martedì 30 giugno 2009

PRINCE PO - PRETTYBLACK (Nasty Habits/Traffic Ent., 2006)

"The idea concerns the fact that this country wants nostalgia. They want to go back as far as they can - even if it's only as far as last week. Not to face now or tomorrow, but to face backwards". Così scriveva Gil Scott-Heron riguardo all'elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca, ma ovviamente il discorso era più ampio. Non a caso, gli anni '80 (ed in minor misura i '90) vanno ricordati per essere stati il decennio in cui buona parte dei diritti civili acquisiti dalla fine degli anni '50 fino ai '70 sono stati metodicamente cancellati o aggirati per vie legislative, mentre al contempo le idee fondanti che avevano portato a quei cambiamenti venivano considerate semplicemente démodé con grande plauso delle cosiddette "maggioranze silenziose" (per quel che mi riguarda, da questo punto di vista la marcia dei 40.000 è stato uno dei momenti "unici" più bassi della storia recente italiana). Da un punto di vista politico e sociale è stato indubbiamente così, e difatti oggi ne stiamo pagando le conseguenze, ma da quello musicale no. O comunque non in maniera così totalitaria e asfissiante.
Sappiamo tutti infatti che mentre le classifiche di Billboard ed epigoni internazionali straripavano delle varie Belinda Carlisle o Huey Lewis & The News, che a dispetto delle vendite milionarie oggi vivaddio non s'incula più nessuno (salvo gli ex yuppie col Silver Wing, ma sono casi irrecuperabili), negli Stati Uniti maturava un genere che a nonostante i mille ostracismi di tipi culturale e discografico negli anni successivi si sarebbe imposto come la musica di riferimento. Comprensibilmente, ciò diede (e da) sui nervi a tutti coloro che invece il genere non lo apprezzano e che (altrettanto comprensibilmente) non ne poterono più sapere dei vari Fiddy e compagnia bella; paradossalmente, anche i tanto vituperati puristi non gradirono il vero e proprio boom che l'hip hop ebbe tra il 1999 ed il 2005, visto che esso portò ad un continuo "taglio" della merce fino al suo completo annacquamento. Ora, nel 2009, in piena stagnazione artistica e commerciale, molti si grattano la testa indecisi sul da farsi e ad eccezione di pochi movimenti che in questi ultimi anni hanno saputo dare un colpo di reni (mi viene in mente la Stones Throw e, più di recente, Detroit tutta), molti di noi aficionados sono rassegnati a cercare la qualità nelle vecchie glorie.
Sia ben chiaro che m'includo tra queste persone: negli ultimi anni spendo quasi più soldi per dischi pubblicati dieci o vent'anni or sono che non per quelli contemporanei. Tuttavia, di tanto in tanto non disdegno vedere cosa succede "alla giornata", e quando una delle sopracitate "vecchie glorie" decide di pubblicare un disco nuovo tendo a dargli perlomeno una chance. Per Prince Po questa è addirittura la seconda, che viene dopo il suo ritorno alla ribalta con il solista The Slickness del 2004. Non spenderò parole in merito perchè magari lo redensirò nel prossimo futuro, ma mi limiterò a dire che non mi aveva convinto più che tanto, sicché quando mi sono trovato Prettyblack tra le mani il mio approccio è stato estremamente prudente. Ebbene, dopo qualche anno posso dire che, per quanto di poco superiore al precedente album, Prettyblack riesce a risultare solamente discreto e con un andamento che definire altalenante sarebbe poco. Difatti, il disco si alza in volo con i primi pezzi, traballa nella sua parte di mezzo e si conlude dignitosamente con due bei pezzi. Questo riguarda sia i beat che Prince Po stesso, il quale non manca di manifestare diversità qualitative nella scrittura: così come può apparire ispirato in The City Sleeps, così sembra col pilota automatico attivato in Right 2 Know oppure platealmente fiacco in Breaknight, col risultato che alla fin fine l'unica cosa che puoi fare con Prettyblack è definirlo un disco "carino" (il che è in realtà terribile).
Partiamo però dalle cose buone: contrariamente a Slickness, qui Po è concettualmente più focalizzato: grossomodo vive tra amarcord personali e meditazioni reminescenti dell'afrocentrismo vecchia maniera mesolato a considerazioni più attuali. Questa combinazione funziona egregiamente sia perchè egli non sembra essere un cretino (anche se manca della lucidità analitica di un Mr. Lif), sia perchè ovviamente egli gode di una credibilità dovuta non solo ai propri trascorsi bensì anche alle sue attuali capacità. Tracce come Mecheti [sic] Lightspeed, U Right Hear, The City Sleeps o la title track non fanno altro che confermare la bontà della sua penna, la quale, una volta accostata ad uno stile ed una tecnica indubbiamente encomiabili, riesce a vincere & convincere. Degna di lode è anche la capacità acquisita di variare flow e giocare con la dizione a seconda che si tratti di un pezzo dal tiro veloce o uno più calmo; un'abilità, questa, che contribuisce a far salire il coefficiente di varietà che così si apre a ventaglio andando dal convincente throwback di Prettyblack alla contemporaneità di Mecheti Lightspeed, passando naturalmente per quelle strane canzoni "senza tempo" come The City Sleeps. Purtroppo, però, sovente egli cade nei cliché più beceri di questa terra: e da questo punto di vista mi dà quasi più fastidio il jovanottismo -ascoltare per credere- di una Right 2 Know che non la crassa povertà di idee stante dietro a Holla. Non voglio infatti mettere in dubbio la buona fede ma l'impegno: se uno decide di scrivere di argomenti potenzialmente profondi che lo faccia con la dovuta perizia, ed eviti invece di scadere in banalità e rotorica degne tutt'al più di un demo della gruppo ska del Berchet.
E anche i produttori: pur essendo gli eventuali difetti meno palpabili ciò non significa che essi non vi siano. Difatti, salvo rare eccezioni, la norma vuole che sia difficile trovare basi che ti facciano esclamare stupito "minchia, ma che è 'sta shhhchifezzah!?!". Almeno nei casi di dischi presentabili, il che esclude ovviamente i vari Shawty Lo e compagnia bella. Ma sto divagando; il fatto è che buona parte dei beat non riesce ad andare oltre al tanto temuto "carino", saltuariamente scadendo peraltro nell'altrettanto ingiurioso "banale". Right 2 Know, per dire, sembra più un inno che un vero e proprio beat; e non me ne abbia Large Pro, ma alla lunga diventa pure monotono. Analogamente, una Holla o una Family possono anche non far venir voglia di skippare ma di certo nemmeno possono spingere chi già conosce bene il rap (ovverosia il target effettivo di Prince Po) a premere il tasto rewind. Stando così le cose, dunque, alla fine della favola mi viene da menzionare positivamente ben poca roba: Mecheti Lightspeed è la prima, grazie ad un Madlib che mescola con gusto un loop ipnotico di violino ed un breve sample vocale, ambedue sorretti da alcune delle batterie e da una linea di basso più d'impatto che gli abbia sentito usare di recente. Ask Me, poi, ricicla il concetto di campione vocale usato come elemento attivo per la stesura del testo (cfr. Dreams di Game) ma, data l'atmosfera più futuristica dell'insieme, il risultato è senz'altro positivo (grazie anche ad una delle performance più impressionanti dell'intero disco da parte di Prince Po, va detto); così come anche il piglio rétro di Prettyblack funziona benissimo tanto che pare di essere tornati davvero al '92. Lodi finali vanno invece dedicate all'evocativa The City Sleeps, in cui grazie all'eccellente beat il messaggio dato dal didascalico titolo riuscirebbe a far breccia nell'immaginario del più prosaico degli ascoltatori senza nessun problema, e al tributo a J Dilla, U Right Hear, dove Prince Po omaggia il leggendario beatmaker di Detroit con un beat che in qualche modo -set di batterie e campione- lo evoca alla lontana.
Ma, come detto, i momenti di luce sono pochi e neppure poi tanto abbaglianti. Sono, cioè, belle canzoni e non capolavori. Ne consegue che, per quanto non siano presenti grossi svarioni qualitativi, questo Prettyblack non può spingersi oltre la soglia dei tre zainetti. Dategli un ascolto anche solo per The City Sleeps o Ask me, quindi, ma non aspettatevi una rivelazione.





Prince Po - Prettyblack

lunedì 29 giugno 2009

MR. LIF - I HEARD IT TODAY (BloodBot Tactical Ent., 2009)

