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mercoledì 10 marzo 2010

BIG TWINS - THE PROJECT KID (Dirt Class, 2009)

Uno dei vantaggi dell'ascoltare rap è la possibilità di sceglierne la varietà desiderata tra un'infinità di sottogeneri in continua espansione e riformulazione; ad esempio, come muore un g-funk ti salta fuori un crunk e via slanghizzando. Circa questa peculiarità credo infatti che solo il metal abbia più sottogeneri, peraltro dai nomi ancora più buffi e dagli esponenti ancor più privi d'autoironia che nel rap, per non parlare poi dei fan e --- scusatemi, sto divagando, torniamo a noi.
Stavo dicendo: a proposito del numero di diversi stili, o varianti di essi, è sorprendente come anche all'interno di un sottogenere come il rap di matrice nuiorchese vi siano tante varianti da soddisfare persino un palato esigente come il mio. E per quanto io non rifiuti mai una sana pastasciutta -nella metafora rappresentata dalla qualità garantita del boombap più ortodosso- talvolta non disdegno spingermi nei reami più oscuri del gusto, laddove ad un estremo può trovarsi ad esempio un Kid Cudi, e all'altro, l'unico, il mitico e l'inimitabile Twin Gambino. Ma se reputo interessante ascoltare il Sandro Ciotti del QBC ben più di tanti suoi colleghi, stavolta ciò non è dovuto solo alla particolarità del Nostro bensì al fatto che sfrutti per bene le potenzialità offerte dallo stile di produzione dei Sid Roams. Uno stile contraddistinto principalmente dal pesante ricorso a synth e a campioni anni '80 che vanno ad adagiarsi su basi lente dai bassi ben corposi, sovente più d'impatto delle batterie, e da cui trasuda in un certo qual modo l'origine californiana del duo. E per chi dovesse riconoscere in questa sommaria descrizione più l'ultimo Alchemist che non il duo di Joey Chavez e Bravo, gli risponderei che non ha torto ma che i secondi rappresentano il versante più ruvido di questo sound.
Del resto, basta vedere come essi si rapportano agli altri beatmaker che appaiono in Project Kid, cioè il sopracitato Alchemist (tre pezzi), Jake One e Havoc (due cadauno): il suono dei Roams è preponderantemente caratterizzato da sintetizzatori, elementi suonati ad hoc o comunque sample che non hanno pressoché nulla della classica soul o fusion da cui solitamente si campiona. In più, il lavoro svolto con le batterie è decisamente diverso dagli altri, con lunghe pause tra un colpo di rullante e l'altro che possono essere riempite in vari modi ma che tendenzialmente sfuggono alla regolarità di un Havoc o di un Alc (prendete ad esempio l'ottima Get 'Em Dog e paragonatela ad una Wanna Be Down o una Project Kid), così come suonano diverse rispetto alla matrice soul di Jake One e all'uso che quest'ultimo fa del basso, atto più a strumento di percussione che non di "avviluppamento" del beat.
Tutto questo non tanto per dire che Bravo e Chavez schiaccino gli altri contribuenti, bensì per marcare una differenza stilistica relativamente considerevole tra loro e gli altri fautori di questo genere di beatmaking. Se invece volessimo appunto esprimere giudizi qualitativi, direi che proporzionalmente il livello è del tutto paritetico. Ad esempio, Jake One manca il bersaglio con la monotona When I Say G (bella la cassa, però), mentre in How I Feel azzecca pressoché tutto e grazie all'ottimo campione vocale la trasforma in una delle migliori canzoni di tutto Project Kid; Alchemist, invece, riesce a riutilizzare in maniera quasi impercettibile Nautilus per Wanna Be Down, ma è solo con Smart Niggaz e l'eccellente When I Walk Away che si fa valere per il produttore esperto che è, tagliando un campione soul ed accompagnandolo a batterie belle tirate che ricordano (non poco, diciamocelo) Shoot 'Em Up Pt. 1 di Big Noyd. Quanto a Havoc, in Number One egli cazzeggia malamente con uno spregevole campione da videoclip di Bollywood, come solo nelle tivù dei kebabbari più trucidi, ma perlomeno ha il buon gusto di rifarsi con una title track forse non geniale ma assolutamente perfetta per il tipo di testo e soprattutto bella cupa e giocata su di un classico loop di piano.
Ma, venendo a Bravo e Chavez, la palma di pezzo migliore la prende senz'altro Bacon & Cheese, dove un sample di un videogioco a 8 bit crea il mood perfetto per sciogliere le briglie all'ignoranza di Twins e Prodigy; niente male anche la già citata Get 'Em Dog e la Jean-Michel-Jarriana (ne sono certo!) Just Don't Give A Fuck, il cui unico difetto è quello di essere troppo breve. Purtroppo, per Thunn Street e Drop 'Em Off siamo in odore di pilota automatico e viene a mancare un po' la forza e la freschezza dei pezzi precedenti, mentre tutto sommato non ne escono male Trip Thru the PJ's e Can't Call It, unici due aperti ammiccamenti al soul dove la peculiarità dei Roams un po' si perde ma in compenso a guadagnarci è la varietà.
Perchè -parliamoci chiaro- qui l'unica varietà che conta proviene dall'ambito delle produzioni che, analogamente all'epigone chic di Project Kid che è Weatherman di Evidence, sono l'unico motivo serio per comprare il disco. Nel senso che ad eccezione di un paio di rarissimi accenni riflessivi sparsi quà e là, Gambeezy rappa lentamente e semplicisticamente di puttanatone ultragangsta. È chiaro, lo si sa, e chi apprezza questo non può che provar piacere in quanto tutto sommato anche lui una sua unicità ce l'ha; chi riuscirebbe infatti a concepire momenti di estasi poetica come "I got this grimey-ass bitch named Ruthie -YEEEEAAAWRGH- she can move three bricks in her asscrack... WHAAAT UP!" battendosi le palle se ci sia una rima o meno ed emettendo versi gutturali a caso? Nessuno, proprio così. Come Califano, stessa roba, ma con beat migliori. Senonché, ecco, non rappresenta propriamente il nec plus ultra della tecnica.
Al che va da sè che si apprezza molto la breve durata dell'opera -appena 45 minuti, skit e puttanate varie inclusi- perchè altrimenti tutto questo popo' di tough talk e voce raschiata sarebbe potuto venire a noia persino alle orecchie più ben disposte. Così com'è, invece,The Project Kid è un oggettino di culto per i fan del Cinghiale #1 del QB, il quale è riuscito a produrre un album che, al di là degli alti e bassi qualitativi, manca solo di ospiti degni di questo nome (vi dico che gli Hard White sono, eccetto Prodigy, i più bravi. Immaginate il resto!) e magari di un bel pestone alla vecchia maniera. Che poi il tre e mezzo sia attribuibile al 98% alla qualità dei beat... beh, chissenefrega, e io comunque sono di parte.





Big Twins - The Project Kid

VIDEO: BACON & CHEESE

martedì 19 gennaio 2010

INFAMOUS MOBB - REALITY RAP (Sure Shot/IM3 Records, 2007)

