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venerdì 13 novembre 2009

CANNIBAL OX - THE COLD VEIN (Def Jux, 2001)

Trasporre la nozione di polarità dalla chimica in altri contesti è una tentazione alla quale molti non sanno resistere, dato che così facendo non solo si spera di spiegare la coesistenza nello stesso ambito di diverse anime apparentemente inconciliabili tra loro, ma spesso si può poi sfruttare questo apparente stato delle cose per giungere a conclusioni pratiche tendenti a migliorare proprio quest'ultimo. Inutile dirlo, ma questa pratica fa acqua da tutte le parti in qualsiasi situazione e da qualsiasi punto la si voglia osservare: prima ancora che nella pratica, nella logica. Essa difatti presuppone una reazione causa-effetto che non sempre c'è e, soprattutto, dà connotazioni ai due diversi poli che dovrebbero avere lo scopo di influenzare il giudizio di terzi. Gli esempi si sprecano: nella politica prima che in altri settori (penso all'abuso della teoria degli opposti estremismi o, più recentemente, all'autoesegesi dei cosid. «terzisti» del CorSera), ma anche nel cinema (chi giustifica l'esistenza di Boldi e De Sica jr. dicendo che sono l'inversione speculare dei film di Antonioni) e nella musica.
Avvicinandoci al succo della recensione, entro nel dettaglio parlando di come nel rap l'utilizzo -inconsapevole o meno, è irrilevante- di questa logica fallace sia da un lato uno dei motivi principali per l'esistenza e la crescita negli ultimi 15 anni di autentiche ciofeche, e dall'altro la causa di una mancanza di discernimento da parte degli utilizzatori finali (chiamiamoli così). Quante volte infatti abbiamo letto dichiarazioni dell'artista X in cui esso ci spiegava tuttto gongolante che il suo è "an album made for everyone. You got the party joints, the introspective gems and that street shit", come a dire che in medio stat virtus; poi, puntualmente, all'uscita dell'opera in questione il tutto si rivelava essere una mediocre merdina incapace di distinguersi dal marasma di uscite analoghe. Insomma, non è un caso se l'ultimo disco capace di fondere efficacemente questi diversi aspetti sia stato forse Capital Punishment, no? Ma, peggio ancora, questa impostazione ha avuto per troppo tempo influssi devastanti sui gusti del pubblico, che tra il '98 ed oggi è riuscito a sorbirsi puttanate stratosferiche come l'80% della roba targata Ruff Ryders, le ultime creazioni di Busta Rhymes ma soprattutto gli aborti di Fat Joe. Tutto materiale privo di spina dorsale e fondamentalmente definibile come «indecenti paraculate» che sarebbe da spernacchiare con cori di rutti e controcanti di scorregge, se non fosse che così facendo li si darebbe un'ultima chance di essere ricordati.
A restare nella memoria, invece, oltre a veri e propri fenomeni di costume come è stato Get Rich Or Die Tryin', sono -pensa un po'- album dotati di un'identità e di un target ben precisi, oltre naturalmente ad una qualità superiore alla norma. Nel 2001 abbiamo avuto due di questi esempi: The Blueprint da un lato, e The Cold Vein dall'altro. Ma dei due, quello che forse può dirsi di maggiore impatto (sempre considerando i rispettivi ambiti, si capisce) è stato quest'ultimo: più che Funcrusher Plus è stato l'esordio dei Cannibal Ox a rendere rilevante qualsiasi lavoro di El-P e a cementare la sua fama di beatmaker d'eccezione, senza contare il fatto che, speculando un po' ma nemmeno troppo, Cold Vein ha messo in evidenza la Def Jux tutta come fucina di talenti e guida di quello che viene definito abstract hip hop. Inutile in quest'occasione dibattere sul valore di questi termini, diciamo semplicemente che Cold Vein sta alla Def Jux e al rap underground come Radio sta alla Def Jam degli esordi. I motivi? Ce ne sono a bizzeffe.
Il primo è che se questo disco viene spesso paragonato a Enter The Wu (nientemeno!) ciò si deve innanzitutto alla produzione. I beat di El-P si possono immediatamente identificare come lo-fi, per quanto in realtà essi siano sovente costruiti da complessi strati di suoni tagliati e reincollati in maniera peraltro inusuale e fresca. Le batterie, soprattutto, pur conservando l'impatto sonoro di un Large Professor spesso vengono arricchite da distorsioni e flange di vario genere, senza contare riverberi metallici ed il frequente utilizzo dei soli cassa e rullante. Ad essi poi si aggiungono a seconda dei casi singole note di synth, brevi campioni raramente riconoscibili (cfr. Love & Happiness di Al Green) o quasi completamente ignoti al pubblico tipo dell'hip hop (Philip Glass, ad esempio), oppure veri e propri crepitii o interferenze date da elettricità statica. Un sound alienante, insomma, capace di proiettare l'ascoltatore all'interno di scenografie fino al 2001 pressoché sconosciute. Questa sommaria descrizione può chiudersi poi con un breve commento alle atmosfere: urbane, cupe, deprimenti e fredde come in ambito visivo solo Blade Runner di Ridley Scott ha saputo proporre: un parallelismo inflazionato, certo, ma ciò nondimeno il più azzeccato che vi sia per il lavoro svolto da El-P per Cold Vein.