Se a distanza di un anno e mezzo ho recensito quasi tutti i lavori che vedono come protagonista o co-protagonista Mr. Lif, magari a scapito di opere oggettivamente più importanti (Nation Of Millions è lì che aspetta il suo turno), è perchè verso questo MC provo una sincera ammirazione che aumenta ad ogni sua nuova uscita. Pur non essendo dei classici nel senso più stretto del termine, i dischi da lui firmati hanno sempre tre costanti: 1) sono musicalmente interessanti, avanguardisti per certi versi ma sempre rispettosi delle origini; 2) presentano testi intelligenti scritti con lucidità ma senza rinunciare alla forma; 3) è musica che si fonda su realtà ed attualità anzichè crearla. Se spostassimo la sua discografia su carta stampata, direi che i suoi sono saggi che si stagliano su un panorama fatto di autobiografie, narrativa e instant-books.
Bene: dopo l'ottimo I Phantom ed un paio di validi EP, nel 2006 uscì Mo' Mega. Non ripeterò la mia positiva opinione su quell'album, mi limito a ricordare come in quell'occasione Lif si fosse in un certo qual modo distaccato dalle tematiche del predecessore. Con questo non voglio dire che si fosse messo a delirare su cocaina e droga, bensì che aveva alleggerito il carico strettamente sociopolitico per dedicarsi un pochino di più al suo ego ed alle sue emanazioni, scrivendo così la sua opera più accessibile. Ma se pensavate che avrebbe proseguito su questo sentiero anche per il suo terzo LP, beh, sbagliavate di grosso: I Heard It Today si propone infatti come il seguito ideale di I Phantom, sia come approccio tematico che come sound. La rabbia che Lif nutre nei confronti del capitalismo americano trova qui ampio spazio e va ad abbracciare tutte le distorsioni che questo provoca nella società, specialmente nei strati più bassi. È a suo modo confortante trovare conferma che persino in una realtà come l'hip hop, in cui a dispetto della sua varietà coloro che vivono con la testa infilata nel proprio culo rappresentano una maggioranza schiacciante, resti qualche testa pensante. È però meno confortante giungere al termine di I Heard It Today e rendersi conto che in appena quaranta minuti di musica si possano trovare più argomenti di riflessione e discussione seria che non nella produzione discografica reppusa dell'ultimo anno e mezzo; e questo senza contare poi la qualità con cui questi temi vengono esposti. Ma parlando di Lif, ciò è quasi scontato. È invece inusuale la genesi del disco, la quale va necessariamente illustrata in modo tale da poter meglio comprendere la struttura di IHIT.
I Heard It Today è stato composto a partire dallo scorso autunno, in buona parte come se fosse un blog o una raccolta di editoriali: quando un dato evento aveva luogo, Lif scriveva una canzone ad esso correlata. Quattro (se non sbaglio) di queste canzoni sono poi state pubblicate per le consuete vie digitali praticamente in tempo reale -e le ritroviamo qui- mentre le restanti sette sono state concepite in maniera più tradizionale; la pubblicazione via web si è interrotta poco dopo la vittoria di Obama ed il disco sostanzialmente parte da questo avvenimento con le parole "I see, so we're all supposed to start trusting the government again 'cause we got a friendlier face to it, huh?". Ecco: già con una sola frase Lif dimostra di essere radicalmente diverso dalla stragrande maggioranza dei suoi coleghi; contrariamente ad essi egli è sì contento che Obama abbia vinto le presidenziali, ma di certo non s'illude che egli possa essere l'uomo della previdenza in cui otto anni di Bush, ed una stampa cronicamente incapace di criticare l'uomo del momento, ci hanno obbligato a credere.
La crisi del real estate; la crisi dell'economia; i persistenti abusi delle forze di polizia; l'imposizione delle famigerate "norme non scitte"; la mancanza di sbocchi per la maggioranza degli abitanti dei ghetti; la cosciente promozione di individualismo ed apatia da parte delle istituzioni: questi sono gli argomenti che Jeffrey Haynes sminuzza senza giri di parole in quella che si può vedere negativamente, e dunque considerarla una geremiade, che positivamente e trattarla come spunto di riflessione. Non ha senso che vi parli nel dettaglio di ogni pezzo, per cui preferisco limitarmi ad estrapolare parte di una strofa di quello che è a mio modesto avviso la canzone migliore del disco, la splendida Head High: "So foul watching Jeremiah spit fire/ Knowing it reflects on Obama, more drama/ That petty black shit, televised and enacted/ the perfect trap to turn the "Change" campaign backward/ It hurts that even our most prestigious leaders cannot shun what those centuries of hatred have done/ That old crabs in a barrel makes our chances none or narrow/ To have our race perceived with the graces of a pharaoh".
Ecco, quando senti un testo simile su un beat che sa avvolgerti con un ipnotico campione vocale come quello scelto dal produttore P Locke, non ce n'è: ti viene da gridare al miracolo. Addirittura ti ruga tornare coi piedi per terra per parlare in modo secco e asciutto dei beat, ma insomma, me tocca e perciò ecco qua i nomi: Edan, J-Zone, Willie Evans Jr. e a seguire una lista di sconosciuti o quasi quali Batsauce (davvero, si chiama così), il sopracitato P Locke e Headnodic. Questi vanno a creare un suono che, come scrivevo nel primo paragrafo, sfugge alla banalità ma non si discosta eccessivamente dalle origini. I tempi piuttosto alti, le atmosfere che molto devono alla Bomb Squad e la quasi inesistente concessione all'orecchiabilità mi spingerebbero a considerare I Heard It Today come un prodotto della Def Jux, ma siccome in molti casi sembra che vi siano una o più citazioni di un certo stile più vintage (ad esempio i charleston molto "secchi" di What About Us, il piglio da Jazzmatazz prima serie di Breathe e via dicendo) trovo che vi sia certamente un nesso tra IHIT e le precedenti opere di Lif ma non così forte da farlo sembrare una sorta di "bastardo" di El-P.
Sfortunatamente, come dire, nemmeno stavolta possiamo dire di avere di fronte un classico. Forse è nella natura stessa di dischi così cerebrali il loro non poter aspirare a qualità che si spingono oltre l'esecuzione perfetta, così come difficilmente un saggio -per valido che possa essere- può essere confrontato ad un'opera di narrativa. Tuttavia, ciò non vietà al suddetto saggio di risultare rilevante, e difatti questo album lo è. Lo è non per la diffusione, che sarà scarsissima e, temo, incapace di creare nuovi accoliti, bensì perchè penso che chiunque con un minimo di cervello non sia disgustato dall'idea di trovare stimoli nella musica. E se ci aggiungiamo una curiosa accessibilità dei beat anche ad orecchie non aduse al rap, beh, chissà che I Heard It Today non riesca a figurare tra le poche cose degne di ricordarsi di questo 2009. Intanto resta un altro mattone che va ad aggiungersi alla solidissima discografia di Lif e alla mia collezione di dischi.





Mr. Lif - I Heard It Today

BREVE SUL CONCERTO DEGLI EPMD

E pensare che a causa della mia memoria farraginosa stavo per non andarvi: mi sarei perso uno show veramente ben fatto dove Erick & Parrish hanno concretamente alzato il dito medio a chi li voleva imbolsiti, demotivati e, in breve, scoppiati. Pur essendo giunto a concerto già iniziato, la loro esibizione ha superato abbondantemente l'ora e un quarto "standard" e, vivaddio, più che proporre la tracklist dell'ultimo album (che comunque a me è piaciuto), a fare la parte del leone sono stati i classici. Please Listen To My Demo, Rampage, Headbanger, You Gots 2 Chill, Hardcore, Da Joint e via dicendo. Loro presi bene, con fiato e non sfondati di alcol e droga, col diggèi a svolgere un ruolo più attivo che non il solito avvilente juke box. 15€ erano una cifra irrisoria sulla quale nemmeno un rabbino genovese con sangue scozzese potrebbe sindacare.
Note negative: la solita incomprensione dell'inglese da parte del pubblico italiano (Sermon: "All the fly ladies say 'ho'", segue un tuono baritonale da guerrieri barbari e lui deve aggiungere "I said the girls..."); l'ormai consolidato beef tra il bibbòi italico ed il sapone con relativo parterre di ascelle piccanti; poca gente rispetto a quanto fosse lecito aspettarsi; un audio scandaloso, in assoluto, e doppiamente scandaloso se si pensa che s'era ai Magazzini e non al Bulk.
In breve: veterani ultraquarantenni > gli ultimi sei concerti reps da me visti.

venerdì 26 giugno 2009

TREE CITY & BLACK MILK - BLACK TREES (Free Download, 2008)

Visto che oggi sono in vena (e in ufficio non ho un cazzo da fare), prima di lasciarvi al weekend vi propongo un altro prodotto che vede coinvolto Black Milk e che probabilmente potrebbe esservi sfuggito. Anzi, molto probabilmente sono mesi che vi sfugge; ma non è grave, del resto è anche così che giustifico la mia esistenza. Cominciamo comunque con un lavoro di fantasia.
Dunque: se avete un'idea di massima dei rapper di Detroit avrete ben presente che grossomodo vi sono tracce di stile comuni a tutti loro, sia nella metrica che nelle tecniche d'esposizione (giocano parecchio con la voce e con i tempi d'entrata). Questa ovviamente si associa molto bene con il genere di produzioni su cui si trovano a rappare sopra ed è raro che mi venga in mente di chieder loro di più; tuttavia, ogni tanto mi sono chiesto come potrebbe suonare una rappata più classicamente nuoiorchese su un beat di -dico un nome a caso- Black Milk. Bene, ecco a voi i Tree City. Originari di Ann Harbor, che suppongo essere un buco di culo di paese del Michigan, il quartetto prende il loro nome dal soprannome della città; quando l'anno scorso Black Milk pubblicò gratuitamente il suo Music From The Color Purple, una collezione di beat basati su campioni tratti da Purple Rain e disponibile per il download gratuito, i quattro simpatici guasconi decisero di farne buon uso rappandoci sopra. E se l'idea non fu di certo originale, a rendere speciale il progetto fu l'approvazione di Black Milk stesso, che poté sentire il risultato e li sponsorizzò dando loro -come dicono oltreoceano- il tanto agognato co-sign.
Ora, devo ammettere di non essere mai stato un grande fan di Prince. Come tutti, conoscerò sì e no i suoi venti pezzi più famosi e bòn, ma per fortuna questo tipo di nozionistica non è qui richiesta: Milk infatti ha provveduto ad apporre circa tre-cinque secondi del pezzo originale in appendice ad ogni beat, cosicché non solo risulti più semplice l'identificazione del campione (cosa rischiosa da fare con Prince, oltretutto) ma soprattutto che sia possibile riconoscere il lavoro svolto con esso. E sebbene non me la senta di dire che tutte le basi raggiungano vette qualitative inarrivabili, almeno metà di esse hanno più che sufficiente forza per poter essere messe accanto alle migliori cose prodotte fino a quel momento dal Nostro. Tra di esse figurano senz'altro Headnod Gospel, Outta Town, Jungle King, Me > Them e la migliore di tutte, Open Your Eyes, in cui i rimandi allo stile degli Ummah di fine anni '90 sono ben più di una semplice influenza ma appaiono come un palese omaggio.
Un'altra cosa, sempre riguardo ai beat: non solo c'è la qualità (credo che chiunque sarebbe ben felice di avere simili strumentli per il proprio disco), l'inventiva e l'abilità ma anche la resa. Mi spiego meglio: qualcuno di voi potrà pensare che in quanto materiale gratutio, la qualità sonora sia appena passabile; invece non è affatto così, e per quanto si possa notare che non vi è stato un processo di postproduzione in uno studio da trentamila dollari al giorno, vorrei ricordarvi che Black Milk è un ottimo fonico (le sue robe se le mixa da solo, per dire) e perciò quando cade il rullante sulla base, ve lo garantisco, si sente. In breve: non un capolavoro, ma come progetto non solo regge meglio del 99% delle operazioni di questo tipo (vi ricordate Q-Unit? Mioddìo) bensì riesce a collocarsi quantomeno all'altezza di Popular Demand. E pensare che nasce come poco più di un promo...
Quanto ai Tree City, invece, non so dirvi molto: non conoscendo i nomi dei membri, e non essendo loro autopromozionali come molti loro colleghi, non saprei dire chi è chi. Ho notato però che vi sono due di essi particolarmente agili con le parole, di cui uno ha la voce simile a Panchi degli NYG'z e l'altro, invece, acusticamente ha lo stesso tono di Dre degli Outkast mentre la metrica prende evidente ispirazione dal Nas di Illmatic (e in parte Elzhi, ma avendo anch'egli Nasir come uno dei referenti non saprei se contarlo o meno). I restanti membri sono comunque bravini [edit: uno sembra Percee P] ma devono ancora perfezionare alcuni aspetti o, per meglio dire, più aspetti che non "Panchi2" e "Andre2"; e se in generale si nota che manca ancora un po' il rodaggio (stilisticamente s'assomigliano davvero molto) devo ammettere di essere rimasto favorevolmente impressionato dalla competenza dei tree City e dall'impegno dimostrato non solo nello scrivere le rime, gestirsi i passaggi di microfono eccetera ma anche nella stesura dei testi. Testi che, certo, perlopiù viaggiano sul sentiero già noto del braggadocio misto all'amore per l'hip hop ma che spesso contengono alcune chicche di levatura intellettuale davvero niente male.
Che dire? Onestamente, se mi chiedessero 15€ per questo progetto io glieli darei anche: è proprio un bel disco sul quale non ho nulla di grave da dire. Qualità oscillante in certi casi e forse un po' troppo ispirazione presa da Elzhi e Royce, ma non me la sento di fustigarli. Averne, di materiale così. Ricordo a tutti voi (che possedete un account) di passare sul loro Myspace per lasciare un complimento, e speriamo proseguano a far musica (P.S.: la grafica l'ho fatta al volo io in quanto l'originale ne è sprovvisto, chissà perché).