Come molti di voi ormai sapranno, ieri è morto Prince AD aka Killa Sha, un veterano del Queensbridge che dopo una partenza in sordina negli ultimi anni s'era fatto notare soprattutto grazie ad un ottimo LP quale era il suo God Walk On Water. Ora, siccome quel disco l'ho già recensito non posso esibirmi in grandi tributi alla sua memoria, perciò tanto vale tuffarsi su altro: e quale miglior pretesto per parlare del capitolo conclusivo della Trilogia del Cinghiale, ovverosia il terzo ed ultimo album firmato (probabilmente con una X) dagli Infamous Mobb? Reality Rap -i cultori del trio in questione lo sapranno- sarebbe dovuto uscire nel 2004 o comunque non più tardi del 2005; tuttavia, una serie di lungaggini burocratiche legate alla distribuzione hanno comportato un cospicuo ritardo e perciò si è potuto ascoltare quest'opera tanto attesa solo nel 2007, forse fuori tempo massimo, visto che il successo di vendite è stato pressoché nullo.
Ad ogni modo, quest'attesa è stata una vera tortura per chi, come me, guardando il DVD allegato a Blood Thicker Than Water s'era imbattuto nell'anticipazione di Bloah (ora «Blauu!», sempre peggio) e aveva cominciato a salivare come in base ad un riflesso pavloviano. In effetti, questa canzone ha saputo riportarmi emotivamente ai miei sedici anni, cioè quando sentivo un pezzo e mi piaceva al punto da farmi smaniare come un posseduto per averlo: e qui la cosa si è ripetuta. Sarà il campione tagliato di Love Over Gold dei Dire Straits (il vantaggio di essere un bianco trentenne è che 'sti sample li becchi al volo), che conferisce un taglio enormemente melancolico al tutto, saranno le batterie relativamente semplici oppure, ancora, sarà l'approccio senza fronzoli dei tre: fatto sta che Bloah non solo si colloca tra le tre migliori canzoni dei Im3, ma tra quelle migliori del 2007 (e per quel che mi riguarda del decennio, ma mi rendo conto di essere esagerato e di meritare gli insulti che verranno nei commenti). Per carità: il testo è sempre la solita roba ghettusa e visceralmente ignorante, ma mi parrebbe scorretto pretendere altro da un gruppo che ha fatto dell'estremizzazione rozza del connubio fica-soldi-hoodness la propria cifra stilistica.
E difatti anche qui, come nelle loro opere precedenti, avremo a che fare con questi profondi temi la cui unica rilevanza sarà data dal modo in cui ci vengono esposti. E stavolta qualche novità dal punto di vista dell'emceeing c'è, e consiste molto semplicemente in questo: sia Twin che Knitty sembrano migliorati dal punto di vista della tecnica. Non ci credete? Ascoltatevi le loro tracce soliste (in Reality Rap ogni membro ne ha una) e ditemi se Gambo nella sua Closer quasi non riesce a far scordare la mediocre produzione di Sid Roams, così come Knitty alla fin fine riesce addirittura a suonare competente sul bel beat di Get It Poppin' e quindi a valorizzarlo una minima. Certo, che sia ben chiara una cosa: i due restano delle capre e alla fine G.O.D. resta ancora l'unico tra i tre dotato di un minimo di spessore lirico; però devo dire che non dispiace notare un minimo di crescita sia da parte di chi potrebbe farne a meno per altri motivi (Gambino), che da chi invece ne aveva un bisogno enorme (Knitty). E con questo chiudo l'apologia dei Mobb.
Ebbene, attestato che le tematiche sempre quelle sono e che i tre alla fine sono un po' migliorati, sia presi singolarmente che nel complesso, veniamo ora ad occuparci delle basi. Anche stavolta queste si rivelano essere le naturali fondamenta dell'album e per l'occasione si possono notare un paio di novità. I nomi sembrano innanzitutto essere più noti/importanti -sempre in termini relativi- rispetto al passato, e così stavolta possiamo beccarci un po' più di Alchemist, diverso materiale dei Sid Roams, più qualche contributo sparso di Evidence, Erick Sermon (!?), Chaze dei parigini Grim Team ed il già "apprezzato" Steve Sola. Ora, il fatto di avere nomi relativamente più noti non significa automaticamente un incremento della qualità, però devo dire che rispetto a Blood Thicker Than Water quest'opera ha il pregio di suonare un po' più varia: si esplora infatti sia la tipica cupezza del QB con Bloah, Who Can U Trust o la übercafona It's A Gift (con Sola che campiona la il tema principale di Bourne Identity), sia i pestoni nuiorchesi contemporanei che si rifanno al passato (Capitol Q, That Smell, Reality Rap, Hustle Hard), sia un certo sound un po' cafunciello ma sempre e rigorosamente orientato all'universo del cosiddetto street rap. In tal senso, quindi, Reality Rap sembrerebbe sorpassare i predecessori e potrebbe risultare financo "maturo".
Purtroppo, però, non tutto è rose e fiori: infatti, quello che poteva essere un canto del cigno si rivela invece essere semplicemente un disco passabile, sempre ammettendo che siate fan degli Im3 e siate quindi disposti a tollerare le loro lacune. Ma prima di sparare ad alzo zero, vediamo cosa c'è di buono: beh, innanzitutto Bloah, che è evidentemente il pezzo trainante dell'album, seguita a ruota dall'ottima Reality Rap, in cui un Alchemist d'annata si dà da fare tagliando campioni soul ed inserendovi cut come da tempo non faceva. Ottimo anche l'altro suo contributo, Hustle Hard, che risulta ruvida e martellante al punto giusto. Dal canto loro si difendono bene pure EBlaze e la sua energica Capitol Q, la triviale ma efficace It's A Gift (ma il merito è del compositore John Powell più che del pigrissimo Sòla) e Get it Poppin' e Streetz Of NY -ambedue di Sid Roams.
Tuttavia, a fianco di queste ci sono tutta una serie di smagliature che alla fine rovinano non di poco la fruizione del disco nel suo complesso, prima fra tutte la genericità. Vale a dire che a fronte di una maggiore varietà in quest'occasione dobbiamo sucarci beat privi d'anima (e mordente!) come quello di Borderline o quello di We Here (decisamente, gli ACD han fatto una cosa valida in vita loro, e quella è stata Street Life. Poi, il nulla), che potrebbero andar bene per tutti e per nessuno. Poi, anche stavolta c'è una lunghezza eccessiva (diciotto tracce, maddài...) e, soprattutto, anche a questo giro dobbiamo sopportare gli ospiti pacco: Erick Sermon come rapper non solo è trascurabile ma coi Mobb non c'entra nulla, Alchemist non sa rappare, V-12 e Chinky sono l'antitesi del canto e Flame Killer -che si può sentire nel singolo!- è una mezza chiavica. A questi nomi, insomma, l'onore di rovinare qualsiasi traccia sulla quale appaiano -sempre che non ci pensi qualcun altro. E questo qualcun altro può essere il produttore (Sid Roams con Closer), l'MC (Knitty su 4/20 e non solo) oppure entrambi (il pessimo doppio tempo di G.O.D. sull'assordante That Smell). Insomma, per dirla brutalmente, pure stavolta i Nostri potevano e dovevano scremare un po': sia quantitativamente che qualitativamente.
Ma in fondo li si può perdonare... Credo che il malinteso possa esservi stato quando all'uscita di Special Edition si pensò che loro fossero un gruppo dotato di qualche particolare marcia in più, mentre in realtà sono dei grezzoni che generalmente fanno rap grezzo nel modo più grezzo possibile. E, accettata questa sorta di «visione artistica», uno si mette il cuore in pace riuscendo pure a godersi le canzoni belle da loro fatte; tuttavia non si riesce a scacciare il pensiero che se si fossero limitati ad un solo disco con il materiale più potente sarebbe forse stato meglio... ma del resto i greatest hits esistono anche per questo, per cui tra non molto provate a ripassare da queste parti. Intanto, a Reality Rap do un tre pieno e che non se ne parli più.





Infamous Mobb - Reality Rap

VIDEO: BETTI BYE BYE

lunedì 11 gennaio 2010

INFAMOUS MOBB - BLOOD THICKER THAN WATER (IM3 Records, 2004)

Visto che venerdì vi ho scritto di Infamous, ancora ieri sera m'è venuto in mente che per questioni di completezza filologica -oltreché di ricerca di emozioni forti- sarebbe stato delittuoso non battere il ferro finché è caldo e dunque scrivere qualcosa sui da me tanto amati Infamous Mobb. Il trio composto da G.O.D. Pt. III (che è come se io mi facessi chiamare «Amarcord» o «Miracolo A Milano», se ci pensate), Ty Knitty ed il divino Twin Gambino, evidentemente non appagato dal successo di Special Edition, non si è addormentato sugli allori e a distanza di soli due anni dall'episodio precedente ha dato alle stampe un sequel del loro ottimo debutto, corredandolo peraltro di un DVD autocelebrativo contenente video "ufficiali", interviste e amenità varie. Imperdibile!
Ma volendo lasciar da parte l'aspetto cinematografico di Blood Thicker Than Water, impossibile da descrivere a parole nel suo essere così ghettusamente oltre, vediamo di fare il punto della situazione: nel primo capitolo della Trilogia del Cinghiale avevamo lasciato i tre nella sporcizia e nel degrado del Queensbridge, loro quartiere d'origine, mentre si trovavano a combattere un'eterna battaglia contro la polizia, i rapper parrucconi, le fake hoe$ e gli onnipresenti playa-hatin bitch-azz nigguz. Una battaglia senza esclusione di colpi in cui il trio non faceva ostaggi, e a suon di banconote, droga e rime AABB i nostri cercavano di emergere dallo squallore in cui le circostanze li avevano fatti precipitare. Ora, nel secondo capitolo, cos'è cambiato?
Assolutamente nulla, e difatti la loro lotta si presenta dura come non mai; ma loro, mai domi, si dimostrano pronti ad affrontare qualsiasi avversità e, a partire dalla copertina (in cui si vede G.O.D. accendersi un sigaro con delle banconote da 100$, roba che nemmeno Rockerduck), decidono di mettere in campo tutto il loro arsenale. Il singolo Empty Out (Reload, che fa parte del titolo a mo' di suggerimento) ne è l'esempio migliore: su un bel loop di archi sottolineato da batterie quadrate volte esclusivamente ad accentuarne la potenza ed a conferire un tiro ben serrato al tutto, G.O.D., Ty Knitty e l'ospite nonché mentore Prodigy si lasciano andare a quel che sanno fare meglio: scagliare minacciose invettive contro chiunque si frapponga tra di essi e le loro ambizioni, il tutto ribadito da numerosi effetti di arma da fuoco nel ritornello. Direi che non si potrebbe chiedere di più: il beat di Masberg picchia, gli MC fanno il loro dovere ed alla fine l'unica cosa che spiace è che Gambino sia relegato al solo ritornello. Ma per gli orfani del Sandro Ciotti del QB c'è molto altro materiale: Greenback, per esempio, oltre a godere di un'altra cartella di Masberg (stavolta incentrata su un giro di piano che renderebbe orgoglioso l'Havoc dei tempi d'oro) vede i tre avvicendarsi al microfono e, come prevedibile, è Twin a rubare la scena grazie ad entrate come "You can jump, we can thump, dunn, whatever you want/ You don't want me to send Alamo out with the pump/ He a young ass kid and he ready to ride/ Don't even look this way 'fore I punch you in your eye". Analogamente, più avanti nel disco c'imbattiamo nell'ottima U Know The Ratio, che riprende il mai abbastanza noto campione di archi tratto da Instant Love di Leon Ware (la parte meno prevedibile, peraltro) e la rende di una cupezza tale per cui la presenza di Twin e di cut azzeccatissimi nel ritornello non sono che la proverbiale ciliegina sulla torta. Non male nemmeno il lavoro del californiano Nucleus, che omaggia apertamente il miglior Alchemist con Watch Your Step, e che viene seguito da un Joey Chavez forse un po' pigro (un loop della zozzissima Millie Jackson che viene lasciato girare senza fronzoli) ma certamente dotato di buongusto. Chiaramente, questi sono beat che al sanno pestare su woofer ma al contempo mantengono una melodia orecchiabile: esattamente ciò di cui abbisognano i nostri, i quali puntando tutto sul carisma necessitano sia di batterie che enfatizzino quest'aspetto, sia di aspetti melodici che distraggano dalle loro evidenti lacune tecniche.
Qui Quo e Qua non brillano infatti per altre doti che non siano le voci, e pur sapendo far di necessità virtù in modo davvero invidiabile (peccato per Ty Knitty, che il più delle volte è proprio inascoltabile) hanno sempre bisogno di beat di qualità superiore alla media. E per quanto anche stavolta si può dire che nell'insieme ci riescano -pur essendo sprovvisti di Alchemist- vi sono diversi episodi in cui l'aspetto musicale crolla portandosi appresso gli Im3. More Hoes Than Hefner è un ottimo esempio di questa pochezza, nel senso che a fronte di una base accettabile il talento lirico complessivo non è sufficiente a riscattare la canzone dall'alveo della mediocrità tendente al brutto; idem come sopra per Got That Iron, apparentemente un'ode al ferro da stiro, che precipita sotto i colpi dell'ignobile ritornello di Chinky e soprattutto del generico beat "curato" da tale Steve Sola -quando si dice nomen est omen. Peccato infine per l'uso fiacco fatto della mitica Supernatural Supernature di Cerrone (ascoltatevi Venom degli Arsonists per notare la differenza) in King From Queens, e peccato anche per la bruttarella Gunz Up -unica apparizione di un Alchemist col pilota automatico innestato e quindi piuttosto inutile.
Insomma, arriviamo al dunque: i tre porcellini stavolta hanno allungato il brodo con le cazzate spingendosi oltre la soglia del «vabbè pazienza, so' regazzini»: non solo includendo materiale che avrebbe fatto meglio a restare negli hard disk di V.I.C. (che ha curato il mixaggio del tutto facendo un ottimo lavoro) ma anche arrivando ad inserire pezzi -Gunz Up e Tonite- in cui non c'è alcuna traccia degli Im3 stessi ma solo di alcuni loro amici! Giusto loro potevano... Comunque sia, diciamo che vista oltretutto la ripetitività lirica dei tre, sarebbe stato molto meglio avere una tracklist sulle tredici-quattordici unità, in quanto la qualità di alcuni pezzi sarebbe risaltata molto di più. Così com'è, invece, si tratta di un piccolo passo indietro per gli Infamous Mobb, che se da un lato non gli farà perdere i fan, dall'altro nemmeno li aiuterà a farsene di nuovi.