Ora, dev'essere chiaro che però nel corso delle quindici tracce che compongono quest'opera vi sono diversi livelli in cui le caratteristiche di cui sopra vengono declinate: Ox Out the Cage, Straight Off The D.I.C., B-Boys Alpha e The F-Word sono quelle più vicine agli standard tradizionali; Battle For Asgard, Atom, Ridiculoid e Scream Phoenix si distanziano invece già di più dagli stilemi più classici; e, infine, Raspberry Fields, Real Earth o Pigeon risultano le più sperimentali dell'insieme, con pattern di batteria imprevedibili ed un uso dei sample e dei suoni impossibile da imitare -almeno all'epoca. Cold Vein ha quindi più possibilità di lettura e di certo non basta un ascolto per coglierne tutte le sfumature; al contrario, per riuscire ad apprezzarlo nelle sue sonorità gli ascolti devono essere ripetuti, e senza sforzo ma solo con esperienza si potranno apprezzare aspetti inizialmente apparsi magari come cacofonici.
[Apro una parentesi: devo fare un mea culpa: all'inizio Cold Vein mi faceva cagare. Ma di brutto, eh. Se da un lato questo era dovuto a un fraintendimento del senso dell'accostamento a 36 Chambers, dall'altro era semplicemente perchè ero ancora troppo legato all'ortodossia. Mi ricordo i primi tentativi d'ascolto, culminati appunto in un'enorme incazzatura per dei soldi che pensavo di avere buttato nel cesso e, tanto per non sbagliare, in macumbe e maledizioni varie volte contro chi ne aveva parlato in termini così entusiasti (Damir sul primo Groove, mi pare di ricordare). C'è voluto un ascolto casuale di Straight Off The D.I.C. qualche anno dopo, tipo nel 2003 o il 2004, per farmi riscoprire un disco che semplicemente richiede una certa esperienza d'ascolto che nel 2001 semplicemente non avevo. Che nessuno pensi che io sia stato così dritto da comprendere la portata di Cold Vein in tempo reale, ebbene sì, sono un fesso. Chiusa la parentesi.]
Tornando all'album, invece, è evidente ma non trascurabile l'apporto che Vordul e Vast Aire danno alle atmosfere di El-P. Innanzitutto perchè -e qui si ripropone il parallelismo Can Ox/Wu- quest'opera è piena fino all'orlo di versi memorabili capaci di farti dire "questi due sanno davvero quello che fanno". Il viaggio del duo nei meandri più bui di New York, argomento che permea pressoché ogni traccia di Cold Vein, è scandito da autentici colpi di genio come questi: "Mother didn't want you, but you were still born/ Boy meets world, of course his pops is gone/ What you figure, that chalky outline on the ground is a father figure"; "My first fight was me against five boroughs"; "Birds of the same feather flock together, congested on a majestic street corner/ That's a short time goal for most of 'em 'cause most of 'em/ Would rather expand their wings and hover over greater things". E mi fermo qui. Devo poi far notare che tutte queste citazioni sono di Vast, che del duo è indubbiamente il più riconoscibile e quello dotato della penna più immaginifica, ma è anche colui più proteso a salti logici apparentemente casuali; ed è qui che entra in gioco Vordul. Il suo stile più diretto e la narrazione più lineare (o terra-terra, se vogliamo) è un buon contrappeso ai viaggioni di Vast, e contrariamente a quel che sarebbe avvenuto nel suo disco da solista, la sua concretezza qua si fa apprezzare non poco.
Ma New York on è l'unico tema trattato, va detto: per quanto affrontato in maniera affascinante, da solo sarebbe un po' poco e così, oltre all'inevitabile autoesaltazione -vedi alle voci Battle For Asgard e Atom- vi sono in particolare due canzoni che risaltano: A B-Boys Alpha (che si collega per certi versi a Stress Rap) e The F Word. La prima (ed il suo collegamento) tratta sostanzialmente delle loro biografie e di come il reps abbia contribuito a tenerli lontani dai delirii della vita quotidiana in posti allegri come dovevano essere i ghetti negli anni '80; un tema già affrontato da altri in passato ma che qui, grazie all'esecuzione, funziona a prescindere da una relativa "obsolescenza". Il secondo brano, invece, è quello che più ha colpito l'immaginario collettivo e, detta molto brutalmente, si tratta di una versione per adulti della Regola Dell'Amico degli 883. Mi rendo conto che detta così vien da ridere, ma provate a fare uno sforzo d'immaginazione e concepite il testo come uno storytelling il cui di per sè vacuo contenuto guadagna in valore grazie alla scrittura; per dire, frasi come "she was in a love triangle, but it wasn't like my feelings weren't there to make it a square" Max Pezzali non le scrive mica. Liricamente, quindi, forse non c'è tutta la freschezza portata da El-P ma è fuor di dubbio che certe cose fino a quel momento non s'erano sentite, e per una volta tanto i voli pindarici ed i riferimenti oscuri in cui i due si lasciano andare non risultano ridondanti e/o fini a sè stessi.
In conclusione, l'unica cosa che si può fare è verificare se si tratti di un classico o meno; perchè che sia un discone coi controcazzi è fuor di discussione. E qui io sono francamente indeciso; propendo per il sì (il perchè dovrebbe essere chiaro), ma d'altro canto ci sono due difetti fondamentali che però mi disturbano -nel senso che altri classici ne sono privi- e cioè che lo trovo comunque un po' pesante e che due canzoni (Ridiculoid e Raspberry Fields) mi risultano indigeste. Tuttavia, mi rendo anche conto che si tratta di aspetti estremamente soggettivi, per cui io magari gli darei quattro e mezzo ma in nome dell'oggettività (e del quieto vivere) gli sparo un ricco cinque.