Tree City & Black Milk - Black Trees
Grafica Black Trees

VIDEO: HEADNOD GOSPEL

BLACK MILK - POPULAR DEMAND (Fat Beats, 2007)

Com'è facilmente prevedibile, io non sono un grande fan della techno in nessuna delle sue forme; non sto qui a spiegarne i motivi, molto semplicemente non mi piace. Tuttavia, un po' come mi succede con il metal, pur non aggradandomi in nessuna maniera provo un'inspiegabile simpatia verso di essa e soprattutto reputo la sua storia assai interessante. Non per ultima c'è la cosa più importante, ovverosia la mia ferrea convinzione che essa abbia influenzato -vuoi anche solo in maniera impercettibile- sia Dilla che Black Milk nonché, di conseguenza, il sound contemporaneo dell'hip hop di Detroit e se così davvero fosse (non ho purtroppo la conoscenza musicale per dimostrarlo su basi empriche) credo che le dovrei essere grato vita natural durante. Dopo l'uscita di Tronic questa mia convinzione si è rafforzata, ma devo dire che la nascita di questa è dovuta all'ascolto del suo primo disco solista: Popular Demand.
Prima di esso, Black Milk era infatti considerato solamente un buon produttore oppure, nei giudizi più estremi, una sorta di Jay Dee a scartamento ridotto; un giudizio dovuto principalmente al semplice fatto di aver sostituito (assieme al collega Young RJ) quest'ultimo a partire da Detroit Deli e che in realtà ha ben poco a che vedere con l'effettiva produzione musicale. Infatti, se si vanno a fare paragoni tra i due, si possono indubbiamente scoprire elementi in comune, ma altrettanto indubbiamente se ne scoprono altri discordanti: nel taglio dei campioni, nel mixaggio, nel rapporto di contrappesi tra batterie e basso eccetera eccetera. Del resto, se così non fosse, lo sviluppo del sound di Black Milk non lo avrebbe portato a Tronic bensì a Ruff Draft, giusto?
Tuttavia ho gioco facile a sostenere questa tesi nel 2009. Devo infatti ammettere che ascoltando Popular Demand in alcuni casi il pensiero non può non correre a Dilla, complice prima fra tutti l'atmosfera soul ed una minore propensione verso la sofisticata elaborazione delle batterie che si può respirare negli oltre 70 minuti di musica che ci vengono qui offerti. Contrariamente a Tronic, che è un'opera personalissima in tutto e per tutto, qui vi sono momenti in cui l'ombra del Maestro si fa notare; si tratta sempre di influenze e non di plagio e sovente ciò si traduce comunque in buona musica, però non si può nascondere quel quid di Yancey che permea Sound The Alarm o Lookatusnow (solo per citarne due). Fortunatamente, però, Milk è decisamente un miglior MC di JayDee (e di molti suoi colleghi produttori-MC, se è per questo) e ciò permette ad un'opera come Popular Demand di reggere egregiamente la propria lunghezza, a condizione che non ci si aspettino le performance di un Elzhi ma ci si sappia accontentare di tematiche tutto sommato frivole e presentate con uno stile che si fonda più sul carisma che non sulla tecnica vera e propria.
Fin dall'inizio egli non fa mistero delle sue aspirazioni e della sua visione artistica: "I’m underground, but don’t get it twisted, man, I’m in the range and I’m thinkin’ bout that Escalade/ We like a little platinum on a chain, on a ring, I’m from the city of the gators, dog, what you think?/ 'Cause I don’t walk with no backpack on don’t put me a box, dawg, we do it all/ You can catch me in the club from the window to the wall". Grossomodo, anche la tara dei suoi argomenti si attesta su questi livelli: in altre parole, non aspettatevi raffinate concept track o grandi storytelling perché da questo punto di vista Popular Demand è quanto di più tradizionale (volendo anche manieristico) vi possa essere; diciamo che lui ama trombare (shocker!), bere, fumare, andare nei club e tutte quelle cose lì, senonché ci usa la cortesia di corredare questa gragnuola di ovvietà con un flow accettabile (anche se esageratamente fondato su pause, enunciazione e toni vocali) che contribuisce a rendere il tutto piacevole ed ascoltabile. In fondo il suo miglior pregio è questo e, francamente, non intendo perdere altro tempo su un argomento così sterile se non per menzionare dei featuring che pur non provenendo da dei mostri sacri risultano d'impatto: Slum Village e Baatin (ma mica ne faceva parte? Boh) su tutti, ma anche Phat Kat e Guity Simpson conferiscono un valore aggiunto non indifferente ai pezzi che li vedono ospiti.
Non a caso, sono proprio questi gli elementi più efficaci di Popular Demand: Sound The Alarm, il singolo, gode di una linea di basso continua, stilisticamente collocabile a metà tra la Bomb Squad e Dilla, che viene sostenuta da delle batterie regolari ma opportunatamente "sporche" e che rendono l'insieme una bomba, complici anche le prestazioni sopra la media di Milk e Simpson. La posse cut Action è invece il contrafforte della precedente canzone, in cui si nota molto più la componente soul del disco; ammetto che in sè il beat non suona fresco come ci si aspetterebbe, ma la sua relativa prevedibilità viene ampiamente compensata da un buon gusto nella scelta e nell'uso del campione. Ma oltre a queste vanno evidenziati altre pezzucci non esattamente da nulla. Insane, ad esempio, in cui il nostro si sbizzarrisce con le batterie nel modo che abbiamo imparato ad amare; oppure la bonus track Keep it Live, in cui scorgo addirittura echi del Wu-Tang di fine millennio; infine, le più tradizionali ma enormememente orecchiabili Lookatusnow, Say Something (in odore di 50 Cent di suo e per di più con un ritornello inequivocabile), One Song e Shut It Down. Queste ultime tre rappresentano l'animo più derivativo di Black Milk, è vero, ma bisogna riconoscere che sanno comunque trasmettere una sensazione di blaxploitation in maniera nient'affatto scontata, contrariamente a ciò che avviene con i molti che pescano a piene mani nel catalogo Stax e Motown.
Sfortunatamente, però, Popular Demand non è tutto rose e fiori. Innanzitutto alle volte Black Milk rappa cose asinine e in maniera così asinina da risultare irritante. E nel complesso, non si può nascondere una certa monotonia e ridondanza contenutistica, purtroppo non risollevata da alcun tipo di inventiva o humor; detta in modi più spicci, egli avrebbe fatto meglio a lavorare di forbice per ridurre la lunghezza del disco. Lo stesso dicasi per certi beat come U, So Gone o Watch 'Em: definirli privi d'inventiva sarebbe eufemistico ma, ben più grave, il problema è che sono di una genericità imperdonabile per uno come Milk. Li ascolti ed oltre a non lasciarti nulla ti fanno interrogare se quello che stai sentendo sia veramente il lavoro di uno che aspira(va, nel frattempo lo è diventato) a divenire un punto di riferimento per il sound di Detroit.
A conti fatti, quindi, possiamo annotare due cose. La prima è spiacevole e consiste nel dover inquadrare questo esordio nella fascia alta dei prodotti validi, e nel fare questo reputo legittimo tenere conto di una parziale delusione. Insomma, se alcuni di questi beat risultano inferiori alle tue stesse cose del 2004, beh, vuol dire che non ti sei sbattuto abbastanza e ciò, per quel che mi riguarda, è alquanto sgradevole specie se devo tener conto delle legittime aspettative nutrite fino a quel momento. La seconda cosa, invece, è una sorta di rovescio della medaglia: complice un esordio non brillante o perlomeno non all'altezza della sua reputazione, nell'arco di un anno Black Milk ha saputo produrre quel capolavoro che è Tronic. Ma siccome non posso certo tener conto di questa nota positiva nel momento in cui devo esprimere un voto, ecco che alla fin fine Popular Demand si becca un severo tre e mezzo.