Infamous Mobb - Blood Thicker Than Water

VIDEO: WHO WE RIDE FOR

venerdì 8 gennaio 2010

MOBB DEEP - THE INFAMOUS (Loud/RCA, 1995)

Ci sono artisti per i quali compilare raccolte antologiche è quasi una necessità, in quanto la loro discografia è qualitativamente frammentaria e perciò farne una sorta di riassunto quasi giova alla loro reputazione; altri, invece, ne hanno bisogno perchè la loro carriera è talmente lunga che avere una sorta di Bignami può aiutarli a guadagnare i fan più giovani. Altri ancora, infine, presentano una peculiarità parecchio tediosa per chi si dovesse cimentare in questa sorta di operazione, consistente cioè nell'avere all'attivo un album definibile come «classico» a tutti gli effetti: non solo quindi per quanto riguarda strettamente la loro storia, ma quella della musica in generale. Succede perciò che il compilatore da un lato deve necessariamente scremare del materiale, ma dall'altro sarebbe spinto ad includere l'intera opera e bona lé. Questo è il caso di Nas, di GZA, dei Public Enemy e, appunto, dei Mobb Deep.
Infatti, quando qualche tempo fa mi sono cimentato nella loro antologia, pur disponendo di ben 240 minuti di tempo/spazio vi giuro che ero tentato di includere l'intero The Infamous: ma non solo perchè questo disco è uno dei pilastri della storia dell'hip hop, ma anche perchè personalmente il mio legame con questa meraviglia di album è fortissima, forse ancor più che con Illmatic o Liquid Swords. Non scherzo quando dico che da quattordicenne quest'album segnò i punti cardinali di quello che per me dev'essere innanzitutto il rap, cioè basi cupe dalle atmosfere caduche, sulle quali qualcuno deve rappare in maniera tale da appagare sia l'aspetto tecnico che quello della scrittura. L'hardcore, insomma. Punto. Poi, certo, nel tempo mi sono ammorbidito ed ho imparato ad apprezzare molte delle miriadi di sfumature di questa musica ma, ancor'oggi, fornitemi materiale analogo a quello dei Mobb Deep e sappiate che di base lo preferirò sempre a qualsiasi altra cosa, per bella che essa possa essere. Per dire: Nation Of Millions? Storico. Low End Theory? Capolavoro. Enta Da Stage? Non c'è nemmeno da chiedere, ma... per quel che mi riguarda Infamous è tutt'un'altra cosa, mi spiace.
Considerato a ragione uno degli artefici della riaffermazione della supremazia nuiorchese su tutto il resto, quando il secondo album dei Mobb venne anticipato dal singolone Shook Ones Pt.II -anch'esso senza dubbio tra le migliori dieci canzoni di sempre- risultava chiaro che qualcosa di grosso stava per succedere: l'attacco di hihats e rullante, il campione di Quincy Jones che pare quasi un lamento, ed infine la frase introduttiva per definizione "To all the killers and the hundred-dollar-billers" che lascia libero spazio ad una delle linee di basso più potenti che si fossero mai sentite da You Gots To Chill in poi. Pura poesia. E se già questo potrebbe bastare, come scordarsi delle strofe di Prodigy e degli innumerevoli quotables che esse contengono? Secca ammetterlo, ma aveva perfettamente ragione Phonte dei Little Brother quando scriveva che uno dei motivi per cui P è di diritto entrato nella storia dell'emceeing è dovuto alla sua capacità di regalare singoli versi a dir poco memorabili. Insomma, tanto per farla breve mi limito a dire questo: qualora qualcuno dovesse dimostrare curiosità per il rap e voi voleste fargli sentire qualcosa, dategli Shook Ones; se gli piace c'è speranza e vale la pena passargli altro, mentre in caso contrario non è la musica che fa per lui.
Ma se fosse solo per Shook Ones i Mobb potrebbero esser stati delle meteore come tanti altri; il fatto è però che nel loro caso sono riusciti a mettere insieme tredici canzoni spettacolari di cui alcune a dir poco immortali, per cui i 66'51'' di durata di Infamous ancora oggi scorrono con una naturalezza ed un godimento da parte dell'ascoltatore assolutamente impareggiabili. in più, essi son stati capaci di creare un intero mondo o, meglio ancora, un immaginario quasi cinematografico di cui The Start Of Your Ending, con i suoi melancolici arpeggi appoggiati da un set di batterie a dir poco brutale, non è che solo l'inizio. La discesa nel ventre di una New York -più esattamente il Queensbridge- violenta ed ostile proseguono con Survival Of The Fittest, il cui minaccioso campione di piano ha contribuito a far entrare nella storia la canzone: in essa Hav e Prodigy ci ricordano quanto sono propensi alla violenza ("I'm going out blastin' takin' my enemies with me"), in un crescendo di minacce ("There's a war going on outside no man is safe from") e accenni a diversi gradi di antisocialità ("Fuck lookin' cute I'm strictly Tim boots and army certified suits"). Ora, nel bene e nel male questa loro forma di ultraviolenza ha segnato una dipartita da quelle che erano le tematiche classiche legate a New York, in cui certo non si respirava aria di tarallucci e vino ma nemmeno s'aveva assistito ad un simile sfoggio di aggressività, storicamente ben più vicino agli ambienti di Compton e South Central; da Infamous in poi la tendenza prenderà sempre più piede in un'orgia di chi la spara più grossa e questo a molti non è piaciuto ma, come dire?, gli effetti speciali spesso e volentieri ci stanno (vedi quel che recentemente ha scritto Combat Jack).
Ma ultraviolenza a parte, questo disco presenta altri aspetti della famigerata street life che qui vengono esplorati sotto prospettive diverse ed a loro modo innovative: ne sono esempi lo storytelling über-ghettuso di Trife Life, l'excursus nella paranoia da arresto di Temperature's Rising -logicamente seguita da Up North Trip, descrizione di un viaggio e raltivo soggiorno a Riker's Island- o anche la concept track Drink Away the Pain. Insomma: The Infamous non solo porta agli estremi la logica della hood tale così come già affrontata in precedenza da Kool G Rap, ma da un lato la esaspera ai limiti del surreale e dall'altro la rinchiude all'interno delle mura del ghetto, del quale è componente essenziale e diffusa. In più, a ciò aggiunge valanghe di paranoia diffusa su più livelli ed una misantropia non comune, col risultato finale che nelle azioni dei Mobb -idealmente rappresentativi del QB- non c'è né catarsi, né speranza ma solo negatività.
Piaccia o meno l'idea, l'esecuzione è indiscutibilmente perfetta sia dal punto di vista delle liriche che da quello dei beat. E parlando di questi, esattamente così come i testi hanno segnato una svolta stilistica estesasi ben oltre i soli Havoc e Prodigy, essi hanno apportato diverse innovazioni in senso generale oltre ad aver conferito un'identità, un sound al loro quartiere d'origine. I brevissimi loop scelti da Havoc vengono difatti tagliati, ricomposti e sovrapposti ad altri con abbondante uso di filtri; contestualmente, le batterie suonano secche ma il fatto di utilizzare sovente di un riverbero conferisce loro comunque potenza, la quale infine viene sottolineata da linee di basso corpose ma mai troppo pulite. Oltre a ciò, la predilizione di pianoforti e archi nel sampling -rispetto alle cose più jazzate o funk degli anni precedenti- distacca definitivamente The Infamous dallo stile predominante dell'epoca permettondogli di coniare un nuovo filone che fa della cupezza la propria cifra stilistica. Difficile in tal senso trovare produzioni indiscutibilmente superiori ad altre -Shook Ones Pt.II a parte- ma la cosa non è grave; sia che si tratti di Q.U. Hectic che Up North trip, alla fine ciò che si assaggia non sono soamente che diverse fette della stessa torta.
Difetti, quindi, nessuno; storico, impeccabile, innovativo, longevo e soprattutto il mio album preferito di sempre. Infamous continua a far storia da quindici anni a questa parte. Stab your brains with your nosebone...





Mobb Deep - The Infamous

VIDEO: SHOOK ONES PT. II

lunedì 30 novembre 2009

NAS - STILLMATIC (Columbia/Ill Will, 2001)

