prima presenta un beat fiacchetto in cui il duo d'ignoranti francamente dimostra di non avere abbastanza forza per reggere da solo una canzone.
Ma vogliamo star qui a spaccare il capello in quattro? No: poche balle, Full Scale è un quasi-capolavoro che deve, sottolineo il deve, trovarsi in ogni collezione di rap che si rispetti. E, contrariamente a quanto pensavo di fare inizialmente, mi spingo oltre il quattro e mezzo e gli affibbio lo status di classico. Eccheccazzo.





Show & AG - Full Scale LP

venerdì 18 settembre 2009

JERU THE DAMAJA - THE SUN RISES IN THE EAST (Payday/FFRR, 1994)

Dacché ho aperto il blog ho recensito album di ogni tipo ed il lettore affezionato potrà ormai essersi fatto un'idea di quelli che sono i miei gusti (posto che gliene importi qualcosa in primo luogo); egli saprà quindi che per me un certo tipo di grezzume ricopre un cospicuo valore nel mio indice di gradimento, ma per convesso saprà anche che non disdegno artisti più inclini alla positività ed alla coscienziosità. Il problema è però che questi ultimi sono facilmente soggetti alla pesantezza, salvo naturalmente che non si tratti di veri e propri campioni del genere come per esempio i De La Soul; e questo perchè i temi che trattano sono senz'altro condivisibili ma non particolarmente attraenti, e quando li si esprime in modo coerente, "pacifico", appunto, talvolta pare di trovarsi catapultati in una sorta di oratorio musicale.
Ecco perchè amo incondizionatamente artisti come Jeru: non è che predichino idee poi tanto diverse dalle loro controparti più hippie ma lo fanno con vigore e livore. Livore verso chi si comporta in maniera antisociale o comunque egoista, il quale verrà puntualmente accusato di essere ignorante, superficiale, pigro e quant'altro: in poche parole, una merda umana. Ora, certamente dubito che quest'atteggiamento da Savonarola possa scuotere le coscienze dei soggetti di tali attacchi, ma preferisco che si parli chiaro e perciò condivido questo tipo di aggressività, ché qua mica siamo all'ONU. Ad esempio: sei una donna che va a letto con qualcuno per ottenere vantaggi? Non sei una escort, sei una puttana. Oppure: quando vai al supermercato risparmi sul cibo per poterti comprare un vestito alla moda? Prima di essere una vittima del consumismo sei un coglione puro e semplice. E via così: trattandosi di musica e non di un trattato socio-psicologico, questo approccio sanguigno mi piace.
Ecco perchè The Sun Rises In The East riceve da parte mia almeno un ascolto completo al mese: perchè a distanza di 15 anni dalla sua pubblicazione il messaggio non ha perso forza e, anzi, forse ne ha addirittura guadagnata. Ma tutto ciò non basterebbe se non ci fosse il genio di Premier dietro alla produzione musicale, il quale si dimostra capace di fornire un'artiglieria acustica che calza a pennello allo stile stile di Jeru nonché all'atmosfera generale di cui TSRITE è permeato.
La sua ruvidità non consiste solamente nell'inflessibilità del pensiero dell'autore principale, bensì anche nel minimalismo dei beat che, congiuntamente ad altri contemporanei, sono di tale forza che riescono a far scordare le atmosfere soleggiate della costa californiana. Qui tutto sa di New York o più in generale di una metropoli in inverno, i cui unici rumori sono dati dai motori delle macchine e dallo sferragliare delle metropolitane mentre i vapori fuoriuscenti dai tombini azzerano la visibilità, col baluginio dei fari e dei lampioni che si riflettono sull'asfalto bagnato. Perdonate quest'attimo di lirismo da supermercato, ma la capacità suggestiva di certe musiche è innegabile e ciascuno la descrive come può.