Black Milk - Popular Demand
Black Milk - Broken Wax Instrumentals

VIDEO: SOUND THE ALARM

giovedì 25 giugno 2009

RAKIM - THE 18TH LETTER (Universal, 1997)

Quando ci si approccia ad una leggenda, o per meglio dire all'opera di una leggenda, è meglio andarci coi piedi di piombo. Rakim è tutt'oggi considerato da molti il miglior MC di tutti i tempi, anche se oramai non si sente più nulla di significativo a suo nome da una decina d'anni circa. Stando così le cose, figuratevi l'opinione che poteva averne la gente nel '97: l'adorazione nei confronti di "The R" era così diffusa che, persino in un periodo in cui Master P e Puffy spopolavano, un sondaggio condotto dalla Source in occasione della sua centesima edizione lo incoronava come re indiscusso del microfono con queste parole: «"I came in the door, I said it before/ I never let the mic magnetize me no more". How many of y'all wanted to be MC's after that? Nuff said.»
Purtroppo temo che se lo stesso sondaggio venisse condotto oggigiorno il risultato non sarebbe più lo stesso; e questo lo si può certamente imputare alla scarsa prolificità del Nostro mescolata ad un controllo qualitativo a dir poco lacunoso, ma soprattutto il problema è che propaganda e mercato concordano nel definire G.O.A.T. non tanto altri personaggi potenzialmente sullo stesso livello (Jay-Z, per restare in ambito commerciale) quanto delle caccole umane il cui unico fine costantemente perseguito è il mantenimento dello swagger. Ma d'altronde cosa possiamo aspettarci? Finchè il mercato non crollerà ci toccherà sorbirci quantità intollerabili di sciocchezze di cui, in fondo, la tesi che vede Wayne come miglior MC vivente è solo la punta dell'iceberg e nemmeno la più grave. Nell'attesa che vi sia un bel armageddon che faccia piazza pulita di tutte le scorie che ormai da quindici anni avvelenano l'hip hop mainstream, l'unica cosa ragionevole da fare è rifugiarsi nell'underground oppure rispolverare vecchie glorie. Ma, detto questo, si può definire 18th Letter una "gloria"? È paragonabile a Paid In Full o Let The Rhythm Hit 'Em? Vediamo.
Fermo restando che per noi quasi-trentenni risulta indubbiamente più accessibile dei lavori precedenti, la risposta non può che essere un secco "no". Questo perchè al momento della pubblicazione di quest'album la tecnica di Rakim e le radicali innovazioni che aveva portato con essa -in sintesi: rime incrociate all'interno della singola misura, ricco vocabolario, flow "pacato", metaforica complessa- erano ormai state assimilate dalla quasi totalità dei rapper in circolazione ed in certi casi, come il Nas di Illmatic, persino migliorata. Nel '97, quindi, il Nostro indubbiamente poteva mantenere intatti alcuni dei punti più personali del suo stile (su tutti la scrittura), ma in quanto a liricismo in senso stretto non poteva più dire di portare una ventata d'aria fresca, al limite una brezza di perfezione. Non è poco, badate bene: dischi ed MC di merda c'erano già allora, ma l'impatto indubbiamente era ormai stato smorzato e pertanto, per quanto dopo la sua riapparizione in Hoodlum al fianco dei Mobb Deep il mondo del rap fosse in trepidante attesa, l'unica mossa possibile per The R coonsisteva nel produrre un album perfetto o quasi. E questo, spiace dirlo, non lo è. Le lacune -sopratutto il jigginess tristopacchiano di Stay A While, gli inutili remix di alcuni pezzi, la diluizione dell'insieme con skit inutili ed una scaletta balorda- finiscono col danneggiare egregiamente un prodotto che altrimenti presenta diversi punti forti e rappresenta, malgrado tutto, un buon esempio di ritorno sulla scena da parte di un veterano, laddove invece Crown Royale dei Run DMC ne è la versione speculare.
Ecco: di questi punti forti quello maggiore è indubbiamente New York. Questo capolavoro -sì, è un capolavoro- non solo se la gioca come uno dei migliori inni di sempre alla Grande Mela, ma è anche uno degli abbinamenti tra MC e produttore più superbi che abbia mai sentito: Premier e Rakim qui si complementano come raramente ho potuto sentire in vita mia. Analogamente a NY State Of Mind, la forza di questa canzone consiste nel saper convogliare l'essenza di una città in tre strofe che la rendono tangibile anche a chi a NY non è mai stato. Semplicemente superba ed immancabile per qualsiasi antologia del miglior rap degli anni '90 (parentesi: metto un video non ufficiale di questa non solo perchè è la canzone migliore fra tutte, ma anche perchè quello di Guess Who's Back è sinceramente imbarazzante).
Più in basso -molto più in basso, vista la qualità di New York- vi sono poi due perle che spesso vengono sottovalutate dagli estimatori di 18th Letter: la peterokkiana The Saga Begins, di rara cupezza ed eleganza nell'accostare il semplice campione di piano al flow di Ra, e The Mystery (Who Is God). Quest'ultima è in particolare interessante perchè, al di là degli aspetti più tecnici, rappresenta uno degli unicum di Rakim, ovverosia il suo saper parlare di religione e spiritualità in modo al contempo poetico ed approfondito mantenedo stile nel farlo. Non scordimolo mai, perchè ancor'oggi questa sua peculiarità resta di sua esclusiva proprietà, nessuno, e intendo dire proprio nessuno, è mai stato capace di avvicinarsi al Maestro in questo e perlomeno ciò dovrebbe essergli sempre riconosciuto.
Orbene: queste sono le tre tracce di punta, dopo le quali vanno a fare la fila cose di validità decrescente. Remember That e It's been A Long Time forse non figureranno tra le migliori opere di, rispettivamente, Marley Marl e Primo, ma hanno sufficiente tiro da poter reggere l'ottimo emceeing di Ra (particolarmente ispirato nella prima, segnalo) e nel complesso possono dirsi più che dignitose. Show Me Love, invece, è lievemente danneggiata dal ritornello cantato (che però risulta oggettivamente coerente con l'atmosfera del pezzo, devo ammettere) ma presenta un altro degli aspetti caratteristici di Ra, cioè quello del Don Juan De Marco de noantri, il che personalmente mi tange molto perifericamente ma insomma, come si suol dire, a ciascuno il suo e così anche le biatches possono dirsi soddisfatte. Quanto alla title track e When i'm Flowin' posso solo dire che sono tra il ridondante ed il superfluo, insomma non vanno ad aggiungere nulla all'album. Infine, mi scoccia dire che le produzioni del veterano Clark Kent (che ormai quanti anni avrà? Cinquanta? Sessanta?) sono francamente deludenti: Guess Who's Back poteva forse catturare l'attenzione all'epoca, ma direi che, data la sua natura di pezzo da club, fra tutte le offerte di 18th Letter è quella invecchiata più malamente; e pure Stay A While è una discreta cagata sulla quale preferisco non infierire. Inutili, infine, sia il remix della Suave House di It's Been A Long Time (in tre parole: esperimento finito male) che l'alternative mix di Guess Who's Back. In altre parole, poteva limitarsi a dieci tracce, otto se si escludono poi quelle meno riuscite.
Ecco, il punto è questo: 18th Letter è troppo breve per potersi permettere semplicemente tre gran bei pezzi più cinque di contorno. Alla fine, dopo cinque anni di gestazione, il minimo che ci si potesse aspettare era una raccolta magari anche breve ma di maggiore impatto e/o qualità; così però non è stato, e alla fin fine se si paragona questo al bootleg del solista inedito del '95 si potranno notare davvero poche differenze in termini di pura qualità. Insomma, diciamolo: 18th Letter alla fin fine è un po' tanto raffazzonato e, beat a parte, si vede che Ra non si è impegnato fino in fondo nella sua creazione. In conclusione, quindi, non si può certo definire brutto ma sinceramente comprendo coloro che, avendo conosciuto il Rakim al top della forma, sia rimasto estremamente deluso da questa "fatica".





Rakim - The 18th Letter

VIDEO: NEW YORK (UNOFFICIAL)

mercoledì 24 giugno 2009

69700 VISITE!!!

Yeee-haw, bitches!
Comunque colgo l'occasione per dire che dopo dieci di pausa anni ho comprato delle Nike.
E sono veramente il peggio! Fanno fietere le fette come poco altro al mondo (nemmeno le shelltoes si avvicinano al coefficente camembert di queste), manco avessero delle carogne di topi come imbottitura. Ma serio: io non solo mi faccio la doccia ogni mattina ma mi cambio i calzini ogni dì, al massimo due! Eppure, malgrado tutto, l'effetto è quello classico del calzino tofa estratto dallo scarpone da sci alla fine della settimana bianca, per intenderci quello che ha il bulletproof vest sotto la pianta del piede e che volendo potrebbe incastrasi negli attacchi come se niente fosse. Hardcore, to make them brothers act fool. Comunque domattina vi pubblico Rakim, volevo solo dirvelo.

P.S.: posso dire che alcuni di voi sono dei babbei? Vado su Mediafire e leggo che Baby Blak ha avuto 18 download. Bene, Poi guardo Main Flow e 7L e leggo, come Bruno Sacchi, un patetico "tre".
Guradate che malgrado la mia recensione negativa io un ascolto glielo darei; anzi, non escludo che non scaricandolo vi stiate perdendo qualcosa. Insomma, in due parola: un po' più di curiosità.

GHOSTFACE KILLAH - IRONMAN (Epic/Razor Sharp, 1996)