Non molto tempo fa ho recensito Illmatic decantandone le lodi e conferendogli di conseguenza un tanto ovvio quanto meritato punteggio pieno: del resto cosa si può fare quando ti trovi di fronte ad uno dei tre migliori dischi degli ultimi quindici anni, se non il migliore? Bene, era il 1994. Ora facciamo un balzo in avanti di sette anni e ricapitoliamo in breve cos'è successo durante questo periodo: il rapper conosciuto come Nasty Nas ha pubblicato prima un album valido me deludente se rapportato al precedente, poi a momenti s'è bruciato la carriera col ben brutto disco del collettivo The Firm salvo risollevarla col discreto I Am, ed infine ha spazientito persino i suoi fan più accaniti col fiacco Nastradamus. Tutto ciò è avvenuto contestualmente ad uno spostamento degli equilibri all'interno della scena americana, che ha visto prima l'emersione e dopo la consacrazione commerciale definitiva degli stati a sud della Mason-Dixon, e poi una scissione irreversibile tra underground e mainstream, con a capo di quest'ultimo "filone" un Jay-Z quanto mai battagliero e deciso a schiacciare i suoi avversari, tra i quali proprio Nas.
Veniamo quindi a Stillmatic: com'era ovvio, ciò di cui Nasir Jones aveva bisogno era di un qualcosa di ben definito che lo svegliasse dal suo torpore e lo reindirizzasse sui binari abbandonati tanto tempo prima, e ciò è avvenuto nell'estate e nell'autunno di otto anni fa. I vari dissing di Jay-Z, soprattutto quello fatto durante la Summer Jam e la successiva conferma data da Takeover (che aveva come plus quello di essere incluso in un album classico, come a conferma della validità dello status dell'autore), hanno fatto capire al Nostro che se non voleva chiudere la carriera così l'unica soluzione era quella di ricreare un Illmatic moderno. E per un soffio quasi non ce l'ha fatta.
Veniamo innanzitutto alla prima cosa che risalta di Stillmatic: le liriche e le diverse concept track qui presenti. Quanto alle rime appare evidente fin dall'introduzione che Jones ha vivaddio abbandonato ogni velleità pseudomafiosetta per tornare a focalizzarsi su quella poesia di strada che gli aveva fatto meritare il titolo di erede di Rakim; e difatti la cosa non solo gli riesce ma gli riesce benissimo. Stillmatic è uno dei dischi moderni meglio rappati che la mia pur enciclopedica memoria può ricordare, con flow e metriche precisi ed incisivi come un bisturi e capaci di sezionare i diversi aspetti della New York del 2001(ma non solo, come vedremo) così come era stato capace di fare nel '94. Su 15 pezzi -17 se includiamo le tracce bonus- almeno tredici (o quindici, a seconda) possono essere definiti la gioia di qualsiasi fan di rap che possa dirsi tale, grazie a metafore originali, un immaginario vivido e dai toni sempre azzeccati, e senz'altro uno sfoggio d'abilità mai fine a sè stesso e comunque autogiustificantesi. Voglio dire, se uno apre un pezzo dicendomi di essere il migliore e poi prosegue così: "narration describes the lives of lost tribes in the ghetto tryin to survive/ The feature opens with this young black child/ fingers scratched, cigarette burns on the sofa, turnin the TV down/ While Mary Jane Girls, 45's playin, soft in the background", io cosa posso dirgli? "Non ti credo, dimostramelo"? Ma è già tutto lì, perdio!
E comunque, se anche fossi un'inguarbile scettico -e viste le delusioni datemi in precedenza da Nas avrei anche il diritto di dubitare- le riconferme che quanto lui sostiene è effettivamente vero vengono giù a pioggia man mano che ci si addentra nell'opera. Ether, ad esempio, oramai più che un dissing è un'icona del genere, tantopiù che ha fatto nascere il verbo «to ether» per descrivere l'offesa perfetta, l'insulto finale, lo sberleffo che chiude i giochi e fa andare via uno dei concorrenti a testa bassa col capo cosparso di cenere. Ricevere un simile riconoscimento non è poco per un genere storicamente competitivo come l'hip hop, questo è indubbio. Così com'è indubbio il fatto che canzoni come Rewind e One Mic siano dimostrazioni di elevatissimo livello di cosa significhi avere un'idea e cosa significhi metterla in pratica: nella prima, infatti, Nasir si lancia in uno storytelling al rovescio esattamente come se si mandasse indietro una videocassetta (quindi non solo la struttura del racconto è invertita ma anche la sua forma) con risultati straordinari, mentre nella seconda fa coincidere il crescendo dato dalla base con il proprio tono di voce e con la metrica e, tanto per non "annoiare", con la terza strofa ribalta questo climax fino a giungere ad un epilogo pressoché sussurrato.
Non basta, non ancora: Destroy & Rebuild è una sorta di cover di The Bridge Is Over, con la ovvia differenza che l'attacco stavolta è portato dall'interno e vede come vittime Prodigy, Nature e Cormega; inutile dilungarsi su questioni come chi ha torto o chi ha ragione, ciò che conta è che liricamente la canzone regge benissimo il peso di quell'eredità. Ancora, Rule si propone come una sorta di sequel di If I Ruled The World e lo fa bene, mentre My Country e What Goes Around si propongono come i pezzi più pregnanti dal punto di vista della critica sociale. E laddove la prima è parzialmente rovinata da un tragico featuring e da un epilogo non proprio «sul pezzo» ("This goes out to Che Guevara, a revolutionary destroyed by his country"... no Nasir, lui era argentino ed è stato ucciso in Bolivia da forze governative locali, e non me la racconti che intendevi al Sudamerica), la seconda è semplicemente inattaccabile.
Ora, se non vado avanti è solo perchè riassumere pezzi così ben scritti in bignamini di dieci/venti parole rischia di privare l'ascolto della sua caratura originale. Meglio allora parlare di beat, così posso anche spiegare perchè malgrado un'assoluta eccellenza lirica non me la sento di conferire i tanto agognati cinque zainetti a Stillmatic. Vedete, se infatti escludiamo la tragica Braveheart Party (che è stata esclusa fin dalla seconda ristampa, che comunque ho ma che vi propongo lo stesso per correttezza filologica), il problema di Stillmatic è che le basi non sono sufficentemente valide per fargli raggiungere la perfezione. Insomma, per farla breve: se Nas avesse dato alle stampe non dico dieci, ma undici o dodici canzoni e poi stop avremmo sì un classico; così, semplicemente, no. Prima di tutto fatemi dire che il beat di Ron Browz per Ether è l'unica cosa che mi fa dubitare dell'indiscussa superiorità di questa su Takeover; quando penso a "suono di plastica" io penso ad Ether, perchè quegli archi ultrafiltrati e la pressoché totale assenza di batterie rappresenta proprio questo. Se invece cerco una definizione di "sample del cazzo", cosa dire allora della scelta di adoperare un campione tratto da Everybody Wants To Rule The World dei Tears For Fears? Certo, c'è stato di peggio (vedi i Duran Duran e la loro Notorious), ma santiddio... In più, basi come quelle di Destroy & Rebuild (Baby Paul) o You're Da Man (Large Professor) non rappresentano certamente il meglio che si potesse ottenere dai loro autori, specie in quest'ultimo caso, dove la colonna sonora di Exodus viene ripresa per la zilionesima volta e pure in maniera moscia.
Ciò detto, per il resto ci siamo eccome: Got Urself A Gun campiona in maniera prevedibile ma efficace il pezzo d'apertura dei Sopranos, Woke Up this Morning degli Alabama 3 e picchia in maniera non indifferente; 2nd Childhood vede un Premier a suo agio con delle atmosfere rilassate ideali per i contenuti del testo, e Large Pro, dal canto suo, si redime per i peccati di You're Da Man con l'eccellente ed atmosferica Rewind. A stupire, però, non è solo Salaam Remi con la sua sobria, semplice ed efficace What Goes Around, ma anche e soprattutto Nas, che firma in veste di coproduttore l'ottima Smokin' e la sensazionale One Mic. Come una persona capace di creare -anche solo parzialmente- due simili beat continui puntualmente a cazziare le scelte delle basi è davvero al di là delle mie facoltà cognitive.
Bòn. Cosa resta da dire (a parte che il ritornello di Rule eseguito da Amerie fa cagare)? Resta da dire che nella scaletta delle migliori opere di Nasir Jones -e sono quattro se escludiamo i Lost Tapes- questa probabilmente si colloca come seconda, e calcolando il valore della prima direi che non è poco. Come ho detto, se la tracklist avesse escluso You're Da Man, Braveheart Party (già fatto ma, insisto, la prima stampa la include ed è stata tolta per motivi esterni alla scelta artistica), e volendo anche My Country -per via del portaborse incapace- e al limite Rule ed il suo tremendo ritornello- allora avremmo tra le mani un classico inattaccabile. Così, invece, c'è "solo" un disco che pur non essendo letteralmente perfetto riesce a raggiungere questo status grazie sì a molte basi azzeccate, ma soprattutto ad un Nas come non lo si sentiva dal '94.





Nas - Stillmatic

VIDEO: ONE MIC

lunedì 23 novembre 2009

CORMEGA - BORN AND RAISED (Aura, 2009)