Ma volendo abbandonare il pathos poetico prima che sia troppo tardi, veniamo al succo della faccenda: esclusa forse Statik non c'è una canzone brutta che sia una. Non scherzo: quale più, quale meno, sono tutte delle bombe, a partire dalla classica Come Clean. Uscita come singolo l'anno precedente, questa aveva lasciato giustamente a bocca aperta persino chi aveva ravvisato nella strofa di Jeru su I'm Da Man una promessa: tra l'inimitabile beat, in cui un bizzarro campione che può ricordare lo sgocciolìio d'acqua nelle tubature (!!!) s'appoggia a delle batterie impressionanti, e le liriche, iperrealistiche nel loro smascherare i parrucconi che già allora infestavano l'hip hop, non c'è una cosa fuori posto e a coronoare la grandiosità del pezzo sta un cut degli Onyx. E se penso che a me inizialmente non piaceva...
Beh, anche allora avevo le mie brave alternative: personalmente colloco alla pari della precedente la straordinaria My Mind Spray: figuratevi che ad oggi mantengo l'opinione che sia uno dei casi in cui l'utilizzo del campione di Nautilus sia riuscito meglio, e se pensiamo alla quantità di artisti che hanno campionato il pezzo di Bob James allora l'affermazione si fa rivelatrice. Non da meno, poi, sono la storica Da Bichez (che batterie, signori, l'uso dei charleston è da applausi), il duetto con l'allora passabile Afu-Ra intitolato Mental Stamina, e la solenne Ain't The Devil Happy - un richiamo dai toni apocalittici che Jeru fa alla propria gente per non cadere in gesti e comportamenti autolesivi, sia sul piano concreto che quello spirituale. Certo, andrebbe poi anche menzionato il tipo di campionamento jazz tipico del Premier di quegli anni, che sapeva conferire un taglio ruvido ai pezzi usando brevi sample di piano, sax e quant'altro: vedi la già citata da Bichez così come D.Original e, naturalmente, Come Clean.
Insomma, con questi beat il disco sarebbe stato una bomba persino con Melachi The Nutcracker come MC principale. Ma vivaddio non solo non ci troviamo tra i piedi una schiappa, ma addirittura ci viene fatto dono, per così dire, di un rapper coi controcoglioni. Come diceva uno dei suoi sponsor principali, "it's mostly the voice" e 'Ru qui lo dimostra ampiamente: bassa ma non cavernosa, sprizzante carisma, esige e ottiene l'attenzione dell'ascoltatore. Uniamola ad una tecnica impeccabile sotto ogni punto di vista e ad una prospettiva sempre originale sia nell'aspetto stilistico che in quello contenutistico (e qui l'ampio vocabolario aiuta in ambedue i casi), ed ecco che francamente non si può chiedere nulla di più a questo MC. La sua battaglia contro l'ignoranza in tutte le sue forme e dimensioni viene suddivis aper tredici tracce e ciascuna gode di un taglio così particolare che, pur rifacendosi ad un unico punto di vista, non risulta mai ripetitiva. Non sto a fare esempi con citazioni troppo lunghe, preferisco piuttosto citarvi qualche titolo che mi fa avere ragione con relativa semplicità: ascoltate -nella sequenza preferita- da Bichez, Come Clean, You Can't Stop The Prophet e Ain't the Devil Happy; scoprirete che non solo vien facile capire che sono state scritte dalla stessa persona, ma anche che fanno parte dello stesso album, dello stesso insieme.
Boh francamente non so che dirvi... classico lo è senz'altro, non so se dargli quattro e mezzo o cinque. Ma direi che, viste le proteste del volgo ai miei 4 e 1/2 agli Smif 'N' Wessun, meglio andare a colpo sicuro. [edit: m'ero dimenticato d'augurarvi il consueto buon fine settimana. A lunedì]