1996, Milano. In quell'anno la mia passione per il rap aveva raggiunto dei livelli di preoccupante maniacalità, tanto che da tempo ormai mettevo da parte tutti i soldi che mi passavano i miei per mangiare, in modo da potermi permettere il lusso di un CD ogni due settimane (cosa che oltretutto mi permise di passare dal bombolotto che ero ad una forma più longilinea, fino a raggiungere il cosid. Pookie status nel '98 con un ricco 1,86 x 66kg). Ricordo esattamente il giorno in cui venni in possesso di Ironman: avevo lezione nel pomeriggio e così decisi di fare una puntata-lampo al TimeOut assieme al mio amico e mentore Paul, tornando così a scuola con in mano sia l'esordio solista di Ghostface Killah che ATLiens; inutile dire che vi fu una feroce lotta per il possesso dell'unico Discman disponibile (il suo) che si concluse con un ascolto lampo da parte mia che -onestamente- mi lasciò deluso. Non ci credete?
Ebbene sì, al primo ascolto Ironman non mi convinse affatto: a parte l'inclusione truffaldina di due tracce già edite su altrettante colonne sonore (Winter Warz da Don't Be A Menace To South Central While Drinking Juice In The Hood, Motherless Child da Sunset Park), ciò che mi mancava era il suono cupo e sporco dei vari Liquid Swords, Cuban Linx, Tical eccetera eccetera. Al suo posto era sopraggiunto un mood più sofisticato che all'epoca, data la mia ancor maggiore ignoranza musicale, non riuscivo a decifrare e che oltretutto si poneva in netto contrasto con ciò a cui s'era abituato il mio orecchio. Detta altrimenti, il motivo per il quale Ironman non aveva saputo impressionarmi è che ero giovane e fesso, e dunque non ero capace di rendermi conto che con quel disco ebbe luogo una svolta nel suono del Wu: lo spostamento definitivo verso il soul come primaria fonte d'ispirazione per il proprio stile. Ora, leggendo queste righe penserete: "Non è che in passato i sample provenissero da Rita Pavone, e dunque dove starebbe la novità?". Giusto. Ma considerate quanto diverso può essere l'utilizzo di Ann Peebles in Shadowboxin' rispetto a quello di Al Green in 260: loop brevissimo e quasi privo di chiare connotazioni il primo, più lungo e contenente elementi ampiamente riconoscibili (il mormorio di Green in primis) il secondo. Ancora: se nella storica Heaven & Hell il sample di Syl Johnson ne rivelava la matrice anni '70, esso è comunque quasi minimo rispetto a quanto avviene per O.V. Wright in Motherless Child. E, in breve, grossomodo in tutte le tracce si respira un'atmosfera più calda e avvolgente che non nelle precedenti opere del colletivo di Staten Island, con come uniche eccezioni Assassination Day, Winter Warz e Marvel. Non è peraltro un caso se, a distanza di diversi anni, è stato lo stesso Ghostface -che in questo album invita direttamente i Delfonics- a reintrodurre in maniera massiccia i campionamenti soul ed a portare ad un necessario rinvigorimento di un Wu che, dopo il duemila, sembrava essersi perso dietro agli eclettismi poco ispirati di RZA.
Insomma, per quanto reputi che non si possa parlare di momento storico, è indubbio che Ironman rappresenti un passo importante nell'evoluzione del Wu ed uno fondamentale per Ghostfazza. Tanto per cominciare perchè in quest'occasione egli dimostra una volta per tutte di essere un vero mostro al microfono, e questo nonostante venga affiancato sia da un Raekwon al massimo della forma, sia da un emergente Cappadonna che -a pensarci vien da ridere- in Ironman manifesta un talento all'epoca assai notevole (cfr. la sua strofa in Iron Maiden). Ma poi, soprattutto, perchè Ironman alla fin fine è la prova più tangibile della sua capacità di reggere da solo intere canzoni e comporre dischi aventi capo e coda, contrariamente a quanto era avvenuto fino ad allora con Method Man e che più avanti si sarebbe ripetuto con i vari Cappadonna, RZA, Inspectah Deck e via dicendo. No: Ghostface riesce invece ad infilare diciassette canzoni una dopo l'altra quasi senza sbagliare un colpo e, pur non essendovi un reale filo rosso che conduca dall'una all'altra, tra il suo stile a libera associazione ed il collante formato dalle produzioni e dai vari skit, si riesce a giungere ad una sintesi quasi perfetta.
Geniale è l'idea di aprire con Iron Maiden, che non solo figura tra i pezzi migliori del "pacchetto" ma, soprattutto, sia come tiro che come campione prepara l'ascoltatore a ciò che seguirà; aggiungiamoci delle performance di Rae e Cappa indiscutibilmente eccezionali che si aggiungono a quella altrettanto valida di Ghost ed ecco che le aspettative cominciano ad essere soddisfatte. Seguono e abbassano i bpm il grezzissimo e ultramisogino storytelling di Wildflower e la mediocre -per via del beat- Faster Blade, finché con 260 non solo si ritorna a velocità più sostenute ma anche la qualità vede un'ascesa: forse si può opinare il taglio del campione di You Oughta Be With Me, che per l'occasione non sfrutta il bridge originale (come fa invece il remix di Format di AZ, che trovate anche su RNS), ma francamente mi sembra chiedere troppo. Già così la canzone è una perla, trovo pertanto inutile spaccare il capello in quattro.
Dunque: giunti che siamo alla quinta traccia abbiamo avuto modo di notare i primi accenni del cambio di direzione nel sampling di RZA; ebbene, siccome all'epoca qualcuno poteva restarne spiazzato, ecco che il Nostro decide di fare una mossa inaspettata. Assassination Day, che oltre ad avere un titolo fighissimo ed essere una delle posse cuts del Wu al contempo più belle e sottovalutate di sempre (assieme a Spazzola di Meth), non solo vede un ritorno alle trentasei camere da parte di Robert Diggs ma si fa notare anche per la curiosa assenza di Ghostface, che in compenso lascia tutto lo spazio a Deck, RZA, Rae e Masta Killa. Ecco: giunti a questo punto posso dire una cosa? Viste le strofe la sua mancanza non si sente. Leggete e poi ascoltate anche solo le entrate di Deck ("I move through the third world, my third eye's the guiding light/ Invite to fight, we all die tonight"), RZA ("I stop producers careers, the weak spot was their ears/ Scorpion darts hits their mark pierce their heart with silver spears"), Rae ("First of all, before we move on, this shit is like a Yukon/ Don, spread it out like Grey Poupon") e Masta Killa ("War is extremely serious and it saddens me/ To have to take tings to deadly measures/ And have you measured and shot for no pay/ It's assassination day I stalk my enemy like prey"). Da applausi? Io direi di più.
Di tracce su questo livello però ce ne sono altre, state tranquilli: Fish (unica base curata non da RZA bensì da Tru Master) è eccezionale, così come anche Daytona 500 (miglior uso del sample di Nautilus? Diciamo che se la gioca con Follow The Leader e Stray Bullet) e l'uno-due dato da Black Jesus e After The Smoke Is Clear. E naturalmente anche Motherless Child e l'eccellente Winter Warz, pur figurando tecnicamente come ricicli, assurgono tra le cose migliori del disco; anzi, a dirla tutta faccio prima a dire quali sono i pezzi secondo me meno ispirati. È facile, si riconoscono subito: Faster Blade, Box In Hand (che si salva in zona Cesarini grazie ad una bella strofa di Meth) e Marvel (dove alcune delle peggiori tendenze del Diggs che verrà cominciano a farsi notare, vedi ad esempio la cacofonica e striminzita melodia).
A queste poi aggiungo in piena enfasi di soggettività la tanto acclamata All That I Got Is You, che a prescindere da qualsiasi valutazione critica mi risulta di una melensaggine insostenibile e francamente, con quel popò di coro di Mary J. Blige, davvero non riesco a sopportare più. Ma questa è una valutazione completamente personale, per cui datele il peso che merita e soprattutto non scatenate un inferno nella sezione dei commenti -grazie.
Ma alla fine dei conti cos'altro c'è da aggiungere? Qualche senese frequentatore del blog mi odierà, ma cinque non riesco a darglielo; per me qualche fiaccata c'è e anche se queste vengono facilmente dimenticate grazie alle chicche qui presenti, cosa che mi permette di dargli un quattro e mezzo, purtroppo non posso conferire il pieno dei voti. So sorry. Tenete però conto che, come sempre, quando mi trovo a giocare coi zainetti cerco di contestualizzare quanto più possibile e quindi quest'opera se la deve giocare con robette da nulla come OB4CL, Infamous o Liquid Swords. Non -con tutto il rispetto- coi Cunninlynguists.





Ghostface Killah - Ironman

VIDEO: DAYTONA 500

martedì 23 giugno 2009

MAIN FLOW & 7L - FLOW SEASON (Brick/Traffic Ent., 2006)