Uno dei motivi per i quali ricorderò il 2009 come un anno particolare risiede senz'ombra di dubbio nel climax qualitativo che lo ha caratterizzato: l'anno è iniziato con i N.A.S.A. e si chiuderà probabilmente con i Clipse, come a dire dalla merda alla Nutella. Grossomodo si può infatti dire che nei primi sei mesi sia uscita solo munnezza o comunque robaccia dozzinale, mentre a partire dall'estate abbiamo assistito ad un'impennata di valore senza precedenti; in più, quand'anche questa curva crescente ha subito degli imprevisti, questi sono stati netti ed inequivocabili. Per fare un paio di esempi: Honda & Problemz -primo semestre- è una ficata, Rakim -secondo semestre- una vaccata; stesso discorso per Finale e Jay-Z.
Ma non solo: secondo il mio modesto parere ci troveremo a festeggiare il capodanno avendo in saccoccia almeno tre dischi eccellenti: il sopracitato Honda & Problemz, Only Built 4 Cuban Linx II ed infine questo Born And Raised. A conti fatti, quindi, benchè fino a marzo abbia sofferto i contraccolpi di un disco più fiacco dell'altro, direi che il bilancio di fine anno risulti essere non solo positivo ma anche superiore a quello del 2008 e del 2007. Bene... e allora?
Allora niente, è solo che oramai non so più come introdurre un disco di 'Mega e qualcosa dovevo pur dire, no? O mi sarebbe bastato scrivere "questo disco è una ficata, compratelo" e tanti saluti? Forse sì, sarebbe stato meglio, perchè in effetti come posso descrivere correttamente la bontà di Born And Raised essendo sprovvisto dell'abilità di un David Foster Wallace? Mi rispondo da solo: magari cominciando col dire che, considerata la lunga pausa fatta da 'Mega tra il suo ultimo album solista e questo (sette anni!), e considerate le voci che avevano cominciato a girare per la rete con un effetto domino impressionante -simile a quando Fantozzi guarda la Corazzata Kotiomkin e si vocifera che l'Italia stia vincendo sull'Inghilterra per venti a zero- le aspettative avevano raggiunto un livello spaventoso ed al di fuori di ogni controllo. In più, il fatto che Cory McKay finora non avesse prodotto cose paragonabili a Immobiliarity o Lex Diamond non gli dava nemmeno quella possibilità dell'uscirsene con materiale da "beh dai poteva andare peggio".
Fortunatamente, invece, le promesse sono state mantenute e se per una volta si può parlare di capolavoro (perlomeno personale), ebbene, questo è il caso. Born And Raised è IL disco da comprare se si vuole sentire il meglio che questo MC, partito in sordina e cresciuto artisticamente senza sosta nel corso degli anni, ha da offrirci. Sia come beat, in assoluto i migliori nell'insieme, sia come testi, sia, infine, come pura tecnica. Qui Cormega dà il massimo. Di più: la coesione dell'opera è superiore alle precedenti e, non per la prima volta ma meglio che in precedenza, la sensazione è quella di trovarsi di fronte ad un album vero e proprio e non una collezione di tracce. A partire dal preludio fino alla conclusiva Mega Fresh X, Born And Raised fluisce senza inceppi con una naturalezza oramai purtroppo rara, tant'è che si iunge al termine dell'ascolto con la spontanea tentazione di premere «play» un'ennesima volta.
Innanzitutto, i testi: che lui sia un raro esempio di MC capace di incrociare poesia, hood tales, note autobiografiche e completa onestà è ormai un fatto assodato e di per sè non fa notizia. Ma che sia riuscito a perfezionare alcuni di questi tratti, su tutti la scrittura ma anche l'apertura personale (e senza cadere nel melodramma) dovrebbe esserlo: questo disco è difatti pieno fino all'orlo di quotables in maniera non dissimile da quanto Nas era riuscito a fare in Illmatic. A partire dall'intro, dove 'Mega rappa "This is my defining moment, my rhymes rose in the concrete/ Life imitates art so I spit on heartbeats" fino a giungere a "My jewels so colorful, my daughter don't gotta watch cartoons/ Dudes watch my moves, like Lebron fresh out of high school", le citazioni da fare sarebbero troppe e nemmeno avrebbe senso farle in questa sede. Vi basti sapere che, grazie anche ad una metrica fattasi più complessa ed un notevole miglioramento della tecnica, il Nostro dà la paga a tutti gli ospiti del disco escluso Big Daddy Kane. Scusate se è poco.
Ospiti che, peraltro, pur andando da Tragedy a Grand Puba, passando per Havoc e Lil' Fame, non sono messi lì così per fare ma aggiungono il loro timbro al concetto stesso della canzone su cui sono ospitati. E se la cosa risulta facile -vedi Lil' Fame- piuttosto che riuscita grazie alla stessa presenza -come in Mega Fresh X- il tutto risulta meno scontato nei casi di Define Yourself e, soprattutto, Love Your Family. Quest'ultima, che funge anche da esempio perfetto della capacità d'aprirsi di 'Mega, viene arricchita da un featuring di Havoc qui sorprendentemente capace di restare sul tema e dire la sua.
Insomma, liricamente siamo su livelli altissimi, ma apprezzabili solo se da un lato si parla bene l'inglese e dall'altro se si è capaci di andare oltre alla logica della punchline o della metrica ultracomplessa fine a sè stessa; le tematiche, come già detto, sono quelle caratteristiche del Nostro, ma ruotando comunque attorno a sue esperienze o punti di vista non risultano trite e ritrite nemmeno a chi ha consumato i suoi dischi precedenti.
Ed in quanto a beat, beh... Pete Rock, Large Pro, Premier, L.E.S., Ayatollah... diciamo che nessuno, a parte Easy Mo' Bee (la sua scarna e sottoprodotta Get it In lascia onestamente a desiderare), delude. Inoltre, a metà disco c'è un poker d'assi strabiliante formato dai seguenti pezzi: The Other Side (Fizzy Womack), Live And Learn (Pete Rock), Make It Clear (Premier) e Journey (Large Professor). In particolare, tra questi stupisce sì Primo, finalmente di nuovo tra noi in buona forma, ma soprattutto il membro degli M.O.P., che produce un beat che trasuda jazz da ogni poro -l'avreste mai detto?- grazie anche ad entrate di sax suonate dal vivo che aggiungono la canonica ciliegina sulla torta. Non male neanche Define Yourself, che campiona Go On And Cry di Les McCann, così come le souleggianti What Did I Do e Rapture, che pur attingendo ispirazioni dallo stesso pozzo si collocano ai lati più estremi dello spettro dell'uso dei campioni soul. In chiusura, invece, troviamo un Buckwild forse non al top dell'ispirazione ma che si difende bene, anche se avrei trovato più coerente col sound complessivo dell'album l'inclusione della versione di Fresh curata da Emile. Poco male.
Ora: devo aggiungere altro? Volete proprio che vi trovi qualche difettuccio perchè altrimenti vi sembro troppo un fanboy -cosa che oltretutto effettivamente sono- di Cormega? Beh, allora eccovi appunto Get It in, sinceramente skippabile (e a me gli M.O.P. abbinati al Nostro non hanno mai convinto troppo), e forse lo storytelling di girl, in cui si rappresenta la cocaina come una meretrice che con le sue liaisons ha mietuto diverse vittime (seguono diversi esempi); non che sia un brutto pezzo o che, ma un po' stona considerando che il resto di Born And Raised è assai autobiografico.
Contenti ora? Ecco, allora andate e compratelo perchè è sicuramente uno dei tre migliori dischi di questo 2009 nonchè il migliore della già ottima carriera di 'Mega.





Cormega - Born And Raised

VIDEO: JOURNEY

lunedì 16 novembre 2009

TRAGEDY KHADAFI - AGAINST ALL ODDS (Gee Street, 2001)

Quando stamattina ho messo via Against All Odds per scriverne una recensione mi sono ripromesso di non esordire con una delle frasi da me più usate: "XYZ è senz'altro uno degli MC più sottovalutati di sempre", e questo perchè nel suo caso non credo che sia vero. Certo, non si può dire che i suoi album siano dei bestseller, né tantomeno che la sua fama oscuri quella di Michael jackson. Tuttavia, il suo nome viene sempre associato al rap di qualità da parte di chiunque abbia un minimo di conoscenza dell'hip hop, e non c'è dubbio che tra queste persone egli sia reputato come uno dei migliori artisti mai usciti da Queensbridge. Eppure... eppure, nell'arco di una carriera oramai quasi ventennale, Trag non è mai riuscito a sorprenderci con un classico o quantomeno con un'opera capace di fare accoliti anziché guadagnare il plauso dei soli convertiti; ultimamente, poi, questa possibilità è stata ufficialmente resa impossibile da una sentenza a quattro anni di prigione che il Nostro finirà di scontare nel 2011. Perciò l'unica cosa che resta da fare a noi fan è ripassarci i suoi lavori -magari skippando le raccolte pacco uscite di recente- e lo farei partendo dal suo terzo album, Against All Odds, che in un certo modo ha segnato il suo ritorno ufficiale sulla scena dopo una penuria di album durata otto anni.
In realtà, questo periodo sarebbe dovuto durare meno (l'uscita di AAO era prevista per il '99), ma tant'è: nel 2001 la Gee Street rese finalmente possibile sentire un'opera completa del deus ex machina che ha contribuito in maniera determinante alla creazione del semiclassico The War Report, e sulla carta l'opera pare allettante: produzioni di Just Blaze, Ayatollah, Young Lord, Spunk Bigga, Sha Self e Nashiem Myrick da un lato, e dall'altro featuring di Cormega, un Ja Rule ancora non marcito e nuove promesse del suo quartiere che, visto il suo curriculum di talent scout, all'epoca facevano ben sperare.
Purtroppo, però, la caratura effettiva di questi aspetti è alla fine decisamente inferiore alle aspettative. Innanzitutto perchè il suo nuovo delfino, Headrush Napoleon (!?!) è l'archetipo del disoccupato incapace che finisce sugli album di gente degna per motivi artisticamente incomprensibili; non scherzo quando dico che ogni sua incursione si fa sentire nel modo più negativo possibile (figuratevi che, al di là di limiti di scrittura e di qualità delle rime, in Bing Monsters riesce persino ad andare fuori tempo -ma perdio...) riuscendo così a sabotare la riuscita delle canzoni. Secondo motivo: il debole di Trag per i ritornelli kitsch cantati da incapaci è ormai tristemente noto, ma ciò non di meno sentire gentaglia come Tasha Holiday, Olu o Joya (che fa rima con troya) rovinare pezzi altrimenti validi è sempre un brutto colpo. Last but not least, mentre nella maggior parte dei casi i beat sono stati scelti con criterio, talvolta s'incappa nella ciofeca senza capo né coda: è il caso di Say Goodbye e delle sue batterie sghembe, What Makes You Think col suo piglio ruffryderiano d'accatto, e infine di 2-5 Radio con la sua maledetta tentazione -puntualmente malriuscita- di avere un pezzo clubbeggiante di cui nessuno sentiva il bisogno. Oltretutto, dando un'occhiata alla tracklist ci si rende conto che la maggior parete delle puzzonate (per un verso o per l'altro) è concentrata nella seconda metà di Against All Odds, col triste risultato che l'ascolto nel suo complesso viene fortemente danneggiato in quanto si rischia alle volte di perdersi le belle cose che quest'album, malgrado tutto, contiene.
Prima fra tutte è il liricismo ed il carisma di Tragedy: oltre ad essere dotato di una bella voce e di una tecnica ineccepibile, il suo maggior pregio consiste nel saper accostare riferimenti cultural-religiosi alle peggio maragliate del Queensbridge. Non è infatti un caso che lui sia l'inventore della cosiddetta «rightful ign'ance», cioè esattamente quest'arte di saper intrattenere su due fronti apparentemente diversi e che si può sintetizzare in questa citazione dalla title track (comunque è una strofa riciclata da Calm Down): "I blow shots from a drop rover 'till the world's over/ Seeing Jehovah through the eyes of a young soldier/ Black Moses - literature in pure dosage/ From the landscape of Kuwait, Jakes and vultures/ Too many of us lose focus due to the fact that/ we're all just a bunch of soldiers, foul cultures/ Funny how the streets mold us, Allah told us/ in the cages where they hold us, it's much colder".
Grazie a questa originalità il risultato è che, per quanto la sostanza ghettusa non cambi, l'ascolto risulta più piacevole in quanto l'impressione che si ha è quella di non essere sottoposti alle solite puttanate ma a qualcosa di più profondo. Sensazione illusoria, d'accordo, ma perchè rinunciarvi? E poi Tragedy comunque ci dimostra che non è solo fuffa quella che racconta; non sono infatte rare le occasioni in cui il Nostro decide di focalizzarsi su temi ben precisi e, guardacaso, sono proprio questi i pezzi che ad ascolto terminato restano impressi più a fondo. Permanently Scarred è un estratto della sua biografia contenente diversi esempi di lirismo notevoli, mescolati ad osservazioni sui massimi sistemi (chiamiamoli così) paragonabili per qualità solo a quanto fatto da Cormega; parlando del quale, è inevitabile notare come il duetto di They Forced My Hand sia tra le cose migliori dell'intero disco; anche T.M. (Message To Killa Black) brilla, nonostante l'uso qualitativamente inferiore dello stesso campione usato per Watcha Gon' Do della Terror Squad; in chiusura, è da applausi il dissing a Noreaga di Blood Type. Insomma, a parte i soliti falliti di cui sopra, liricamente non c'è davvero nulla di cui potersi lamentare; Trag si conferma essere un ottimo MC e in quest'occasione l'unico capace di dargli la paga è egli stesso. Persino il rischio di ripetersi è qui ridotto all'osso, principalmente grazie alla sua inventiva e alla famosa «rightful ign'ance», per cui cosa chiedere di più?
Mi rispondo da solo: dei beat un po' più belli. Intendiamoci: tolte le autentiche boiate elencate qualche paragrafo addietro, non c'è nulla che sia genuinamente orrendo. Sono però molte le produzioni prive di mordente e, a conti fatti, le uniche degne di menzione sono Sidewalk Confessions, Blood Type, They Forced My Hand e, volendo, Bing Monsters. Per il resto sono cose al massimo carucce ma drammaticamente generiche; e tra synth, loop di piano e qualche archetto campionato quà e là sembra di ascoltare un compendio del sound del QB, una sorta di "beat cupi for dummies" che francamente affossa di molto la longevità tutta del disco. Non è un caso infatti che Trag sia uno di quei artisti che più necessiterebbero di una raccolta.
Vogliamo dunque trarre le somme? Allora: sul versante positivo abbiamo un artista eccellente, due featuring azzeccatissimi, due canzoni complessivamente strepitose, due parecchio belle ed un 6-7 apprezzabili ma niente de che. Su quello negativo, invece, ci sono degli ospiti all'80% incompetenti, tre beat osceni e molti -troppi casi- dove un singolo elemento (ritornello fiacco, ospite schiappa ecc.) guasta la festa. Ne consegue che, per quanto mi dispiaccia, essendo trag uno dei miei MC preferiti, proprio non riesco a trovare motivi sufficenti per dare a Against All Odds più di tre.