Cannibal Ox - The Cold Vein

VIDEO: PAIN KILLERS

giovedì 29 ottobre 2009

MR. LIF - ENTERS THE COLOSSUS (Def Jux/Metro Concepts, 2000)

Come da consolidata tradizione, il mattino successivo alle mie serate passate a gozzovigliare e bbere viene passato in parte al bagno (e stamane mi fregio di aver sganciato uno stronzo stile Little Boy), in parte al bar a cercare di riprendermi con un caffè ed una brioche al pistacchio, ed in parte sotto la doccia a pensare cosa potrei recensire col minimo sforzo possibile. Ovviamente, gli EP vengono molto comodi data la loro brevità, perciò stamane, asciugandomi le pelotas, sono stato fulminato sulla via di Damasco e mi son detto: "Tò mo', c'è Lif!".
Immagino di avervi ormai asciugato con Mr. Lif, però cosa posso farci? Mi piace, e poi trovo sempre qualcosa da dire su di lui e sulla sua musica. Ad esempio, per quanto oramai non mi sembri proprio il caso di riproporvi una biografia di qualche tipo, per Enters the Colossus bisogna ricordare che prima di tutto Jeffrey Haynes nasce come battle rapper, e se negli album successivi questo aspetto ha trovato sempre meno spazio in questo caso esso si palesa in tutta la sua forza: Datablend, Avengers, Enters The Colossus, Front On This, Pulse Cannon... per farla breve, tutte le canzoni, con l'eccezione di Arise, vedono il Nostro giocare con le parole con l'unico scopo di dimostrare la sua bravura. E se questo da un lato può sembrare sterile -e di certo lo è se col senno di poi pensiamo alla sua capacità di scrittore e polemista- dall'altro non si può restare indifferenti di fronte all'ottima alchimia che si crea tra emceeing e beat. E questo senza contare poi un tot di ospiti che arricchiscono enormemente l'esperienza d'ascolto complessiva: Akrobatik, Insight, T-Ruckus e Illin' P assistono Lif in tre tracce, ed essendo appunto questi pezzi pure esibizioni d'abilità, la varietà che questi featuring offrono è più benvenuta.
Anche perchè il Nostro non è esattamente un Chino XL: di punchline o trucchi del mestiere in genere ce ne sono pochissimi; più che altro, si può sentire un flusso costante di rime ben fatto dietro al quale però vi sono perlopiù metafore estese aventi a che fare con quello che genericamente viene definito "abstract hip hop". Un approccio tipico di quegli anni, che però se già allora non è che mi esaltasse più che tanto, oggi mi risulta piuttosto stantio; l'unica è quindi far finta che la voce di Lif sia parte integrante della struttura musicale e limitarsi quindi all'aspetto più puramente melodico, e a quel punto le cose cominciano a girare per il verso giusto. L'eccezione però di cui vi dicevo, Arise, dimostra che già allora Lif avesse in caldo qualcosa di più succulento: nella traccia in questione egli difatti concentra critica sociale, attacchi allo status quo e opposizione al capitalismo e alle sue manifestazioni più pratiche (senza parlare della denuncia delle conseguenze). Un'impostazione, la sua, che può anche non piacere a chi cerca fondamentalmente solo beat e rime, ma che innegabilmente aiuta in maniera determinante a conferire un'identità ben precisa a Lif e che infatti negli anni lo renderà un caso unico nel panorama della scena hip hop.
Ma in Enters The Colossus non è solo Haynes ad apparire in forma embrionale rispetto a ciò che saprà offrire negli anni successivi, bensì anche il suo sound: se già a partire da Emergency Rations questo virerà verso la futuribilità delle produzioni di El-P pur conservando un certo rigore classico, per quest'occasione esso si mantiene su binari più ortodossi. Intendiamoci: non sto parlando di un Pete Rock o un Premier, semplicemente è difficile non notare una maggiore regolarità nelle batterie ed un uso più tradizionale dei campioni da parte dei vari beatmaker, tra cui Lif stesso. Fakts One infatti crea due beat tra di loro molto diversi -Cro-Magnon e Avengers- mantenendo un'impostazione ortodossa che vede nel funk l'ispirazione primaria. El-P stesso si presenta in una modalità molto più vicina agli esordi dei Company Flow che non già a quella che avrebbe mostrato per i Can Ox o, ancora più estremo, nel suo esordio solista; e visto che pure Lif segue questa linea, alla fin fine è (paradossalmente?) Insight a produrre il beat più verdonianamente "sstrano" dell'intero EP: effetti sonori che paiono usciti da un film di fantascienza contraddistinguono la sua Pulse Cannon, e per quanto non si può dire che sia uno dei suoi capolavori alla fin fine risulta senz'altro la produzione più bizzarra delle otto che incontreremo nella mezz'ora di durata del disco.
Ora, dovendo sintetizzare la mia opinione in poche righe, devo dire che sono indeciso: da un lato questo EP mostra la sua età specialmente per via di un certo tipo di rap, e se ripenso a quando lo ascoltai per la prima volta non posso far finta di essermi esaltato. Dall'altro, però, oltre ad un paio di cose davvero degne (Arise e Avengers, principalmente) alla fin fine si lascia ascoltare senza nessun tipo di problema. Che fare? Opto per un tre molto benigno, aggiungendo che oggettivamente esso è l'anello più debole della produzione di Lif, e che perciò è una di quelle opere che consiglio solo a chi è già suo fan. Non mi pento di averlo acquistato, certo, ma diciamo che se lo sentissi oggi, a freddo, non ne resterei particolarmente impressionato.





Mr. Lif - Enters The Colossus

venerdì 8 maggio 2009

MURS - 3:16 THE 9TH EDITION (Def Jux, 2004)