Io odio le radio italiane. Le odio con un livore che posso solamente dedicare a chi abusa del mio tempo per sciorinare coglionate che puntualmente hanno praticamente nulla a che fare con la musica, la quale, poi, naturalmente fa stracacare. In questo brodo primordiale dell'intelletto c'è tuttavia una sorta di scala evolutiva: ci sono casi irrecuperabili come Radio Montecarlo e Radio 105, che ben si confanno alle doti cerebrali da unicellulare di chi le ascolta, ed altre che via via diventano meno peggio pur restando sostanzialmente degli insulti alla propria intelligenza. Radio Deejay ad esempio ha qualche momento di vitalità affogato nel profluvio di scemenze che sparano i vari Fabi Volo e le annesse Luciane Littizzetto; Radio Capital è enormemente peggiorata dacché la linea editoriale è passata a Linus ma ogni tanto qualcosa di decente lo passano pure; Virgin Radio sarebbe anche apprezzabile se non riciclassero la medesima scaletta ogni giorno e mezzo; Popolare è apprezzabile negli intenti ed in alcune trovate, ma è talmente permeata di bastiancontrarismo che troppo spesso si traduce in scelte musicali per me opinabilissime (anche se ricordo un viaggio fatto ascoltando un bestiale solista di Cisco che mi ha fatto fare diverse risate). Insomma, detta in soldoni: le uniche due radio oggettivamente serie sono il Terzo Canale della Rai (dove malgrado l'impostazione classica ho potuto sentire MF Doom, i Co'Sang, Pete Rock ecc.), dove vi è molta divulgazione -senza contare l'immancabile Prima Pagina, e soprattutto 102.2 aka il Quinto Canale, ove non parlano se non per riferire del compositore, degli esecutori, di luogo e anno d'incisione.
Ora: in genere di ascoltare radio non me ne potrebbe fregare di meno. Ho dei gusti ed ho abbastanza dischi per soddisfare qualsiasi mia voglia, però il problema è che in genere nel rap ho pochissimi album cosiddetti "easy listening". Mi manca quasi totalmente quindi l'equivalente reppuso di, che so, i Glasvegas: qualcosa che sia privo di pretese ma che riassuma una serie di spunti positivi in un'unica opera senza scadere troppo nel banale e che, sì, insomma, sappia fare il proprio mestiere risultando piacevole da ascoltare. Bene: se anche voi avete i miei stessi problemi, allora Flow Season fa per voi. Alle macchine c'è un 7L che in quell'anno aveva contribuito al disastroso A New Dope (e che per sua fortuna noi invece preferiamo ricordare per i suoi precedenti lavori, decisamente superiori) mentre al microfono c'è tale Main Flow, già membro dei Mood alias il gruppo d'origine di Hi-Tek. Tutto quà? Sì. Il primo produce mentre il secondo rappa, come si faceva un tempo. Questa formula diggèi + MC in genere tende a produrre ottimi risultati perchè si suppone che questo tipo di collaborazione nasca dopo una meditazione più lunga che non se si trattasse di una sola canzone, perciò sono da tempo estremamente aperto ad opere che decidono di seguirla e difatti, entro certi limiti, si può dire che Flow Season sia un successo.
In realtà, più che parlare di "certi limiti", al plurale, sarebbe più corretto che scrivessi "malgrado Main Flow". Giaggià, il problema è proprio l'interprete principale, nient'altro. E se vi state interrogando sui perchè, la risposta più concisa che possa darvi è "perchè è scarso anche se cerca di nasconderlo". D'accordo, lui s'impegna a mettere insieme rime multisllabiche, peccato però che nella migliore delle ipotesi lo faccia seguendo pressoché sempre la stessa metrica incrociata ABAB (es.: "Don't let them cops know you got doe or cop 'dro/ The block is hot yo get ready let the props go") e per giunta quasi mai per più di due misure, col risultato dunque di creare semplici filastrocche tipo Signor Bonaventura, semplicemente più complesse al loro interno (e alle volte nemmeno quello). Ma non è tutto. Flow manifesta infatti un inequivocabile odio verso le parole tronche mentre adora all'inverosimile le piane (non rompetemi il cazzo dicendomi che non si può applicare la suddivisione degli accenti italiani sulle parole inglesi, avete comunque capito benissimo), col risultato che persino all'interno di uno schema metrico così triviale l'effetto finale sarà meno vario e soprattutto cantilenante. Scordatevi quindi cose come "So let a motherfucker move a muscle when I tussle they'll be piecin' niggas back like fucking puzzles", perchè quì riusciamo ad avere uno dei pochi anglofoni capace di riprendere i peggori difetti dell'italiano come lingua per rappare e che senza un apparente motivo strascica con fastidiosa frequenza l'ultima sillaba della parola rimata.
Ma non è finita qui. Non ancora: se Main Flow metricamente può quindi ricordare un Killa Sin lobotomizzato e la voce ricorda un Cormega privo di passione, contenutisticamente e liricamente siamo alla Caporetto dell'intelletto: gangsterismi da du' lire espressi senza un minimo di inventiva, metafore ed analogie obsolete (ancora i doppi sensi vedere-Ray Charles?) e davvero niente, ma proprio niente da comunicare. Per assurdo, credo che sia l'unico ghettuso degli Stati Uniti a non esser stato capace di cavare dal buco quantomeno una traccia sulla sofferenza o su come l'è düra stare tutta la giornata in strada a smazzare; in altre parole, persino l'ABC di questa sottocategoria riesce a sfuggirgli dalle mani. È incredibile. Delle due l'una, quindi: se vuoi metterti a rappare o hai una storia alle spalle e qualcosa da dire oppure sei bravo con le parole; se così non dovesse essere, allora ricordati che non te l'ha mica detto il dottore che devi diventare emsì, o sbaglio? Aggiungiamoci che i ritornelli ad opera esclusivamente sua sono in larghissima parte al di sotto del minimo denominatore comune di tollerabilità -del tipo "I'm a gangsta... you a gangsta... I'm a gangsta... you a gangsta" (Orcoddio! ORCODDIO!!!)- e direi che, a meno che non ci si voglia avventurare nei territori minati dello stile dirty south, di schiappe simili ce ne sono poche in giro.
Insomma, non lasciatevi ingannare dalla metrica fintorakimiana, Flow proprio non ce la fa per un cazzo e sinceramente m'interrogo su come i recensori di madrelingua inglese abbiano potuto sostenere che lui sia uno competente.
Però però però... una cosa la sa fare bene: scegliersi i beat. Eccetto un paio di occasioni, le basi di Flow Season non solo sono assai belline (per quanto non originali) ma soprattutto sono dotate di tempi e melodie che, ammetto di non sapere come, riescono ad occultare tutta la cagosità dell'emceeing. The Show, per dire, gode di un loop di piano pitchato che viene intervallato nel ritornello da degli archi: formulaico quanto volete, ma funziona. Where I'm From, invece, è costruita su una bellissima melodia generata da quello che identifico come uno strumento a fiato pitchatissimo (ma che potrebbe altrettanto probabilmente essere un cantato elevato di sette ottave) e da un bel giro di basso che lo accompagna sul più classico set di batterie di questa terra e che, forse proprio per questo, funziona divinamente; Forever invece vede riaffiorare il soul nella forma di sample vocali e pianoforti, ma con un risultato finale che si avvicina molto più ai pezzi più riflessivi di Cormega (che difatti qui presenzia) che non alle pacchianate dei Heatmakerz. Un richiamo al Queensbridge, questo, non isolato in quanto pare di sentire echi del Havoc di fine millennio nella successiva No Gangsta, così come The Re-Up vedrebbe come ideale collocazione un Nas post-It Was Written (contrariamente al sentire comune, questa per me non è una cosa negativa).
Ma melodie e soul a parte c'è anche spazio per beat più ruvidi dalle radici ben piantate nel funk: Top Scholars ne fa parte (ed è l'unica dove Flow dimostra un minimo di bravura, volevo dirvelo), ma è Hold Lines quella ad essere più riuscita, grazie anche all'eccellente cambio di campione nel ritornello che così va ad evidenziare dei scratch che stanno alla canzone come la proverbiale ciliegina sulla torta. Il rovescio della medaglia è che sui beat più spezzati e amelodici, come questo appena menzionato o She Like The Way I Talk, la menomazione creativa dell'MC risulta più evidente in quanto non vi è sufficiente materiale per diluirla; e finchè la base mantiene una sua decenza si può ancora glissare, ma non appena il campione diventa monotono -come in Recipe- allora la struttura non regge più ed il terreno scivola da sotto i piedi ad entrambi i protagonisti.
Comunque sia, ora viene il momento di sintetizzare in un voto quanto scritto finora. Ebbene, non è facile: vi dico fin da subito che io gli darei un sano tre, in barba a qualsiasi fondamento di matematica. Perchè se è vero che le basi sono da tre e mezzo/quattro, è altrettanto vero che lui s'aggira intorno all'uno e mezzo/due (sì, è così scarso). Eppure è quasi impossibile scindere le cose, perché in fin dei conti (l'ho già scritto) i beat riescono nell'80% dei casi a rendere meno incisive le oggettive lacune di Flow. E non solo: l'ambito musicale risulta certamente bello e ci fa scordare che ci sia qualcuno che ci rappa sopra, ma soprattutto ha delle melodie di sicuro impatto che rendono l'ascolto di Flow Season un piacere -almeno per me. Io difatti riesco a far girare i tre quarti d'ora scarsi di musica di cui è composto anche due o tre volte di fila, il che, considerando quanto scritto poco sopra, si può legittimamente considerare un miracolo. Insomma, che posso fare? Da un lato non posso sostenere che Flow Season sia al livello di altri album da me recensiti e che hanno ricevuto un voto pari a tre; ma nemmeno quelli da 2 e 1/2 gli sono paragonabili (N.A.S.A. l'avrò ascoltato praticamente solo per recensirlo), per cui, nel dubbio e considerato il suo pregio di essere facilmente digeribile, mi regolo di conseguenza inserendo questo titolo come uno dei rari casi di easy listening, a dimostrazione del fatto che non sempre è richiesta un'alta qualità per avere successo. Se comprarlo o meno sta a voi: io l'ho preso solo due settimane fa dopo anni e anni che vegetava nel mio HD...





Main Flow & 7L - Flow Season

VIDEO: STACK UP/TOP SCHOLARS

lunedì 22 giugno 2009

BABY BLAK - ONCE YOU GO BLAK (BBE/Rapster, 2003)