Tragedy Khadafi - Against All Odds

giovedì 22 ottobre 2009

CORMEGA - THE TESTAMENT (Legal Hustle, 2005)

Come qualsiasi aficionado del rap degli anni '90 sa, la decade in questione è stata caratterizzata non solo dalla definitiva emersione commerciale dell'hip hop, ma anche da alcune delle pratiche più becere per cui le case discografiche sono tristemente note, in primis il cosiddetto "shelving": in pratica si tratta di mettere sotto contratto un artista, farlo lavorare fino a quando ha in mano un prodotto più o meno finito e pronto per la distribuzione, salvo poi gettare lui ed il suo album nel limbo dei dischi annunciati e mai più pubblicati senza particolari motivi. Tra le tante major che in quegli anni si cimentarono in questo comportamento ai limiti della criminalità, la Def Jam si contraddistinse in particolar modo per la sua incompetenza e la sua cecità, bloccando prima l'esordio di Trigger Tha Gambler (ad oggi reperibile solo via internet) e poi l'altrettanto atteso debutto di Cormega. I motivi per compiere una simile azione mi sono completamente sconosciuti e spero perciò che qualche insider che dovesse passare da queste parti riesca ad illuminarmi, perchè anche con il famoso senno di poi posso tranquillamente affermare che i suddetti due dischi avrebbero soddisfatto le aspettative dell'epoca al di là di ogni ragionevole dubbio. Cosa ancor più grave, ricordo che per ambedue i prodotti erano stati spesi fior di dollari in pubblicità ed in promo di vario genere, per cui le ragioni che possono aver portato ad una reclusione dei relativi master mi risultano ancor più ineffabili, portandomi di conseguenza a pensare ad un abuso di droghe pesanti negli uffici della Def Jam se non peggio.
Ora, la fortuna di restare un fan del rap anche nel 2009 consiste tra le altre cose nel poter approfittare di ristampe e raccolte curate in genere da estimatori del genere oppure da etichette discografiche dotate di un pochino di sale in zucca, ma è raro se non impossibile vedere lo stesso artista-vittima muoversi per dare ai suoi fan la possibilità di entrare in possesso di un'opera a cui egli stesso probabilmente non è nemmeno tanto interessato. Bene: dite "buongiorno" a Cormega. Nel 2005 egli è riuscito a riacquistare i master di Testament dalla Def Jam e, dopo averli risistemati e un po' "aggiornati" in termini di mixaggio masterizzazione, a raccoglierli in quello che sarebbe dovuto essere il suo album d'esordio nel '99.
Inutile dire che, da fan sfegatato di 'Mega quale sono, come ho saputo della sua uscita, mi sono fiondato a comprare l'originale; fino a quel momento avevo sempre più o meno snobbato le versioni che giravano su internet, e dunque alla fin della fiera di suo materiale originale ed "autorizzato" avevo solamente Testament (pubblicata sul disco bonus allegato a It's Dark And Hell is Hot di DMX) ed il singolo Killaz Theme b/w Angel Dust. Inutile quindi dire che, quando ho inserito il CD nel lettore, come sono partite le prime note di Dead Man Walking e Montana Diary ho avuto un'erezione retroattiva che mi ha portato a riavere 17 anni; roba che a momenti mi mettevo a farmi una cassettina da mettere nel mio vecchio glorioso walkman (l'ho ritrovato! So che non ve ne frega un cazzo, ma è LUI!) per andare a scuola. Insomma, com'è ovvio l'effetto nostalgia è inevitabile, e pertanto ho deciso che, avendo buona memoria, recensirò quest'album con i criteri corretamente contestualizzati e non -come ho purtroppo visto fare- con quelli del 2005.
I beat, prodotti perlopiù da Nashiem Myrick e con singoli contributi di Sha Money XL, RNS (quello del GP Wu e Shyheim), Hot Day, Havoc e altri, rientrano pienamente nelle atmosfere del Queensbridge come precedentemente dettate da Hell On Earth. Ci sono tuttavia alcune differenze, prima fra tutte una maggiore epicità del tutto: i campioni hanno spesso un piglio orchestrale, e quindi -tanto per fare un esempio abbastanza emblematico- è più facile incappare in loop di intere sezioni d'archi che non di singoli violini. Come seconda cosa, il suono è più corposo, da un lato, e più pulito dall'altro: questo è dato probabilmente da una revisione del mixaggio, ma già quando uscii Testament si poteva notare una certa differenza tra i lavori di Cormega e quelli, ad esempio, dei Mobb Deep o di Capone 'N' Noreaga. La terza differenza è, infine, quasi una conseguenza delle precedenti: in termini relativi, si può dire che quest'album rappresenti una sorta di apertura al resto di New York, tanto più che vi sono purtroppo alcune concessioni (come i ritornelli cantati) che fino ad allora erano stati del tutto assenti -o quasi- nei lavori provenienti dal QB.
Ma su quest'aspetto ritornerò più avanti; intanto penso che sia impossibile non restare ancor'oggi affascinati dalla title track, prodotta dallo stesso Dave Atkinson di Affirmative Action, che mescola molto bene tutta una gamma di suoni che vanno dall'organo all'arpa, passando per un bel sample vocale che viene fatto entrare nel ritornello; lo stesso dicasi per Dead Man Walking e Montana Diary, con la prima più essenziale nel suo sinistro loop di piano e la seconda invece nuovamente orientata in direzione orchestral-peschereccia. Havoc, dal canto suo, si fa notare per la valida Angel Dust e soprattutto per l'ormai celebre Killaz Theme, che non avrebbe sfigurato (anzi!) se inserita in Murda Muzik a fianco di una Quiet Storm. Ottima, nella sua semplicità, pure '62 Pick Up (autoprodotta) e Love Is Love, grazie al riutilizzo dello stesso sample degli Ohio Players già sentito in B.I.B.L.E. di Killah Priest.
Purtroppo, come dicevo, moltissimi beat (e strofe) validi vengono massacrati da incursioni cantate tipiche del pessimo gusto di quegli anni: Love Is Love, Every Hood e Coco Butter presentano degli idioti che si sgolano senza un apparente motivo che non sia quello di rendere pacchiano il tutto. Ed è per esempio in questi casi dove si nota una certa immaturità artistica di 'Mega, che qui non solo talvolta scrive in maniera del tutto impersonale (Coco Butter non presenta molto di suo, è generica), ma soprattutto usa espedienti di bassa levatura per imprimere una direzione al pezzo (vedi i cantati o l'occasionale scarrellamento d'arma da fuoco, come a dire "ehi, questo pezzo fa brutto, capito?").
Tuttavia, i segni del suo talento sono complessivamente evidenti in più d'una occasione: sia come MC puro e semplice (Testament, Killaz Theme, Angel Dust), sia come storyteller fuori dal comune ('62 Pick Up, Dead Man Walking, Montana Diary) che, infine, come scrittore puro semplice: la sua one Love, una sorta di risposta all'omonima canzone di Nas, non raggiunge i livelli dell'originale ma ne risulta una degnissima controparte e riesce ad anticipare una certa sensibilità e maturità che si sarebbero poi viste negli album successivi. E a questo punto certe mancanze tecniche -principalmente enfasi e controllo del respiro- passano in secondo piano; si può quindi dire che già nel '98 'Mega fosse un artista da tenere d'occhio.
In conclusione, quindi, se da un lato Testament non può essere paragonato a pietre miliari come Infamous o Illmatic, e nemmeno a debutti eccellenti come War Report, dall'altro l'esito è di una bontà tale che non si capisce francamente perchè mai questo disco non abbia visto la luce del giorno nei tempi previsti. Ora, se io dovessi consigliarvi un album di Cormega questo non sarebbe certamente il primo della lista, dato che oramai è possibile avere un MC unico e completo mentre qui, volendo, è un po' generico rispetto agli standard attuali. Se però cercate un qualcosa capace di riportarvi ai fasti del Queensbridge ed in particolar modo del suo particolare sound, allora direi che questo esordio merita senz'altro un ascolto; quattro zainetti vintage, allora, non si discute.