Come i più attenti lettori tra voi sapranno, io nutro un certo astio nei confronti di Patrick Douthit, meglio noto come 9th Wonder. Più precisamente, ciò che detesto è l'aura di genio e di salvatore del beatmaking che gli è stata conferita da gente che in buona parte ha nostalgia di cose non vissute; perchè solo uno che non ha mezza idea della musica che si ascoltava nei primi anni '90 può sostenere che 9th la sappia in un qualche modo riproporre. Ma questo sarebbe il meno: il più, invece, è che di produttori noiosi, ripetitivi, manieristi come lui ne conosco davvero pochi e, ancora peggio, la stragrande maggioranza delle sue basi suona da schifo. Insomma, mettiamo insieme l'opinione che ho di lui e la stima di cui gode e chiaramente si verificherà una sorta di big bang in cui a soffrire di più saranno i miei testicoli, i quali puntualmente s'annodano ogni qual volta che sento un ciuccio magnificare le doti di Patrizio. E, oh, dimenticavo: già che ci sono vorrei ricordare -per dovere di cronaca- che i primi due album dei Little Brother sono un colpo di menhir sullo scroto.
Ma diamo a Cesare quel che è di Cesare: vuoi anche solo per questioni di pura statistica e di legge dei grandi numeri, in questi anni il Nostro ha saputo anche creare beat potenzialmente belli (dico potenzialmente perchè le batterie fanno sempre un moscio *PIF*, non si scappa). Così, a memoria, mi vengono in mente il remix di Love Is Gone di Jaz-O, quello di Make A Move dei Hieroglyphics, Good Ole Love di Masta Ace, Special dei Strange Fruit Project più qualche roba per Sean Price e sicuramente altro ancora... nulla per cui valga la pena di strapparsi i capelli, magari, ma sono convinto che persino io riuscirei a mettere insieme un CD farcito di musica da lui curata più che valida e certamente anche varia.
E in esso inserirei senz'altro qualcosa di questo 3:16, che non solo include diverse belle basi ma soprattutto vede 9th confrontarsi con il suo più grande nemico, la monotonia, ed uscirne trionfatore. Perchè non è solo la brevità dell'opera a farla scorrere liscia e piacevole, ma anche la brillante intuizione del beatmaker di spingersi oltre la creatività data dalla formula in cui si usa un sample vocale tagliato a metà per tre misure e lasciato scorrere in quarta, per poi dargli infine maggior spazio nel ritornello. Senza poi contare il fatto che stavolta non attinge solo al soul della Motown e della Stax ma si spinge oltre, andando a pescare ad esempio nel reggae roots, nel funk e nel blues. Sorprendente, vero?
E non è tutto: Murs, che fino ad allora non conoscevo più di tanto se non per qualche apparizione tra le robe dei Living Legends ed un esordio solista francamente bruttino, approfitta di questa cambio di sonorità per affrontare molteplici tematiche tra le quali i rapporti razziali nel rap, le sue passate liasons col gentil sesso, una sana dose d'introspezione, del buon vecchio storytelling ed infine del sano egotrippin': davvero niente male per sole nove tracce, specialmente se si considera che ad essere buone non sono solo le idee ma anche la loro realizzazione. Difatti, Murs è un MC che di primo acchito non colpisce particolarmente ed in effetti non presenta delle qualità eccezionali, ma basta dargli un paio di ascolti per rendersi conto che a fronte di un flow ed una voce non particolarmente carismatici si nasconde un eccellente storyteller ed un ottimo scrittore, capace di rendere coinvolgente persino un argomento abusato quale può essere il rapporto con la figa. E se ci riesce non è solo perchè sa mettere bene insieme delle parole, ma anche perchè in più occasioni lo troviamo molto critico con sè stesso e dunque persino l'eventuale autoesaltazione viene presa sul serio: si pensa insomma che Bad Man non sia solamente una serie di cazzatielle ma un completamento di una personalità che ben si scorge in Freak These Tales. E questo solo per fare un esempio.
L'introspettiva The Rain completa poi il quadro della persona -non personaggio- Murs, che comunque riaffiora anche in altre tracce ma senza per questo danneggiare l'album con troppo egotismo. Del resto lui stesso dichiara che "I'm tryin' to walk that thin line between intelligence and ignorance/ Have a little fun while making music of significance." E ad ascoltare Walk Like A Man c'è da credergli: perchè per quanto il tema affrontato non sia nuovo (una denuncia della viuuulenza e della promozione mediatica di questa), il modo in cui lo affronta è interessante; e non tanto perchè adoperi la forma del racconto, quanto perchè spezza quest'ultimo in tre fasi e da tre diverse prospettive dove per ciascuna c'è un beat diverso che contribuisce in maniera determinante a creare l'atmosfera descritta nelle liriche. Oppure, ancora, And This Is For: tolta la prima strofa, le restanti sono dedicate alla differenza tra il vivere l'hip hop per un nero e per un bianco e su come questi ultimi stanno/starebbero prendendo il sopravvento sul genere (parallelamente a ciò che avvenne per il rock ed il jazz ed il blues); una bella polemica, non c'è che dire, che sono sicuro farà discutere come lo ha già fatto in passato. Non do un'opinione sui suoi pensieri, se non che forse appare un po' frustrato e questo va lievemente a scapito di alcune osservazioni che -possa piacere o no- tutto sommato si avvicinano alla verità: vedi ad esempio la frase "Yeah, it's all one love, but remember one thing/ This music is my life, not a cultural fling" ("Fling" vuol dire più o meno "storiella di poco conto", di breve durata). Che dire? A ciascuno il suo, intanto di sicuro c'è che dà da pensare. Ma non voglio poi scendere oltre nei particolari: ascoltatelo e fatevi voi un'idea, sono convinto che il cosiddetto "food for thoughts" vi soddisferà anche perchè intervallato da momenti più leggeri ma non stupidi.
Bene: dopo l'emceeing veniamo a quello che dovrebbe essere il momento più critico, cioè i beat di 9th Wonder. Ho già accennato più sopra alla maturazione mostrata su quest'album (poi è regredito, ma glissiamo va') e credo che questa venga dimostrata fin dal momento in cui si sente Bad Man: non solo il campione proviene dal reggae, ma persino le batterie godono di una programmazione per lui inusuale e soprattutto non scade nel milionesimo riciclo del solito rullante. Più sul suo stile è invece 3:16 ma, a parte una buona scelta ed un bel taglio del campione, anche qui finalmente le batterie picchiano per benino (charleston a parte, ma è il meno). Sarà forse merito del mastering, curato da Ken Heitmueller, ma me la sento di fare i complimenti al Nono Miracolo: quando uno se li merita non puoi trovare scuse. Casomai sono poi The Rain e Freak These Tales a non convincere del tutto uno scetticone come il sottoscritto, ma di certo non si può dire che siano brutti beat; al limite che non sono invecchiati troppo bene, ecco, come del resto The Animal. Ma non è nulla di grave e vorrei che fosse ben chiaro che il lavoro svolto al campionatore in quest'occasione brucia in un attimo album ben più lodati come i due dei Little Brother e le sue raccolte; che poi non è che sia oggettivamente difficile (frecciata), ma diciamo che anche solo con Walk Like A Man uno guadagna una bella quantità di punti.
Insomma, giunti in chiusura non posso che ribadire il mio apprezzamento nei confronti delle fatiche di 9th Wonder, che con 3:16 mi ha convinto quantomeno del fatto che non sia uno mediocre. Ha delle potenzialità, insomma, anche se mi viene da dire "è intelligente ma non si applica". Tuttavia non posso scordarmi di Murs: se su questi beat ci avesse rappato, che so, Cesar Comanche o un altro delle seghine della Justus League (*cough*Kaze*cough*) avremmo tra le mani materiale da tre zainetti al massimo. Fortunatamente c'è qui un rapper forse non particolarmente carismatico né tecnicamente eccellente -voglio dire che sa fare il suo e bòn- ma che indubbiamente rientra tra i pochi a saper coniugare una visione da "uomo qualunque" (o vita di tutti i giorni, vedete voi) ed una creatività ben adoperata, la quale scende in campo proprio nel momento in cui l'argomento trattato è in sè magari abbastanza trito. Ben fatto, insomma, non c'è un cazzo da dire.




Murs - 3:16 The 9th Edition
Bonus: 3:16 Original Samples (via KevinNotthingham.com)

VIDEO: BAD MAN!

martedì 21 aprile 2009

THE PERCEPTIONISTS - BLACK DIALOGUE (Def Jux, 2005)