Ci sono quei dischi che, appena a qualche mese dall'uscita, non si caga più nessuno; in un mercato quantitativamente saturo come quello del rap la cosa non dovrebbe stupire più di tanto, specie se al numero totale di pubblicazioni disponibile si va ad aggiungere un'altrettanta atomizzazione dei filtri che dovrebbero permettere di selezionare la bontà di un prodotto. Basta andare su Metacritic o Rotten Tomatoes per vedere non solo il folle numero disponibile di recensioni per un ipotetico album "X", ma anche e soprattutto la varietà dei relativi giudizi, naturalmente tra essi contrastanti (l'unica costante è che Rolling Stone nel rap fa sempre ridere i polli). Non sono dunque tanto le bussole a mancare quanto l'univocità nell'indicare ove si trovi il Nord. Ovviamente, questo dei giudizi è un problema che ogni tanto mi pongo anch'io e che, non avendovi ancora trovato una soluzione definitiva, alla fine della giornata va a tradursi nella migliore ibridazione per me possibile tra giudizio e descrizione; perchè se il primo può benissimo essere irrilevante ai fini del prossimo, la seconda invece alla lunga aiuta enormememente chi non condivide i miei gusti. In quest'ottica, ad esempio, se mai un fan dei Dipset dovesse arrivare qui e leggere di una mia stroncatura all'ultima e certamente essenziale opera di 40.Cal, comunque, mediante la descrizione del capolavoro, saprà decidere se questa gli possa piacere o meno.
Questo per dire cosa? Che se parlando di Baby Blak risulterò ultradescrittivo non è solo perchè se lo merita ma anche per cercare di convincere voialtri che spendere dei soldi per Once You Go Blak (peraltro pochissimi) potrebbe essere una delle cose più intelligenti che vi capiterà di fare quest'anno. Motivo? Molto semplicemente perchè è un disco ben fatto, completo, in linea con i canoni che negli anni hanno determinato la nascita dei classici che oggigiorno veneriamo e che purtroppo da un po' di tempo a questa parte non riescono a trovare discendenti.
Per me con quest'album è stato così: un bel giorno mi son trovato in mano un vecchissimo numero di Groove e, rileggendo le recensioni, mi sono imbattuto in una critica piuttosto positiva di questo disco. In quel momento è giunta la folgorazione sulla via di Damasco: possibile che in sei anni e passa non mi fosse venuto in mente di ascoltarlo nemmeno una volta? Vai di preascolti su Amazon, quindi, e tempo quattro canzoni ed era mio (la mia formula è che bastano venti secondi per capire se un pezzo vale o meno, e nel 90% dei casi ci prendo). Ora, da quel dì è passato diverso tempo e, grazie ad esso ed ai relativi ascolti dedicati a AYGB, sono giunto alla conclusione che tra le dieci perle sottovalutate degli anni duemila, quest'album un posto se lo merita senz'altro.
Dal principio: Baby Blak è di Philadelphia. La città dell'amore fraterno non ha forse contribuito in maniera mediaticamente enorme allo sviluppo dell'hip hop, almeno di primo acchito, ma senz'altro ha saputo donare al mondo talenti che, una volta emersi, hanno permanentemente saputo mostrare il loro valore: da Schooly D ai Roots passando per DJ Jazzy Jeff (e questo solo facendo un riassunto estremamente scarno). Ruolo da comprimario ingiustamente meritato, l'underground locale ha poi comunque mantenuto inalterata la propria attvità e così, grazie al trapiantato europeo Maylay Sparks, un bel dì venni a conoscenza dei Ill Advised, che con il primo (in quanto membro del gruppo) condividevano una bella produzione di Alchemist. Onestamente, non posso certo dire che mi avessero fatto una grande impressione: dotati sì, ma privi di grossa personalità. E così, non avendo più sentito nulla di loro, ho riposto il file "ill Advised" nella soffitta dei miei ricordi. Bene. A distanza di anni, ecco che un altro dei membri di questa crew decide di scrivere un intero album -pressoché privo di featuring- e nel farlo affida le produzioni a gente indubbiamente competente ma altrettanto indubbiamente semisconosciuta (se vi dico che Joey Chavez e DJ Revolution sono i più celebri della compagnia dovreste riuscire a farvi un'idea). Mordente, dunque, zero.
Eppure succede anche questo, e cioè che un personaggio incapace di promuoversi a dovere -vedi la postribolare copertina, peraltro del tutto incoerente con i contenuti dell'opera- finisca con l'estrarre dal cilindro un gioiellino d'album che alla fine di conti risulta ben pensato, ben scritto e ben musicato. Le basi, curate dai già citati DJ Revolution e Joey Chavez, Kev Brown, Jay Ski (credo nessuna parentela con lo Ski di Reasonable Doubt), Rob Dinero e P-Smoovah sostengono ed accompagnano eccellentemente un MC dalle indubbie capacità e dalle idee chiare quanto basta per far scordare un suo carisma oggettivamente non forte. Grossomodo, infatti, a ciascun pezzo di Once You Go Blak corrisponde un determinato tema e, pur non godendo il Nostro della dote poetica di un Nas e ancor meno della vis polemica di un Chuck D, egli sa intrattenere e rendere interessanti le sue opinioni così come la sua aneddotica. Tutto ciò non avverrebbe -lo ripeto- se non vi fosse una degna controparte musicale e difatti, visto nel suo complesso, Once You Go Blak forse non potrà dirsi perfetto ma indubbiamente esibisce de facto l'importanza dell'alchimia tra beat ed MC andando a formare nel concreto ben settanta minuti di musica che reputo, se volete tra sviste ed errorucci, godibili dal principio al fine.
L'incipit, firmato musicalmente da Revolution, è un bel pestone di due minuti scarsi in cui Blak si presenta sia come persona (diretta, onesta, con cose da dire ma -sia mai- non mollacciona) che come MC: abile nella metrica e dotato di qualità tecniche indiscutibili, le quali permettono a noialtri di comprendere ogni singola parola e seguire il filo del discorso, pecca di una voce non particolarmente memorabile ma senz'altro piacevole e "fluida", non molto distante dal tanto osannato Termanology. Rispetto a quest'ultimo, però, Blak favorisce su tutto la consecutio logica e pertanto è più portato a chiudere un discorso con le giuste parole che non a stupire con effetti speciali o allungare il brodo con le cazzate. In tal senso si possono distinguere nettamente le canzoni dal preciso orientamento contenutistico rispetto alle poche dove si concentra sulla forma (anzi: in fin dei conti si potrebbe dire che l'unica canzone completamente devota all'egotripping sia Taster's Choice). Tuttavia non aspettatevi legnosità: bene o male egli riesce sempre a far suonare piacevole il messaggio, che così risulta (complice anche la sua onestà) al massimo educativo ma mai didascalico, e comunque sempre bilanciato da altri aspetti del proprio carattere; in altre parole, non è uno di quei MC tutti d'un pezzo che, pur bravi, paiono scesi dal Sinai per comunicarci la Verità e che però facendo ciò sovente scadono in una fastidiosa forma di pedanteria (Common nemmeno lo nomino più in quanto causa persa, ma Kweli? ).
Ad esempio, Blak può da un lato permettersi di descrivere le iniquità della società in cui vive (Economix) e denunciare il torpore delle sue vittime (Wake Up), ma il fatto che non si ponga al di sopra di queste ultime ed anzi arricchisca le osservazioni con il proprio vissuto personale (Fallin' Down, Daddy Dearest) lo rende evidentemente più empatico ed indubbiamente più credibile come moralista (The Youth); del resto, vista la sua biografia, che intelligentemente parte dal suo singolo caso per andare a toccare i massimi sistemi, è presentata nei suoi diversi aspetti con un'encomiabile modestia (Starvin' Artist) e, più in generale, dopo aver ascoltato Once You Go Blak nella sua interezza si riesce ad avere un'idea ragionevolmente precisa del percorso del Nostro sia come artista che come individuo. In una simile logica persino canzoni dalla non grande caratura filosofica come Firewater, So Many oppure Tables Turn vanno a giocare un ruolo fondamentale nel dare le ultime pennellate ad un ritratto completo dell'artista. Insomma, possiamo dirci completamente soddisfatti? Purtroppo no, perchè va detto che più della metà dei ritornelli eseguiti da Blak tendono ad essere mediocri/bruttini (Taster's Choice, Friends, Wake Up) se non addirttura atroci (Crazy, So Many); un vero peccato, perchè spesso rovinano canzoni di valore, e difatti non appena fa capolino un sempre benvenuto refrain scratchato non si può non notare quanto sia grande il valore aggiunto.
In quanto a beat, che dire? La prima cosa che balza all'orecchio è l'ottima alternanza tra beat pestoni, melodie orecchiabili ed atmosfere rilassanti: varietà, questa, ovviamente proposta non solo dalla sezione ritmica ma soprattutto dalla diversa natura dei campioni. Wake Up riprende il bel campione adoperato in Loyalty dei Screwball e pur essendo grossomodo tagliato nelle stesse parti gli conferisce una nuova freschezza grazie anche le batterie meno regolari; per converso, il soul trasuda in tutta la sua purezza dalle note di Friends -vivaddio non per via del consueto abuso del pitch ma grazie ad un intelligente taglio del campione- e stupsce che sia sempre il solito Jay Ski l'autore dell'eterea (e secondo me stupenda) Crazy, il cui unico difetto è quello di ricordare l'altrettanto se non più valida Zen Approach di Black Tought e DJ Krush (una e due, ditemi se ho torto). Giustamente, però, quando si tratta di flettere i muscoli in termini di puro stile, ritmo e mood si fanno be diversi rispetto a cose non intrusive come The Youth o Economix: Taster's Choice mescola trombe e note basse di piano in maniera non dissimile dal suono dei Dilated Peoples di quegli anni, mentre Tables Turn combina magnificamente una linea di basso eccezionale con singole note di piano elettrico e soprattutto un campione di chitarra elettrica di raro gusto. Uniche note dissonanti sono secondo me So Many e No Coast All Stars (peccato per quest'ultima, perchè vengono sprecate due ottime performance di Planet Asia e Obie Trice), ambedue fondate pressoché unicamente su basso e batteria e secondo me tendenti verso un minimalismo-piombo sui coglioni che non s'associa granché bene ad un MC che, come detto, avrà pure molti pregi ma di certo non trasuda carisma dalla sola voce. Con un Bumpy Knuckles ancora ancora, ma Blak... 'nzomma, anche no.
Comunque sia, qui sto parlando di difetti purtroppo presenti ma non particolarmente gravi: l'unica traccia che davvero avrei lasciato fuori dall'insieme è So Many (insomma, un'idea del personaggio me la facevo anche senza sapere le sue preferenze in termini di fighe), mentre per il resto al limite posso essere dispiaciuto per le piccole stonature che affiorano quà e là. Nonostante questi, infatti, Once You Go Blak è un album che mi ha colpito sotto molti aspetti, tanto che fatico a comprendere i motivi per i quali sia così poco cagato persino tra gli aficionados. In fondo, volendo fare un paragone un po' affettato, mi sembra sostanzialmente una versione fatta con tutti i crismi e con non comune eleganza dei tanti dischi reminescenti dei Native Tongues usciti in questi anni; ma la sua vera particolarità sta nell'approccio meno menoso (e noioso) ed in una maggiore varietà musicale. Si può chiedere di più, allora? Forse sì, ma nell'attesa ciò che già è presente è più che sufficiente per conferire un voto bello alto a questa sorprendente opera. Non dormiteci sopra, come si usava dire nel '98...






Baby Blak - Once You Go Blak

venerdì 19 giugno 2009

MED - PUSH COMES TO SHOVE (Stones Throw, 2005)

[Disclaimer: Alcune delle recensioni incluse in questo blog sono originariamente state pubblicate sul sito Hotmc.com. La ripubblicazione di questo materiale su Rugged Neva Smoove non è in alcun modo dipendente dalla volontà di Hotmc, che per politica editoriale desidera rimanere estranea alle attività di qualunque audioblog supporti il download illegale. La riproposizione degli articoli si riduce a una scelta personale dell'autore di questo blog, nonché autore delle recensioni, che si assume totalmente la responsabilità delle eventuali conseguenze]

Negli ultimi anni, la Stones Throw (fondata nel ’96 da Chris Manak a.k.a. Peanut Butter Wolf) è diventata un emblema di un certo tipo di hip hop sì underground, sì sperimentale, ma non manierista o snobbisticamente pretenzioso. Per fare un paragone scemo, quindi, la si potrebbe definire la Epitaph del rap (ad onor del vero, il rap non è l’unico genere di cui si occupa. Ma il paragone mica è scemo per niente). Tra le sue uscite più rilevanti vanno annotati Madvillainy, Champion Sound, Soundpieces ed altri; mentre tra gli artisti sotto contratto con l’etichetta si possono trovare MF Doom, J Dilla, Percee P, Oh No e –tu guarda che bizzarìa- Madlib.
Un roster ben nutrito, dunque. Così ben nutrito che mi stavo scordando di parlare di Medaphoar, o come ama farsi chiamare di recente, MED. Membro della Oxnard Fam, in passato è apparso su una serie di 12 pollici ed è stato ospitato su altrettanti dischi (ultimo per ordine d’apparizione, su quello del compare Declaime).
Fine del Bignami, passiamo al disco. I produttori, innanzitutto. In prima linea c’è Madlib, che produce tredici tracce sulle diciotto complessive. Poi, con due pezzi ciascuno, figurano J Dilla e l’onnipresente Oh No. Infine, all’orizzonte si profila Just Blaze. Parto da quest’ultimo perché mi pare psicologicamente interessante scoprire se sia valsa la pena (per MED) di vendersi un rene pur di avere una sua produzione sul disco, e, tanto per farla breve, la risposta è “nì”. Intendiamoci: il beat spinge pur restando sul minimalista andante: una batteria uptempo, dei bonghi d’accompagnamento ed un campione funk (+ sintetizzatore nel ritornello), il tutto miscelato ben benino ed ecco una bella base pronta per l’uso. C’è un “ma”. Il “ma” è che quel beat lo usa Medaphoar, che di certo come MC non si distingue particolarmente né per tecnica, né per carisma, né per scrittura. E’ piatto, bravino ma abbastanza insignificante, una specie di Grand Agent californiano. Per cui, sì, siamo tutti d’accordo che in casi come questo devi sceglierti bene le basi per poter avere qualche speranza di essere notato, ma scegliersi Just Blaze vuol dire sopravvalutarsi, semplicemente. Ma mica solo Just Blaze! Il povero MED ha così buon gusto nello scegliersi le basi che s’è tirato la zappa sui piedi, passando da un J Dilla in gran forma (So Real) ad un Madlib altrettanto potente e variegato (Special, Hold Your Breath), e rimbalzando infine ad un Oh No non da meno (Never Give U Up). In pratica, i produttori giocano a ping pong con le palle del poverino, incastrato definitivamente e senza possibilità di scampo tra bassi belli pieni, loop di pianoforte, synth vari e campioni vocali.
Durante l’ascolto del disco, inoltre, alle volte si è presi male dalla scarsa vivacità al microfono del Nostro e ci si chiede perché, già che sa scegliersi così bene i beat, non si sia scelto qualche ospite in grado di spezzare la monotonia. In un caso (Declaime/ Dudley Perkins) la cosa gli riesce; nell’altro, Diamond fa pesare tanto, ma tanto, la differenza tra la rappata “laid back” ed la rappata scassauallera. Quasi mi dispiace dover poi far notare come i ritornelli migliori siano quelli senza MED (Never Gonna Give You Up, Can’t Hold On, Listen 2 This ecc. ecc.), così come si potrebbe apparire carognoni nel sostenere che, le volte che Medaphoar la Belva Umana abbandona il suo solito flow precisino precisino, combina danni quasi irreversibili. E’ il caso di What U In It 4, dove egli non solo massacra il ritornello, ma si scatena in un audace extrabeat infilando una parola dietro l’altra, sputtanando il ritmo dettato dalla base. Un po’ viene da piangere: avrei una lista abbastanza lunga di chi avrei visto bene su questi beat, e invece sticazzi.
Comunque sia, benchè abbia passato una mezz’oretta abbastanza sollazzante a prendere per il culo questo povero cristo, in realtà lo dobbiamo ringraziare. Innanzitutto perché la sua relativa mediocrità si fa sentire solo su queste basi: non è uno scarsone, quindi, non capitemi male. Si lascia ascoltare. Già l’ultimo Declaime era diverso: un cicinin più capace, ma alle volte supportato da beat bruttozzi, cosa che mi faceva immediatamente scattare il dito sul “FF” manco fosse un bel clitoridone turgido. Onore quindi al coraggio e, soprattutto, al suo ottimo gusto, grazie al quale possiamo godere di 51 minuti spaccati di musica di alta qualità, varia quel che basta e dal suono fresho ma non stronzo come piace a noi. Leggero nei contenuti, abbastanza indifferente nel flow, ma molto bello musicalmente. A scanso d'equivoci, lo dichiaro apertamente: m'è piaciuto abbastanza per comprarmelo.