Jeru Tha Damaja - The Sun Rises In The East

VIDEO: D ORIGINAL

mercoledì 26 agosto 2009

JAY-Z - THE BLUEPRINT (Roc-A-Fella, 2001)

Ultimi giorni dell'agosto 2001: ero da poco rientrato da una lunga vacanza in America, pronto per sorbirmi il secondo (e ultimo) anno di lingue straniere e in quei giorni stavo per lasciare -o essere lasciato: è stata una mera questione di tempismo- la mia ragazza d'allora. All'epoca vivevo da solo ed onestamente non è che fosse un gran periodo. Anche se col senno di poi posso dire che non stavo malaccio, in quei giorni preferivo lasciarmi andare a decadenze di vario genere, come ad esempio provarci con una barista in circostanze a dir poco imbarazzanti, collassare a casa di sconosciuti vomitando un po' ovunque e mandando il padrone di casa al San Giuseppe per una corroborante ed oltremodo necessaria lavanda gastrica, oppure ciularmi la prima disponibile solo perchè aveva tette di dimensioni gargantuesche ed io non avevo mai provato l'ebbrezza di una quinta (e poco importa se collocata in un contesto altrimenti discutibile).
Sfortunatamente, poi, non solo non avevo internet ma per giunta mi trovavo ad investire soldi in dischi di gente teoricamente valida che però puntualmente si scoprivano essere delle colossali puttanate. Qualche esempio? Il primo di Jadakiss, la compilation di Dame Grease (che aveva prodotto alcune delle meglio cose per l'esordio di DMX: pensateci, prima di prendermi per il culo), Malpractice di Redman, Firestarr di Fredro Starr, Infamy dei Mobb Deep eccetera eccetera. Insomma: proprio mentre si stava consumando la rottura definitiva tra underground e mainstream, con alcuni nomi storici che viravano verso quest'ultimo spesso con risultati disastrosi, io mi trovavo privo dei mezzi necessari per poter entrare a conoscenza di materiale valido e ciò non faceva che peggiorare il mio umore. Occasionali spiragli di luce come Cormega, gli Screwball, 7L & Eso o i Lone Catalysts restavano appunto solo spiragli in un mondo altrimenti composto da synth pacco, batterie plasticosissime, e soprattutto i primi vagiti di successo commerciale del crunk. Ora, se devo trovare un colpevole per questo scempio penso innanzitutto a quella scarsa merdina di Swizz Beatz e a quella crew di mastodontiche seghe che era la Ruff Ryders (e da Yonkers viene pure Lady Gaga, si vede che è l'aria di lì a creare idioti), ma pure Jay-Z, che infatti aveva veicolato enormemente quel tipo di suono, non è immune dalle accuse.
Vol. 2 e Vol. 3 e, in minor misura Vol.1, sono a mio avviso dischi di rara bruttezza salvati in zona Cesarini dall'occasionale So Ghetto o It's Like That. Ma tolte appunto le suddette rare eccezioni -comunque irrilevanti al fine della regola- essi rappresentano il peggio del peggio del mainstream dell'epoca e soprattutto sono simboli e al contempo catalizzatori evidenti del declino artistico di vasta parte della costa atlantica. Non a caso oggigiorno quegli album suonano datati come una merda secca e, sempre non a caso, persino pezzi a loro tempo acclamati come capolavori oggi possono al limite far ridere. Money Cash Hoes è la summa di tutto quanto scritto finora e vi invito a riascoltare quel beat e farvi un esame di coscienza qualora all'epoca vi fosse piaciuto. Fate ancora in tempo a pentirvi. Ma procediamo oltre.
Insomma, visto quanto detto finora, potete immaginare quanto mi potessi aspettare da un nuovo disco di Jay-Z. Quella che oggi considero inconsistenza nel saper fare buoni dischi era, allora, l'incapacità conclamata di sapersene uscire con qualcosa di buono, punto e basta. Reasonable Doubt lo vedevo ormai come un caso fortuito o comunque irripetibile, e l'unica cosa che mi spinse ad acquistare Blueprint fu il packaging. Stop. Devo quindi innanzitutto ringraziare Jason Noto, l'art director del progetto, per avermi spinto ad esborsare quelle trentacinquemila lire per un album che altrimenti avrei evitato come la peste; e che invece fin dalle prime battute di Ruler's Back cominciava a far breccia nei miei timpani facendomi pensare il classico "vuoi vedere che stavolta, invece..."
Ebbene sì, stavolta invece Jigga ha fatto centro. Lo ha fatto innanzitutto perchè per Blueprint abbandona finalmente la vena più smaccatamente elettronica virando nettamente verso atmosfere soul, le quali faranno scuola negli anni a venire e contribuiranno enormemente a proiettare Just Blaze e Kanye West nell'Olimpo dei produttori (Bink invece no, chissà perchè), ma che prima di ciò danno un tocco di classe del tutto coerente con l'immagine che Jay-Z ha sempre voluto proiettare fin dai tempi di Reasonable Doubt: non uno sceicco pacchiano che nuota in piscine d'oro ma che in fondo non conta un cazzo, bensì un businessman pacato e tanto elegante nelle apparenze quanto crudo nelle gesta. Non Tony Montana ma Vito Corleone, quindi: aspirazioni ed immaginario che ad un borghese europeo come me fanno sorridere ma che quando limitate alla musica danno lo stesso un certo piacere. E la stessa eleganza è poi data da metrica e contenuti, con questi ultimi che raggiungono considerevoli vette di megalomania mescolate ad uno snobismo del tutto personale, e con la prima che si fa tecnicamente più semplice -all'apparenza- ma che in realtà risulta più più elaborata per quel che riguarda giochi di parole, uso della voce, pause eccetera eccetera. Tra Jigga e gli altri passa insomma la stessa differenza che c'è tra Agnelli e Ciarrapico: entrambi sono sostanzialmente dei delinquenti ma il primo sa celare la sua natura dietro apparenze perlomeno più ricercate.