Come sanno tutti coloro che hanno alle spalle un lungo periodo di attento ascolto di uno specifico genere musicale, può succedere che in certi momenti si passi attraverso un periodo di stanca in cui si è quasi tentati di mandare affanculo la propria passione con tutti gli annessi ed i connessi. Io ne so qualcosa: nel '99 ebbi la mia prima "crisi", seguita da un'altra più forte nel 2001-2002 ed infine dall'ultima che sto attraversando proprio ora (no, seriamente, che anno di merda si sta dimostrando questo 2009? Scandaloso!). In questi momenti si possono fare due cose: seguire il proprio istinto e darsi all'elettronica oppure, se si è appena un po' più scafati, tirare i remi in barca ed aspettare che la tempesta passi.
Ovviamente è proprio questo ciò che io sto facendo, dedicando il mio (poco) tempo in parte ad altri generi musicali ed in parte ad album che da tempo non ascolto più, come ad esempio Equinox. Ma poi ci sono anche i sempreverdi, che passano dai classici vecchi di vent'anni ai buoni dischi decisamente più giovani, ed è questo il caso di Black Dialogue. Black Dialogue che al momento dell'uscita io attendevo con ansia in quanto grande sostenitore sia di Lif che di Akrobatik, e che invece di primo acchito mi lasciò mesto e moscio come una merdina postalcolica: i beat mi facevano orrore, loro due mi parevano identici o più fiacchi che sui rispettivi album e nell'insieme mi sembrava che mancasse una visione d'insieme. In altre parole, stavo facendo il Torquemada della situazione, come del resto spesso avviene con quei pochi prodotti che davvero m'interessano e che attendo con una certa ansia.
Ora, francamente non è che avessi del tutto torto: trattasi infatti di una raccolta di canzoni aventi sì alcuni temi più volte in esse ricorrenti ma nulla di più, e per giunta Ak e Lif si complementano bene -si sapeva- ma purtroppo il risultato finale è inferiore alla somma delle parti (cosa che si nota soprattutto nella profondità argomentativa, come spiegherò meglio più avanti). Last but not least, ci sono certe canzoni che passano dalla pigrizia alla pura ignominia, e francamente ciò non era mai avvenuto in nessuna produzione dei due bostoniani. Malgrado tutto ciò, però, diverse tracce sono decisamente meglio di quanto ne pensassi in primo luogo e, soprattutto, fatta una debita scrematura si può ottenere un EP di 8-9 pezzi (su dodici complessivi) che scorre liscio liscio risultando tutt'altro che sgradevole all'ascolto anche se di certo non geniale.
Entrando ora più nel dettaglio delle affermazioni di cui sopra, andiamo a vedere come si complementano i nostri due eroi cominciando col farne un breve riassuntino. Sia Ak che Lif si richiamano per tecnica ai classici dell'hip hop, ma dove il secondo favorisce una metrica più serrata, il secondo invece lavora più di enfasi; ciò si deve alla sua forte presenza vocale, decisamente enfatica, che invece nella controparte è assai più nasale e -se vogliamo- piatta. Ebbene, viste queste loro caratteristiche si è portati a pensare che l'accoppiata possa suonare bene, cosa che infatti puntualmente avviene. Dove invece ci si scontra è nell'affrontare tematiche sulle quali i rispettivi punti di vista risultano presentare molti punti in comune (almeno in linea torica) : perché pur essendo entrambi orientati a sinistra come pensiero di massima, Akro rientra più nella sfera del cosid. self-empowerment e del risveglio dell'orgoglio nero, mentre Lif è decisamente orientato ad una lettura strettamente politica delle cose e, pur presentando anch'egli tracce degli insegnamenti dei leader del movimento per i diritti civili degli anni '60, diciamo che è molto più vicino a Malcolm X del suo collega. E questa apparentemente superficiale diversità di approccio si traduce spesso in una dissonanza abbastanza pesante, perchè nessuno dei due ha sufficente minutaggio per presentare la propria visione del mondo: vedi ad esempio Memorial Day o What Have We Got To Lose. Quando invece ci si allontana dall'aspetto politico per virare su argomenti meno impegnativi, come ad esempio in Love Letters, si ha talvolta l'impressione che ciascuno si stia facendo i beati cazzi suoi nella canzone e che quindi questa potrebbe essere tranquillamente un collage di pezzi individuali aventi più o meno lo stesso argomento in comune.
Last but not least, veniamo ora alle ignominie di cui al secondo paragrafo: Party Hard e Career Finders. La prima è un abbbominevole tentativo di creare un pezzo da club, peccato che a) peschi nel sound di cinque anni prima, peraltro orrendo di suo; b) non c'entri nulla col resto del disco e c) faccia stracacare PERCHE' SI'. Davvero non so cosa si fosse fumato Camu Tao (e i due) per dire "hey, figata 'sto beat, dovete troppo utilizzarlo", perchè se l'intento era quello di creare un'atmosfera festaiola -cosa che fatta in guisa sì triste puzza tantissimo di Max Pezzali, aggiungo- ha fallito miseramente, riuscendo al massimo a smuovere le viscere per una scarica di diarrea a shrapnel. Quanto a Career Finders, una domanda: d'accordo, i Digital Underground hanno fatto alcune cose carine... quando? Più di dieci anni prima? Ah, ecco; senza poi contare la previdibilità narcisistica del chiamare proprio quei due per un pezzo paracabarettistico, la quale si rivela esattamente speculare all'avere T-Pain in un ritornello. Ma oltre alla critica sui massimi sistemi, bisogna dire che il beat fatto di basso e giro di chitarra funkettone non risulta essere nemmeno all'altezza delle peggio cose dei Jurassic 5, inclusa quella loro bella operetta in cui c'era una canzone con Dave Matthews: grazie, Fakts One, grazie davvero. E glissiamo sulla facile ironia del testo che, come se non fosse abbastanza prevedibile di suo, riesce talvolta ad essere intervallata da accenni moralistici sui quali si può anche essere d'accordo ma che oggettivamente spengono persino quell'esile fiammella di umorismo che alcuni singoli versi potevano magari avere. Un disastro.
A dio piacendo, però, quando Ak e Lif marciano su sentieri a loro più congeniali i risultati cambiano da così a così (virate la mano sull'asse del polso mentre leggete, capirete come voglio dire questa frase). I pezzi in cui fanno gli MC duri e puri risultano oggettivamente convincenti perchè entrambi sono capaci di sostenere il loro egotrippin' con la loro indubbia bravura; ma soprattutto l'alternanza delle voci e delle metriche produce effetti capaci da soli di far passare basi non al top dell'inventiva come bombe: è questo il caso di Frame Rupture, ad esempio. Potenti ebbasta sono invece Blõ ed il suo basso capace di far venir giù i muri, People 4 Prez e soprattutto What Have We Got To Lose, che vede tal Cyrus The Great produrre un beat degno di collocarsi in Fantastic Damage di El-P (curiosamente il produttore di molti alti pezzi qui presenti ma non di questo).
Love Letters, con l'arpeggio di chitarra e le vocine sussurrate campionate, è invece forse un po' troppo leggera per i miei gusti ma ha una giusta coerenza con l'argomento, mentre Black Dialogue è ufficialmente la canzone migliore tra tutte e dodici: Fakts One cuce su una nota di piano ripetuta per un verso e mezzo e che si va a chiudere sulla battuta scendendo di diverse ottave, e che aiuta di molto le batterie a scandire il tempo, un bel loop rallentato di violoncelli su cui il duo ha un bel gioco nel dissertare sull'importanza e l'influenza avuta dalla cultura africana (e afroamericana) nel mondo. Stavolta è Akrobatik ad essere il più pertinente tra i due, ma anche Lif fa la sua porca figura e ci inserisce una discreta critica a quelli che evidentemente ritiene essere dei Sambo.
In chiusura d'album abbiamo due tracce dalle atmosfere etremamente rilassate e che idealmente chiudono la "giornata" dei Perceptionists: 5 O' Clock è un inno che chiunque abbia un lavoro saprà apprezzare (aka esco dall'ufficio e finalmente posso fare i miei interessi) in cui Phonte canticchia il ritornello, mentre Breathe In The Sun è un'ode al cazzeggio più puro che talvolta ci consente di concentrarci su quelle quattro cose della vita che per noi sono realmente importanti.
Bene: anche se Black Dialogue riesce a chiudere l'ascolto con un'impressione di soddisfazione, s'è ampiamente visto come presenti dei difetti sui quali è impossibile sorvolare. Tanto per cominciare, Party Hard e Career Finders sono brutte, ma brutte come solo sa essere la voglia forzata di fare qualcosa di "diverso" e che sappia mostrare il proprio eclettismo (avete presente De Niro in Ti Presento I Miei? Ecco). Poi ci ono un paio di pezzi non esattamente memorabili ma passabili, ma soprattutto è inevitabile pensare al fatto che nel suo insieme Black Dialogue appaia un po' raffazzonato e strutturalmente zoppicante. La cosa non è un difetto particolarmente grave, sia chiaro, se non per chi stima le persone coinvolte nel progetto (incluso un Fakts One quasi sempre in ombra): ma a ben pensarci chi altro potrebbe essere interessato ai Perceptionists? E allora preferisco andarci giù pesante, anche se alla fin fine l'album si lascia ascoltare: tre, come a Bruno Sacchi.