Cormega - The Testament
Bonus: Enhanced CD Video

giovedì 15 ottobre 2009

MOBB DEEP - HELL ON EARTH (Loud/RCA, 1996)

"9-pound we rocked it/ '96 strike back with more hot shit": queste le parole di Prodigy in riferimento alla loro influenza nel biennio '95-'96 e, per una volta tanto, non si può affermare che come al solito un rapper stia esagerando. Il '95 è sicuramente stato l'anno dei Mobb Deep e del loro Infamous (anche se il Wu...), un disco che ha ridefinito il concetto stesso di cupezza e gangsta rap nuiorchese -passatemi il termine- introducendo a detta di molti, e questa è la cosa più importante, quello che per molti anni sarebbe stato il suono caratteristico del Queensbridge. Al pari di Illmatic, anche Infamous è un disco perfetto e senz'altro prima o poi ne parlerò più approfonditamente, ma per ora trovo più interessante buttar giù qualche riga sull'album che lo ha seguito: Hell On Earth. Quest'album non è mai stato sottovalutato, ma senz'altro è stato considerato il "fratello scemo" del predecessore, in quanto oggettivamente è privo dell'impatto e della freschezza di Infamous, senza naturalmente scordarsi dell'assenza di un singolo dalla potenza pari a Shook Ones.
Tuttavia, ciò che fortunatamente gli è stato riconosciuto fin da subito è una qualità fuori dal comune e la pressoché totale assenza d'imperfezioni, con come bonus alcuni pezzi assolutamente grandiosi; in più, ciò che secondo me si dimentica è che forse è stato più HOE (bel acronimo) che Infamous a conferire un'identità sonora al quartiere di provenienza dei Mobb. Archi e violini effettati, loop brevi e ripetuti ossessivamente, rullanti riverberati, giri di piano... la mia modesta opinione è infatti che, pur essendo Infamous qualitativamente superiore, alla fin fine l'influenza maggiore sia stata data da questo (come prove vi porto War Report, Testament di Cormega ed i singoli di Tragedy Khadafi immediatamente successivi al '96). Bizzarro, no?
In realtà nemmeno tanto, perchè non bisogna scordarci che almeno tredici pezzi su quattordici sono da applausi a scena aperta, e di questi un buon sei sono classici o quasi. Havoc qui spoglia le sue produzioni da qualsiasi elemento che potrebbe portarci fuori da atmosfere invernali, favorendo cupi loop di piano o archi a cui sommare batterie martellanti e più spinte che nelle sue opere precedenti; inoltre, egli migliora le sue qualità di MC, ed è solo perchè in quest'album abbiamo un Prodigy al massimo della sua forma -ben più che in Infamous- che i complimenti giuntigli al tempo riguardavano esclusivamente le sue doti di beatmaker. Ecco, già che stiamo parlando di prodigy: qualcuno sa spiegarmi cosa può essergli successo in poco più di un anno? Voglio dire, come è possibile che un buon rapper quale lui già era riuscisse a raggiungere simili vette in un arco di tempo così breve? Non so, la seconda strofa di Hell On Earth, Apostle's Warning o Nighttime Vultures lasciano a bocca aperta ancora adesso, non solo per l'immaginario violento e paranoide che Pee sa sapientemente creare, ma anche e soprattutto per la complessità delle rime e per la sua straordinaria abilità nello spezzare i versi e nel passare da un tipo di rima all'altro all'interno della stessa barra senza quasi che ci si accorga di ciò. Davvero impressionante; infatti, pur essendoci degli ospiti di un certo calibro, come Nas e Raekwon, il Nostro gli da una paga che poteva solo sognarsi in Infamous!
Ciò detto, reputo quasi secondario analizzare le tracce una per una; preferisco limitarmi alle più interessanti e a quelle più note, dedicando alle restanti poche righe. Seguendo questo modus operandi, la prima che andremo a esaminare è la stupenda title track, in cui su un tanto breve quanto efficace loop di Rhodes i nostri eroi hanno tutto lo spazio per lasciarsi andare alla loro tipica ultraviolenza, e specialmente Prodigy non si lascia sfuggire l'occasione: "The heavy metal king hold big shit with spare clips/ You see eclipse when the Mac spit, your top got split/ Layin' dead with open eyes close his eyelids/ Turn off his lights, switch to darkness, let's deepen up/ It's a street life, blood on my kicks shit on my knife/ You'se a wildchild, kiko, turnin' man into mice". Non da meno è poi la sottovalutata Apostle's Warning, in cui Havoc campiona efficacemente People Make The World Go Around di Jacko, e anziché usare il sample ad ogni inizio di verso (come per esempio in Keep On di Last Emperor) preferisce lasciare che siano le batterie ed il basso a parlare e, ancora una volta, Pee fa miracoli con una lunga strofa di 48 barre veramente spessa. Non da meno è poi Nighttime Vultures, col suo campione orchestrale ed un featuring di Raekwon, così come anche Extortion trova il suo perchè non tanto per via del beat -nuovamente focalizzato su un loop d'archi da sei secondi- quanto per via di un'ospitata di Method Man che qui dà il meglio si sè. Tuttavia, più ancora di queste, sono la collabo con Noyd, intitolata Man Down, e More Trife Life a lasciare il segno: la prima si distingue per via del beat, decisamente il più sinistro di tutto l'album, e per via di un Noyd in modalità Give Up The Goods (spettacolare l'aplomb con cui dice la sua sul rap progressivo: "First of all them dyke niggas with that spaced out shit/ I stick a rocket up in they ass and give 'em a lift"); la seconda, invece, per un Havoc che dimostra qui la sua crescita come liricista grazie ad un eccellente storytelling a metà tra Clockers e Goodfellas.
Se poi proprio dovessi trovare qualche piccolo difetto, allora mi verrebbe in mente il fatto che la collabo con Nas delude un po' (nulla a che vedere con Eye For An Eye) e che Bloodsport è forse l'unico pezzo davvero dozzinale dell'insieme, anche se darei un braccio per riavere un Hav che sappia produrre beat simili. Escludo invece da qualsiasi tipo di atteggiamento critico la ripetitività concettuale dell'album: sticazzi se ogni pezzo parla sostanzialmente di violenza nelle sue varie forme e ghettuseria assortita, è esattamente ciò che chiedo ai Mobb Deep fintanto che l'esecuzione è buona.
E qui l'esecuzione non è semplicemente buona bensì eccezionale, tanto più che si può considerare Hell on Earth (pronunciato dal 90% dei repponi italiani "Ell on Art"... no, porcoddio, "Hell On Erf!") il canto del cigno del duo di Queensbridge, che dopo questo semicapolavoro riusciranno solamente a produrre al massimo dischi buoni (Murda Muzik), discreti (Amerikaz Nightmare) o puzzonate imperdonabili (Infamy, Blood Money), perdendo per giunta tutta la credibilità guadagnata fino a quel momento grazie a vari exploit suicidi di un Prodigy sempre più vittima della robba e di sè stesso. Avvisaglie di questa perdita di senno da parte del Nostro si potevano comunque già notare allora, nel '96, quando Keith Murray gli tirò una saccagna sul naso e lui ritenne doveroso incidere un dissing al membro della Def Squad (e non solo) intitolato In The Long Run, e che si poteva trovare nella versione Enhanced del disco sbloccandola via internet o esplorando il contenuto con un Mac, cosa che ho fatto io. Nella ristampa, anch'essa da me posseduta, questa è andata persa assieme ad alcuni dei fantastici video a risoluzione da cellulare, ma siccome sono buono vi passo tutto in una seconda cartella, tanto per. Facezie a parte, cosa devo dire? Imprescindibile.





Mobb Deep - Hell On Earth
Bonus: Hell On Earth Enhanced CD

VIDEO: G.O.D. Pt. III

NAS - ILLMATIC (Sony Columbia, 1994)

Come promesso, ecco la versione originale di Illmatic. Nel pomeriggio invece la recensione del dì. Ovviamente non sto a ripetere il voto, mi pare ovvio che sia un cinque.

Nas - Illmatic

VIDEO: HALFTIME

mercoledì 14 ottobre 2009

NAS - ILLMATIC: 10 YEAR ANNIVERSARY PLATINUM SERIES (Ill Will/Sony Columbia, 2004)