Difatti bisogna dire che la forza di Jigga non è mai stata la profondità degli argomenti ma la forma in cui li sa esprimere: cosicché persino la tipica ode alle mignotte si trasforma nella divertente Girls Girls Girls, così come la costante autoesaltazione che si respira ovunque viene (mal)celata da un understatement che ovviamente non fa che far crescere la credibilità del personaggio, oltre che la sua sicurezza. In tal senso, Heart Of The City, U Don't Know e Never Change formano un trio perfetto che poi viene puntellato da tracce più evidentemente cazzare (Hola Hovito, Izzo, Jigga That Nigga) così come da altre più serie (Renegade, Song Cry, Momma Loves Me). Una nota a parte va invece fatta per i molti riferimenti ai Mobb Deep, a Nas e a tutti quelli che nel 2001 avevano dei conti aperti col Nostro: ebbene, per quanto Takeover riassuma grossomodo la risposta di Jigga ai suddetti, sparse per le tracce vi sono diverse frecciate rivolte ai suoi detrattori che fanno credere quanto la cosa evidentemente gli dovesse pesare. E bisogna dire che quando sentì quel pezzo rimasi fulminato sia per alcune uscite di Jay, che più che un dis sono semplici fatti, sia per l'implicita arroganza e sboroneria consistente nel campionare in un solo pezzo David Bowie e i Doors. Poi si può discutere su chi abbia vinto tra lui e Nas (parere: la terza strofa di Ether riscatta tutto il resto del pezzo, mentre Takeover è una bella canzone a tutto tondo e perciò arriviamo al pareggio), certo è che era da tempo che nel rap non saltava fuori uno scazzo così evidente tra artisti di indubbia rilevanza sulla scena mondiale, e questo sicuramente ha giocato a favore del "riscatto" di credibilità ottenuto dal Nostro con questo album.
Un riscatto che però s'ha da cercare anche e soprattutto nell'impeccabile scelta dei beat: chiudendo un occhio sulle produzioni dei Trackmasterz e di Timbaland, che tra l'altro stonano pure un po' nell'insieme, su quindici pezzi non ce n'è uno che si ponga sotto ad un livello qualitativo medio-alto. Persino il beat di Eminem funziona più che egregiamente, mentre altre produzioni non possono essere definite con aggettivi al di fuori di "stupendo" o "fantastico": personalmente amo partire da Takeover per giungere a Girls Girls Girls, passando per Heart Of The City e Never Change, in modo tale da formare un poker di pezzi incapaci di invecchiare e che da soli mi fecero poi comprare College Dropout ad occhi chiusi. Kanye & soci, infatti, pur attingendo sempre nel reame del Motown soul et similia dimostrano una capacità d'interpolazione notevole, riuscendo a creare atmosfere decisamente variegate e che molti ancor'oggi possono sognarsi; tant'è vero che, come accennavo prima, Blueprint è una pietra miliare anche perchè ha reintrodotto di forza l'uso dei campioni soul, sdoganandolo agli occhi delle masse e rendendolo dunque nuovamente efficace anche dal punto di vista commerciale. Senza Blueprint, ad esempio, i Dipset avrebbero fatto persino più schifo di quanto non facessero nel 2003, e credo che anche solo per questo Jigga e compagnia vadano ringraziati.
Ricapitolando, quindi: quindici canzoni di cui solo due personalmente non piacciono, mentre il resto oscilla tra il bello e l'immortale; destrezza lirica seconda solo a quanto mostrato sul Black Album; culturalmente influente e capace di suonare fresco anche a distanza di anni e malgrado le numerose imitazioni a cui ha dato luogo. Il voto pieno è scontato, naturalmente, così come il fatto che rientri a pieno titolo nel tris delle meglio cose mai prodotte da Jay-Z e che sia uno dei dischi fondamentali del decennio; ma rispetto a Reasonable Doubt come lo vediamo? A ciascuno la propria 'opinione, ma per quanto mi riguarda Blueprint non solo è complessivamente più godibile di RD (anche se mancano una Brooklyn's Finest o una D'Evils), ma per giunta è uscito in un periodo dove per emergere dalla monnezza sarebbe bastato fare un disco "ok" (cosa poi avvenuta con American Gangster) mentre l'impegno e l'esito finale sono stati a livelli di competizione da '96.





Jay-Z - The Blueprint

VIDEO: GIRLS, GIRLS, GIRLS