The Perceptionists - Black Dialogue

lunedì 2 febbraio 2009

MR. LIF - I PHANTOM (Def Jux, 2002)

Voi penserete che l'assenza di pubblicazioni da giovedì sia frutto di un'elaborata strategia di marketing per lasciare in risalto l'Encores: ebbene, non è così. Il motivo, estremamente più prosaico, è uno solo: sto letteralmente in gaina con Fallout 3, al punto che sabato sera, pur avendo sul groppone un tot di Supertennent's, una volta tornato a casa mi sono piazzato davanti alla tivvù restandovi fino alle tre e qualcosa di notte. Potete dunque immaginare quanto tempo dedichi all'ascolto degli ultimi dischi da me comprati; purtroppo, sono questi che tendenzialmente preferisco recensire, in quanto dei più vecchi o è già stato detto tutto (e mi annoio a fare la recensione-riassunto) oppure erano e restano delle ciofeche immonde (venerdì mi son portato dietro Lord Tariq e Peter Gunz ma non ho avuto nemmeno il coraggio di inserirlo nel lettore).
E allora perchè Mr. Lif, che rientra a pieno titolo nella categoria dei "reviewer's favorites" al punto tale che dispone financo di un riferimento su Metacritic? Beh, perchè I Phantom è un concept album, e a me i concept album fanno 'mpazzì a prescindere. Oltretutto, al contrario di altri generi, il rap è piuttosto lacunoso per quanto riguarda questa struttura narrativa: se si tolgono Prince Among Thieves di Prince Paul, il sublime Fall Of Iblys di MF Grimm ed il solista di Sticky Fingaz non mi risulta che negli ultimi dieci anni sia uscito molto altro materiale di questo genere. Eppure, devo dire, pressoché tutti gli exploit del genere mi hanno sempre soddisfatto; un po' perchè è l'idea stessa a piacermi incondizionatamente, ma soprattutto perchè per fortuna coloro che hanno giocato questa carta sono MC/scrittori piuttosto talentuosi, e Mr. Lif rientra a pieno titolo in questa categoria.
Difatti, Jeffrey Haynes è, lo ripeto per i distratti, un MC che sa il fatto suo e che riesce a sfruttare pienamente una metrica in sè abbastanza ortodossa attraverso un uso esteso del vocabolario inglese e delle indubbie capacità di narratore. A ciò va ad aggiungersi un'evidente intelligenza applicata ad una forte coscienza sociale, il che poi va a tradursi in osservazioni pungenti, ironia e polemica di alto livello. Indi per cui, se da un lato non si può dire che egli sia dotato di "a hundred styles, cento stili" (per usare le immortali parole di Rae), è altrettanto certo che Lif sa sfruttare appieno la combinazione sussistente tra precisione metrica, abilità narrativa e ampio vocabolario.
Proprio per questa sintesi I Phantom risulta un concept album dotato di solide fondamenta, il che è essenziale per non scadere nell'autocompiacimento estetico che in altri casi pareva essere l'unica possibile conclusione del genere (qualsiasi riferimento all'Alan Parsons Project è naturalmente casuale). Arrivando al punto, il tema principale è fondamentalmente uno solo -e cioè l'alienazione dell'individuo indotta dal suo vivere in un sistema di stampo ultracapitalista e sostanzialmente decadente- ma nel corso dell'album tutte le sfaccettature del problema vengono affrontate seguendo le peripezie di un personaggio fittizio che attraversa tre fasi: onirica, reale, ed infine ipotetica/immaginaria. Questa successione è fedelmente rispecchiata dalla tracklist, che vede le prime tre tracce occuparsi del sogno, seguite poi da sette canzoni in cui si analizzano "sul campo" le difficoltà dell'individuo ad orientarsi nell'odierna società e, in chiusura, gli ultimi quattro pezzi dove via via ci si distacca dalla narrazione più strettamente biografica per giungere infine all'olocausto nucleare. Ovviamente non posso entrare nel dettaglio più di così, sicché ho scansito la parte del booklet in cui Lif fornisce una traccia per meglio seguire il suo racconto (la trovate QUI); il mio compito consiste ora solo nel verificare che tutto fluisca correttamente.
E allora, a voler essere onesti, qualche intoppo c'è: l'ambizione di ricreare in musica la struttura di Magnolia (nientemeno!) risulta purtroppo -e forse prevedibilmente- molto confusionaria ed in fondo inconcludente, così come The Now risulta eccessivamente lunga rispetto al peso narrativo della vicenda all'interno del contesto generale (è una sorta di ponte tra due momenti del racconto, stop). Analogamente, Iron Helix cerca di spostare definitivamente il peso narrativo dalla parte biografica a quella "ipotetica", ma in sè e per sè il modo in cui avviene è un po' pretestuoso; al posto di inscenare una sorta di incontro tra uomo puro e uomo corrotto che salta fuori dal nulla, così, BAM!, Lif avrebbe potuto tentare di collegare la storia del personaggio principale a ciò che seguirà. Forse sarebbe stato più prevedibile, certo, però la coerenza sarebbe stata maggiore ed inoltre il vero punto debole del disco (il passaggio tra realtà a immaginazione) verosimilmente non sarebbe esistito.
Ciò detto, presi singolarmente i pezzi hanno tutti un loro perchè ed anche quelli un po' più "forzati" (Iron Helix, ad esempio) girano che è un piacere. Live From The Plantation, Success, Return Of The B-Boy e Post Mortem sono i pezzi da 90 di I Phantom e ciò è dovuto in equa misura alla scrittura di Lif ed alle produzioni. Alle macchine si alternano principalmente El-P, Insight e Fakts One ma i loro contributi sono comunque piuttosto variegati; in tal senso, se alla coerenza della struttura narrativa non fa eco un'altrettanto coerente tappeto sonoro, il vantaggio è che l'ascolto prosegue più elasticamente che non se si fosse optato per la creazione di una vera e propria colonna sonora. Certo, com'è prevedibile nell'album non si troverà traccia di produzioni radio-friendly, ma persino lo spiccato stile futurista di El-P viene influenzato da una maggior regolarità nei suoni e va così a creare un riuscito ibrido tra il suono Def Jux di quegli anni ed il boombap più classico. In tutta franchezza non trovo particolari cadute di stile sul versante dei beat, ad eccezione forse di Status, che però vuole essere una robetta a budget zero, per cui...
Concludendo, non posso certo dire che I Phantom sia un prodotto per tutti - e del resto è una fortuna che sia così. Di sicuro c'è che in termini puramente narrativi questo è il capolavoro di Lif nonchè una delle cose più interessanti degli ultimi anni; è un peccato solamente il fatto che da un lato vi sia qualche intoppo nella strutturazione del racconto, e dall'altro che i beat non riflettano sufficentemente bene quest'ultima. Ciò detto, però, I Phantom è un ascolto obbligato per chiunque sia alla ricerca di argomenti interessanti e cultura hip hop sic et simpliciter.