Sperando che il pacchetto da Amazon mi arrivi in giornata, vorrei oggi riportare il blog sulla terraferma del rap più ortodosso ed al contempo farmi perdonare da alcuni dei miei lettori per l'exploit di Kid Cudi. E allora calo l'asso: niente cazzetti underground bensì Illmatic. Nas. Uno dei più grandi dischi di sempre, sicuramente nella top 5 della storia del rap -ditemi di no e vi mando a fanculo- e per giunta nella versione rimasterizzata e con delle tracce bonus. E volete sapere una cosa? Ho comprato quest'edizione solamente per trovare un qualche appiglio per poter scrivere la recensione di un disco su cui è stato detto praticamente tutto e che a distanza di quindici anni basterebbe quindi definire "perfetto" e chiuderla così. Ma non è possibile o, comunque, non ci riesco: devo assolutamente scrivere qualcosa su una di quelle opere capaci di ridarti la fede nei confronti di un genere che troppo spesso mette a dura prova la pazienza ed i timpani dei suoi fan, e così proviamo a ripassare mentalmente tutti quei nove motivi che rendono Illmatic un capolavoro sotto ogni punto di vista.
Dopo l'intro, in cui ci viene efficacemente presentato il contesto in cui Nas si muoverà mediante un campione di treni sferraglianti preso da Wild Style, si parte con quella che è una delle più vivde descrizioni di quello che era l'angolo oscuro della New York del '94. Il campione di piano tratto da Mind Rain di Joe Chambers è perfettamente adeguato per le batterie di Premier, che qui supera sè stesso, ma soprattutto per le abilità descrittive di un Nas che riesce ad immortalare luoghi e circostanze con una serie di istantanee che si staccano da un certo iperrealismo per creare addirittura degli archetipi validi per il futuro. La macchina da presa di Nasir Jones si muove tra palazzi abbandonati, giardini incustoditi pieni di erbacce ed i fumi che escono dai tombini in inverno con una precisione ed una forza poetica degna del miglior Scorsese, impreziosendo il tutto con one-liners che sarebbero entrati immediatamente a far parte della Storia del genere: "I never sleep, 'cause sleep is the cousin of death", "I ran like a cheetah with thoughts of an assassin", "Life is parallel to Hell but I must maintain"... gli esempi sono troppi, ma basta la seconda metà della seconda strofa per riconoscere che si ha di fronte ben più che un semplice MC.
Non da meno è Life's A Bitch, in cui un giovanissimo AZ scrive una strofa indimenticabile (Visualizin the realism of life and actuality/ Fuck who's the baddest, a person's status depends on salary) che lo condannerà per il resto della vita a doversi scusare per non aver più saputo riproporre nulla del genere; ma anche il contributo di Nas, spesso ignorato a favore del precedente, vede nuovamente un ricco immaginario venir delineato con un miscuglio di fotografie e riflessioni personali da queste derivanti. Non per ultimo, l'assolo di tromba di Olu Dara, padre di Nas, conferisce all'etereo beat di L.E.S. un ulteriore tocco di classe e suggestività.
E The World Is Yours? Cosa dirne? Certamente si nota una maggiore positività sia nel taglio del beat che nelle strofe di Nas, ma siamo ben lungi dagli eccessi che sarebbero venuti negli anni successivi (purtroppo anche da parte di Nas stesso); il materialismo che ha sempre caratterizzato il rap qui è solo accennato in un paio di passaggi, e pure in modo relativamente sobrio, mentre per il resto ci sono libere associazioni di pensiero quasi che il Nostro stesse sognando ad occhi aperti: " There's no days, for broke days we sell it, smoke pays/ While all the old folks pray, to Je-sus' soakin they sins in trays/ Of holy water, odds against Nas are slaughter/ Thinkin' of a word best describin my life to name my daughter/ My strength, my son, the star, will be my resurrection/ Born in correction, all the wrong shit I did, he'll lead a right direction". Un mood che, espresso nella scrittura e nel flow ineccepibile di Nas, si sposa a perfezione con il sobrio beat di Pete Rock, che campionando veloci passaggi di piano contrapposti ad altri più scarni e brevi, si conferma essere il genio da molti ormai riconosciuto.
E già che siamo in tema di geni, mica salta fuori Large Professor con Halftime? Prodotta e registrata nel '92, è sorprendente vedere come comunque regga il confronto con gli altri pezzi qui presenti, e per quanto si noti una certa "superficialità" da parte del protagonista -siamo al puro e semplice braggadocio- non si può sorvolare su come già due anni prima egli fosse tecnicamente un MC ineccepibile.
Ma per vederne la peculiarità si sarebbe dovuto aspettare l'uscita di Illmatic; come già detto, la sua capacità di fondere poesia e realismo è unica, e questo viene ulteriormente dimostrato nella amarcordiana Memory Lane, contenente due strofe eccezionali e soprattutto uno dei beat più melodici offertici in quegli anni da Premier: uno stupendo campione di Reuben Wilson, caratterizzato in particolar modo da un cantato sommesso/mormorato, fornisce quel quid di atmosfera nostalgica senza però scadere nel melenso e comunque mantenedo una buon tiro. Classico, così come classica è anche One Love: so che la conoscono tutti, ma come non ripetere che il beat di Q-Tip è, nella sua semplicità, un qualcosa di geniale degno di stare nell'Olimpo delle migliori produzioni di sempre. Asciutto, lineare ed accompagnato solo da basso e batteria, il loop di xilofono fornisce a Nas il tappeto sonoro perfetto per scrivere la miglior canzone-lettera ad un amico incarcerato di sempre e che, in quanto tale, e come altre canzoni sentite finora, merita un posto nella Storia dell'hip hop.
A seguire c'è poi l'unico pezzo meno che superbo del disco -cioè One Time 4 Your Mind, dalla produzione un po' tanto scarna- al quale fa seguito Represent, anch'essa spesso criticata per la produzione un po' "pigra" di Premier ma che stavolta mi vede nuovamente entusiasta. Certo, non c'è la genialità mostrata in NY State Of Mind o Memory Lane, ma ciò non di meno resta un gran bel beat, perfetto per dare il "la" ad un Nas in perenne forma smagliante. Infine, arriviamo a It Ain't Hard To Tell, che chiude in bellezza un disco di suo impeccabile. A colpire quà non c'è solo il liricismo di Mr. Jones, sul quale non francamente più nulla da aggiungere se non "m'inchino", ma anche una base curata da Large Pro che se la gioca in bellezza con NY State Of Mind e One Love: a impressionare non è solo l'evidente bellezza del campione di Human Nature, ma come questo viene smontato e rimontato da Extra P e come egli sappia impreziosirlo con una linea di basso ugualmente fantastica.
Whew. Ce l'ho fatta. Ora, non sta a me riassumere i motivi per i quali questo disco ha rivoluzionato il genere specialmente sotto il punto di vista del liricismo; so solo che dopo di esso l'hip hop è cambiato e che ancor'oggi, se si vuol fare un album, Illmatic è uno dei pochi punti di riferimento validi. Tuttavia, resta ancora qualche parola da spendere su questa edizione celebrativa, e la prima cosa riguarda la rimasterizzazione. Contrariamente a quello che può avvenire con la musica suonata live, ancor più se ha venti o trent'anni e in originale è stata registrata con mezzi tecnici appena passabili (vedete solo le riedizioni di Murmur o Unknown Pleasures), nel caso dell'hip hop i margini di miglioramento sono relativi. In questo caso, se da un lato è inevitabile che il tutto abbia un suono più pulito e meno "amalgamato" nel suo insieme, dall'altro non è che le migliorie siano fondamentali -e poi non è che Illmatic di suo suoni come una puzzetta- e, soprattutto, forse toglie un po' del fascino dell'opera originale. Insomma, è come quando nell'800 si restauravano opere vecchie di trecent'anni attualizzandole secondo i criteri correnti, un'operazione sempre un po' al limite. Casomai, il motivo per un acquisto di questa 10th Anniversary Edition, se si è già possessori dell'originale può essere ritrovata nel disco bonus; tuttavia, devo dire che la scelta di non includere remix dell'epoca ma attualizzazioni -valide o appena passabili, ma nulla più- per me non ha un briciolo di senso. Cosa vuoi che mi freghi di avere un remix parajiggy di Life's A Bitch? O una versione da quattro soldi di It Ain't Hard To Tell? A conti fatti, l'unica che si salva è The World Is Yours, più l'inedito Star Wars e l'ormai stranota On The Real, che però stavolta ci viene presentata nella forma interamente rappata da Nas.
Diciamolo: come bonus non è che ci sia un granchè di valido, e d'altronde anche il remastering lascia il tempo che trova anche se perlomeno non sono stati troppo invasivi; ora, io oggi vi passo questa versione, che ha comunque il pregio di costare davvero una sciocchezza, ma domani vi giro anche l'originale. In ogni caso, l'uno o l'altro vanno comprati, non c'è dubbio.





Nas - Illmatic: 10 Year Anniversary Platinum Series

VIDEO: IT AIN'T HARD TO TELL

venerdì 11 settembre 2009

CORMEGA - THE REALNESS (Legal Hustle/Landspeed, 2001)

E con Cormega eccoci anche oggi all'ormai quasi consueto appuntamento con il rinfrescamento della memoria: pur non avendo conosciuto il successo nel corso degli anni '90, egli è uno dei pochi artisti ai quali ancor'oggi faccio affidamento (come e più dei mostri sacri di quella decade) perchè so perfettamente che non se ne uscirà con cagate fatte tanto per fare. Il suo nuovo album uscirà il 20 ottobre e potete star certi che lo comprerò a scatola chiusa, vuoi anche solo per il suo curriculum artistico, che volentieri definisco ineccepibile. Con questo non voglio dire che abbia prodotto dei classici in senso stretto, ma che la sua consistenza nel sfornare ottimi dischi a tutto tondo senza intervallarli da inutili mixtape o orpelli di questo genere è pressoché unica. E in tutto questo getto anche la sua padronanza della scrittura che, mescolata ad un'onestà non comune e -pare- un'intelligenza non comune, lo rende uno dei pochissimi artisti che prendo sul serio e che ascolto con estrema attenzione.
Alla luce di questo è per me quasi scontato che abbia intitolato il suo esordio ufficiale The Realness, perchè per una volta tanto questo titolo roboante corrisponde a verità oltre che descrivere in genere ciò che si troverà nell'album. Album che, pur con le sue magagne e le sue imperfezioni, non esito a definire essenziale per chiunque nutra una passione per questo genere musicale e, più in generale, per buona musica a cui corrisponde personalità.
Liberiamo il campo dai dubbi: The Realness è secondo me lievemente inferiore al successivo The True Meaning, ma non per questo vale meno. A rendere possibile questa apparente contraddizione è 'Mega stesso, che nel corso di 50 minuti ci porta a braccetto nella sua realtà come solo i migliori affabulatori -e intendo questo termine nella sua accezione più positiva- sanno fare. A partire dall'intro fino a giungere a They Forced My Hand egli ci racconterà di compagni morti, di vita nel Queensbridge, di rivalità, di galera e in generale di tutto ciò che ha contribuito a renderlo la persona che è. Non mancheranno i momenti Amarcord, dai quali traparirà una evidente nostalgia anche quando narrerà degli eventi non esattamente edificanti che potevano aver luogo in un ghetto americano durante gli anni '80. Insomma, grossomodo la stessa formula (anche se è offensivo definirla tale) che affinerà poi in True Meaning, ma che già in questa versione "adolescente" risulta capace di coinvolgere l'ascoltatore.
Un coinvolgimento che avrà l'effetto secondario di far notare, oltre all'eccellente scrittura ed ampiezza di vocabolario, una tecnica buona anche se non immacolata. Qualche sbavatura quà e là la si trova, più che negli aspetti tecnici, però, in quelli strettamente legati all'esperienza; vale a dire che talvolta la pausa ad effetto c'è dove non ci dovrebbe essere e viceversa, oppure in un passaggio si dilunga troppo su certi aspetti tralasciandone altri, oppure ancora si ripete (non letteralmente, ovvio) in due canzoni. Sciocchezze, se vogliamo, ma di cui tenere conto se vogliamo giudicare la sua crecita artistica prima ancora che The Realness stesso.
Ciò comunque non inficia più che tanto l'ascolto dell'album dal versante lirico; a farlo sono casomai i beat che, analogamente a quanto avverrà nell'opera successiva, hanno fin troppo la tendenza a suonare di già sentito. E questa tendenza si manifesta nel modo più prevedibile possibile: molti campioni sono stranoti a chi ascolta rap da qualche tempo. Qualche esempio: Fallen Soldiers è Beggar's Song (It's Like That di Jay-Z); Unforgiven è Un Bon Son ecc. degli IAM; You Don't Want It è Alone In the Ring (Victory di Puff Daddy) e via dicendo. Ora, non per questo le suddette canzoni sono brutte o che; semplicemente suonano, diciamo, famigliari e questo comporta inevitabilmente una minore longevità. Peccato, perchè quelle che invece suonano freshe vengono a questo punto un po' penalizzate, nel senso che si fatica un po' più ad ascoltare il disco di filata; tuttavia, autentiche chicche come Thun & Kicko con Prodigy, They Forced My Hand con Tragedy (pezzo migliore, non c'è discussione), The Saga o la ghost track Killaz Theme Pt.II lasciano il marchio. Insomma, per quanto alcuni beatmaker si siano un po' impigriti, alla luce dei risultati direi che la media è medioalta/alta: pur non essendo nomi notissimi (J-Love, Spunk Bigga, Sha-Self, Ayatollah...) questi dimostrano buone capacità, tant'è che l'unico a fallire è Alchemist ed il suo remix di Fallen Soldiers, in sè e per sè non brutto ma incompatibile con tema e rappata di 'Mega.
Che altro dire? Come esordio direi che Realness è davvero molto buono ed in fondo dimostra quanto l'attesa necessaria per vedere pubblicato un disco di Cormega non sia stata vana; rispetto a Testament la crescita artistica è sostanziale e, pur non possedendo nè la ruvidità di quest'ultimo, nè la pulizia di The True Meaning, direi che non possederlo sarebbe quantomeno delittuoso. Oscilla insomma tra il tre e mezzo ed il quattro, ma voglio essere generoso. promosso.





Cormega - The Realness

VIDEO: R U MY NIGGA