Mr. Lif - I Phantom

VIDEO: LIVE FROM THE PLANTATION

mercoledì 14 maggio 2008

MR. LIF - MO' MEGA (Def Jux, 2006)

Avete mai pensato agli artisti che consigliereste all'eventuale amico che vi dovesse chiedere un consiglio per andare oltre il rap più inflazionato? Per quanto mi riguarda, oltre a tutta una serie di classici, volendo prendere in esame il nuovo millennio tra le mie scelte figurerebbe senz'altro Jeffrey Haynes, al secolo Mr. Lif. I motivi sono, in estrema sintesi, i seguenti: è un MC di spiccato talento, facilmente riconoscibile sia per la voce che per la tecnica; è indubbiamente intelligente e questo si riflette nella scelta delle tematiche ma, soprattutto, nell'approccio ad esse; i suoi album sono generalmente brevi e musicalmente variegati, e dunque la possibilità di annoiarsi è pressoché inesistente. Punto.
Una volta stabilito questo, si tratterebbe però di scegliere quale dei suoi album suggerire: uno dei suoi due EP o I Phantom? La raccolta di rarità e b-side? Oppure, ancora, la sua "joint venture" con Akrobatik e Fakts One? In ogni caso la scelta sarebbe ardua, perchè ciascuna di queste opere ha una sua identità ben precisa o, più esattamente, una sfaccettatura del lato artistico di Lif più marcata di altre. Forse paradossalmente, alla fine mi ritroverei a pensare a questo Mo' Mega, dato che è senz'ombra di dubbio il suo lavoro contenutisticamente più completo ed acusticamente più comprensivo (nel senso che riunisce tutta una serie di varietà di suoni e atmosfere), oltreché il più bilanciato e dunque -ma su questo mi potrei scannare per giorni con gli altri tre o quattro fan italiani di Lif- il migliore che abbia prodotto finora.
Critica sociale, politica ed economica, ironia, emceeing puro e -finalmente- aspetti personali sono tutti efficacemente riassunti nei 40 minuti di durata di Mo' Mega: si passa gradualmente da Brothaz a Washitup e si chiude l'ascolto con For You senza avere l'impressione di trovarsi di fronte ad uno schizofrenico, ed è esattamente questo che rende così soddisfacente questo disco. Personalmente apprezzo poi che i sopracitati aspetti del carattere di Lif siano sostanzialmente focalizzati traccia per traccia anzichè mescolati alla rinfusa, perchè a tal modo l'esposizione si fa chiara, ed individuare l'oggetto della discussione per poterlo meglio comprendere diventa "facile" o, meglio, "logico". Il Nostro sa esattamente cosa vuol dire e come lo vuol dire, il che appare evidente nel singolo Brothaz così come in Murs Iz My Manager o Looking In; non si perde in peregrinazioni mentali e va subito al dunque, permettendo all'ascoltatore di seguirlo sia che contesti la classe politica americana, sia che faccia satira sui meccanismi dell'industria discografica, sia che tramite un ottimo storytelling evidenzi le difficoltà di crescere senza un padre e di come questo, all'interno di un contesto ostile come il tipico ghetto americano, possa facilmente portare a comportamenti criminali e dunque ad un futuro tutt'altro che roseo. Non volendo spoilerare troppo, mi fermo qui con la mia lista della spesa; e quanto all'aspetto più puramente "tecnico", su Lif non ho molto da dire fuorché che è un eccellente MC e che riesce a lavorare su stile e contenuti con pari efficacia, cosa che poi rende effettivamente degno di ripetuti ascolto Mo' Mega.
Ma tutto questo non sarebbe godibile se non ci fossero solide basi musicali (apprezzate il doppio senso) sulle quali appoggiare lo spessore di Lif, e queste ci vengono fornite in maggior parte da El-P. El-P che, proseguendo un cammino di relativa "semplificazione" del suo suono, si riaggancia idealmente a quanto prodotto per Hell's Winter l'anno precedente. Si passa quindi da forti accenni al boombap più classico (Collapse, traccia d'apertura analoga per struttura a Good Morning di Cage) ai suoni più futuristici di Ultra Mega, senza naturalmente scordare citazioni più funk (Brothaz) e omaggi più o meno espliciti alla Bomb Squad (The Fries ma soprattutto Mo' Mega). Oltre a El-P troviamo però anche Mr. Lif (due pezzi) e lo sconosciuto Nick Toth (una canzone), che aggiungono del loro ulteriore varietà all'insieme senza ovviamente scostarsi di troppo dall'atmosfera generale. Ma mentre sul versante lirico il disco è inattaccabile, la controparte musicale lascia aperti dei dubbi. Innanzitutto, alcune cose sanno di già sentito: non solo Collapse, ma anche Murs Iz My Manager, decisamente simile alla Career Finders presente in Black Dialogue, puzzicchiano un po' di pigrizia per quanto in fin dei conti siano tutto fuorché brutte o scontate. Aggiungiamoci una produzione francamente brutta e basta -cioè Washitup- ed un altro paio francamente senza arte né parte (Long Distance, The Fries), e vediamo che le cose per Mo' Mega si complicano un po'.
Fortunatamente, queste pecche non compromettono più di tanto l'opera nel suo insieme; si limitano, cioè, a non farle raggiungere la perfezione e ad abbassare di un ulteriore mezzo zainetto il voto finale. Tuttavia, il lavoro è complessivamente solido e appagante e vale ben l'esborso di una ventina di euro, vuoi anche per via del bel packaging e dell'ottimo lavoro grafico svolto dalla Company Standard. A tal proposito, aggiungo che per apprezzare davvero Mo' Mega è essenziale capire i testi: bene, Lif ha saggiamente deciso di includerne le trascrizioni, e perciò direi che a questo punto non ci sono scuse per dribblare un acquisto non strettamente essenziale ma certamente degno.





Mr. Lif - Mo' Mega

VIDEO: BROTHAZ

venerdì 9 maggio 2008

CAGE - HELL'S WINTER (Def Jux, 2005)

[N.B.: il testo che segue è stato copiaincollato tale e quale da una recensione da me scritta nell'immediato periodo successivo all'uscita del disco. Eventuali aggiunte a pie' di pagina/post]

"Cage. Agent Orange. Eastern Conference. Smut Peddlers. Album solista così così. Collaborazione mediocre uno. Collaborazione mediocre due. Hey, essere psicopatici fa vendere".
Per chi in questi ultimi cinque anni ha imparato a disprezzare il Cage che era diventato a botte di testi “malati” (termine osceno, paragonabile solo a “pazzo”)- ovverosia sostanzialmente una macchietta dell’Alex di Agent Orange- la descrizione di cui sopra è sintetica e azzeccata quanto basta. Ecco, forse le manca il termine “noioso” per essere lapidaria. Per farla breve, insomma, non nascondo il fatto che quando mi sono trovato questo album tra le mani, con uno sguardo un po’ schifato mi sono detto “sarà la solita pacconata buona giusto per sedicenni fissati con lo splatter e poco altro”. Pregiudizi enormi mi controllavano.
Tuttavia, leggendo i nomi degli ospiti presenti sul disco (su tutti Jello Biafra e Daryl Palumbo dei Glassjaw) ho subodorato un cambiamento in corso, confermatomi poi dalla dicitura “Def Jux”: insomma, a quanto pare, Cage è intenzionato a giocarsi la carta della longevità, per la quale il requisito fondamentale è il sapersi rinnovare. E nel caso di Cage non sarebbe bastato solo il suono o l’atmosfera, poco ma sicuro.
E difatti, stento ancor’adesso a credere alle mie orecchie, l’album che sto ascoltando rovescia in buona parte tutti gli stereotipi legati quella psicosi da supermercato che finora avevano contraddistinto Cage e le sue produzioni. Non solo: i suoni da un lato si sono relativamente ingentiliti, dall’altro si sono riavvicinati ad un suono più “classico”.
Né è la prova la prima traccia, Good Morning, nella quale El-P tira fuori due riff di chitarra e li incolla sopra il classico cassa-rullante (e basso parecchio spinto) tipico dei suoni newyorchesi della prima metà degli anni ’90. Cage di suo cavalca il beat in scioltezza, rendendo il pezzo un ottimo aperitivo per il tutto. Ma è solo a Too Heavy For Cherubs che si comincia a notare la svolta di Cage: è qui che l’ascoltatore può farsi una prima idea di come sia stata l’infanzia del Nostro, passata in buona parte in balìa di un padre alcolista, cristiano fondamentalista, ex marine e per giunta violento. Lo stereotipo del fanatico, insomma. Il tema viene poi ripreso e completato in Stripes, con la differenza che in quest’ultimo caso le strofe sono molto più cariche di risentimento che in Cherubs, dove invece l’approccio era più “leggero”, distaccato. Ma per quanto “distaccato” possa sembrare (in realtà, in Cherubs, la voce effettata stile ubriaco è abbastanza angosciante), in ambedue le canzoni si nota comunque come rabbia e frustrazioni non siano esagerate, prefabbricate o confezionate a tavolino (qualcuno ha detto Eminem?), ma come suonino semplicemente sincere.
Sostanzialmente, la stessa osservazione, riguardante una fondamentale onestà, si può adattare ad ogni canzone di Hell’s Winter che abbia in sé qualcosa di personale: senza voler fare psicologia spiccia, penso che un’esperienza, quale che sia, se non urlata ma esposta verosimilmente sia un segno inequivocabile di maturità, e ciò generalmente non fa che giovare all’ascolto ripetuto di un disco.
E le canzoni aventi in sé qualcosa di personale sono la maggioranza: dalle due sopracitate a Grand Ol’ Party Crash (con un’esilarante interpretazione di Bush a cura di Jello Biafra), passando per Peeranoia e Subtle Art Of Breakup Song, per giungere infine a Public Property e Scenester. Intendo sottolineare come comunque non si possa parlare di Emo-rap, visto e considerato che, oltre a non piangersi addosso, il bagaglio di esperienze dell’artista non si limita a questioni di cuore et similia; si spinge più in là, includendo ad esempio le disavventure discografiche ed arrivando a toccare persino l’autoironia.
Tecnicamente, invece, Cage non si è poi evoluto un granchè. Lo si nota per esempio in Lord Have Mercy (forse l’unica canzone rapportabile col suo vecchio repertorio), ma questa lacuna, se tale si può definire, viene riempita dall’ottimo lavoro fatto dai produttori. RJD2, per esempio, compone un bellissimo sottofondo per Shoot Frank, al quale Daryl Palumbo aggiunge un ritornello davvero calzante; El-P, dal suo, riabbraccia il buon vecchio boom bap e –spesso affiancato da altri, Camu Tao su tutti- crea almeno cinque ottimi pezzi (Good Morning, Hell’s Winter, Subtle Art…, The Death Of Chris Palko e Lord Have Mercy), fallendo solo nella posse cut Weathermen Gang. Persino DJ Shadow fa una comparsata in Grand Ol' Party Crash, ed il risultato, seppur non stellare, lascia soddisfatti.
Ora: non sono un grande fan del suono tipico della Def Jux, men che meno di quello che finora è stato Cage, ma devo dire che (forse proprio per questo) questo Hell’s Winter mi ha impressionato parecchio. In primo luogo per via del cambiamento di Cage, certamente, ma anche per la qualità dei beat e della maniera con la quale si sposano ai testi. L’album è una specie di tour nella testa di una persona la cui vita non è certo stata rose e fiori (andate a leggervi la biografia sul sito della Def Jux), ma che raccontata in questo modo (ovverosia senza autocompiangersi, mettendoci un pizzico di umorismo nero qua e là, e soprattutto scegliendo le parole giuste al momento giusto) risulta terribilmente interessante. Va da sé che qualche difetto qua e là lo si trova, ma nel complesso non risulta dannoso.
Un disco maturo (qualcuno sorriderà leggendo questa parola), quindi, ed apprezzabile non solo in un’ottica da reppuso ma, anzi, soprattutto, in una di musica tout court. Da avere.

[Sono passati circa tre anni dacché per la prima volta sentì Hell's Winter. In questo lasso di tempo -oltre ad aver imparato ad apprezzare di più quel che El-P ha da offrire, in parte proprio grazie a Cage- trovo che il disco sia invecchiato come il vino, tanto che mi sento in dovere di alzargli il voto di mezza tacca. Suoni e parole non sono caduti vittime del momento, come spesso avviene a chi fa gli "instant-discs" o i mixtape, ed anzi riescono a coinvolgere ancora adesso; la coesione ed al contempo la varietà di Hell's Winter risultano indiscutibili e, sommando questi fattori, sono assai propenso a sostenere che questa sia la migliore uscita della Def Jux dal 2005 ad oggi, e che nemmeno il tanto apprezzato quanto oggettivamente pesante come il piombo I'll Sleep When You're Dead possa rivaleggiare con quest'opera. Insomma, ribadisco: da avere a tutti i costi.]





Cage - Hell's Winter

VIDEO: SHOOT FRANK