[Heh. Per quanto siano passati ormai quattro anni, le differenze sostanziali che ho nel rapportarmi a questo disco sono una maggiore apertura a determinate sonorità e soprattutto una scrittura più sobria. Basta. In teoria quindi potrei anche non aggiungere nulla, ma dato che più volte mi è capitato di riascoltare Push Comes To Shove, e dato che per un'intera estate ha avuto una presenza fissa in macchina, a casa, nel walkman ecc. direi che c'è qualcosa da aggiungere in merito alla longevità: longevità data principalmente dall'insieme dei beat, che trovo davvero superiore alla media. Da So Real a Special passando per Get Back e Can't Hold On, è evidente che questo disco da un lato sia indubbiamente quello più commerciabile della Stones Throw e dall'altro -più in generale- risulti essere uno dei più "spinti" e musicalmente variegati. Salvo poche sviste, peraltro relativamente gravi, Push Comes To Shove può essere ascoltato dall'inizio alla fine e poi di nuovo dall'inizio.
Insomma, l'aspetto musicale è ancora migliore di come descritto nella recensione del 2005: già solo per questo vi consiglio di non perdervi questo disco. Tant'è vero che in fin dei conti MED, che confermo essere tutto fuorché bravo- scivola in secondo piano fino quasi a diventare un semplice elemento musicale. Certo, ci sono pezzi in cui mostra qualche segno di capacità (vedi So Real), ma nel complesso non ho esitazioni nel definirlo fondamentalmente sullo stesso livello di Guilty Simpson; contrariamente a quest'ultimo, però, perlomeno non risulta invasivo e perciò anche la sua mediocrità non disturba più di tanto.
Ne consegue che, casomai non la conosceste, Push Comes To Shove è l'opera perfetta da ascoltarsi anche quest'estate. Per certi versi eclettico, per altri ricercato, e per altri invece semplicemente spinto, sono convinto che sia il disco della Stones Throw meno passibile di noia per le orecchie di chi non è abituato al sound dell'etichetta di PBW. Un tre e mezzo è il voto oggettivamente corretto, ma se dovessi valutarne anche la longevità potrei forse spingermi ad un quattro.]





LINK RIMOSSO DATO CHE LA STONES THROW HA MINACCIATO DI FARMI IL CULO
LINK REMOVED BECAUSE OF STONES THROW THREATENING ME TO EFF ME THE EFF UP

VIDEO: PUSH

giovedì 18 giugno 2009

PHAROAHE MONCH - INTERNAL AFFAIRS (Rawkus, 1999)

Leggendo i commenti che appaiono sul blog credo di essermi fatto un'idea dell'utenza, o per meglio dire degli habitué, non troppo approssimativa: salvo alcuni pasdaran oltre i trenta ed un paio di miei coetanei, l'età media si aggira intorno ai 20-25 anni. E allora, miei giovani lettori, lasciate che vi snoccioli una perla di infinita saggezza con tono paternalista à la Morgan Freeman: trovate quanto prima il modo di far montagne di soldi senza muovere un muscolo. Purtroppo, ad eccezione del magnaccia, a me finora non è venuto in mente nulla (accetto suggerimenti) e pertanto l'unica cosa utile che possa dirvi è che dal momento in cui trovate un lavoro la gestione del tempo sarà fondamentale. Le poche ore a vostra disposizione andranno spremute in maniera ottimale. Evitate dunque di buttare nel cesso tempo e soldi! Come? E' semplice:
-non andate a vedere Terminator 4. Non importa quanto da sbarbi vi fossero piaciuti il primo ed il secondo, questo è una cagata di proporzioni colossali
-non uscite a bere dopo aver visto Terminator 4, perchè non solo affogare la trishtezza nell'alcol non funziona, ma per di più è possibile che il giorno dopo vi svegliate con un mal di testa incompatibile coi vostri programmi
-se dovete ascoltare musica, sceglietela bene. Evitate ad esempio di appesantirvi con un Mr. Len; tanto sapete che, visto il mal di testa che vi perseguita, non vi andrà di ascoltarlo manco per il cazzo. Puntate piuttosto su numeri sicuri come il solista di Pharoahe Monch. Il primo, però, Internal Affairs. Sfiga vuole che questo sia ormai fuori stampa da tempo immemore a causa di problemi legali legati al campione di Simon Says, per cui l'unico modo di reperirlo è pagarlo cifre ridicole su internet oppure -più prosaicamente- scaricarlo. Ed è qui che entro in gioco io, con come al solito una bella recensione d'accompagnamento.
Comincio col dire che nella remota eventualità che non lo conosciate già, esso fortunatamente non ha nulla da spartire col deludente Desire; se quest'ultimo infatti era decisamente più "allegro" e votato all'eterogenia musicale (mortacci sua), Internal Affairs è crudo ed essenziale e propone all'ascoltatore esattamente ciò che questi desidera: il talento di Pharoahe Monch su beat cupi e ruvidi. In quanto uno degli ultimi veri liricisti, Monch è capace di fare numeri al microfono che altri possono solamente sognarsi, e dunque questo Internal Affairs potrebbe quasi essere considerato un faro per chiunque decida di avventurarsi nel mondo del rap serio. Del resto, già dieci anni fa la situazione non era delle più rosee e pertanto, al momento dell'uscita di Internal Affairs, chiunque avesse a cuore questa musica aspettava al varco la prova del Faraone sbavando di fronte alla sola idea di che cosa sarebbero potuti essere almeno quindici beat nelle sue sole mani. Ora, vuoi perchè le aspettative riguardo all'album erano sovrumane, vuoi perchè IA uscì praticamente in contemporanea con Black On Both Sides, fatto sta che vi fu un discreto numero di parzialmente delusi, alcuni dei quali francamente oltre la soglia del ridicolo come coloro che criticavano la sequenza della tracklist (mavaccaghèr).
Tuttavia, a distanza di dieci anni e con le bocce ferme credo che si possa fare un punto della situazione più accurato. Cominciamo col dire che pur mantenendo intatta la sua destrezza, Pharoahe è cambiato dai tempi di Stress: meno estremo per certi versi, qui, più che ripetute rime "a scatola cinese" e metrica serrata, egli favorisce una certa linearità interrotta solamente da pause ed eventuali accelerate o rallentamenti nella dizione. I più esigenti potrebbero trovare questo cambio di registro un po' deludente sulla carta, ma basta ascoltare la prima strofa di Behind Closed Doors per capire che Monch è la solita belva: "My exterior serene with the potential of a killin machine, ex-marine you drag queen, we tag team/ Queens finest the alliance defiant we bag fiends/ The fuck you lookin in my face for nigga?, I mace mics and then lace the bass with figures". Ancora non convinti? Bene, allora ci sono subito Queens e Rape, in cui il Nostro dimostra agli increduli la sua straordinaria bravura pur in contesti diversi: che sia un misto di storytelling/omaggio al proprio quartiere di provenienza o una sorta di concept track (ammetto, di dubbio gusto), la sua dimestichezza con voce e vocabolario si conferma essere quella di sempre. Non a caso, gli ospiti invitati per l'occasione tendono generalmente ad essere quanto più possibile all suo livello: o per carisma (M.O.P., Busta Rhymes) oppure per bravura (Canibus, Talib e Common, Prince Po e gli altri) e pertanto le combinazioni funzionano pressoché sempre, spesso sfociando in risultati tutto fuorchè scontati (vedi The Next Shit o l'ottima The Truth).
Ma per avere effetti così positivi è quasi scontato che vi debbano essere basi all'altezza; ebbene, pur non sfoggiando grandi nomi i risultati soddisfano quasi sempre le necessità. L'uomo dietro alla maggioranza dei beat risponde al nome di Lee Stone e senz'altro dimostra un buon affiatamento col Nostro, il quale a sua volta si dà da fare in un paio d'occasioni al campionatore per lasciare infine lo spazio residuo a Diamond D, DJ Scratch e Alchemist. A prescindere però dagli autori, il sound è compattamente nuiorchese e le influenze più tipicamente rawkussiane si sentono parecchio: il minimalismo regna supremo, dunque, e solo in rare occasioni si può scorgere una traccia di melodia orecchiabile. Svettano per bellezza The Truth, dal piglio orchestrale ed etereo allo stesso tempo, God Send, Queens (che rimanda il pensiero al migliore No I.D., non quello di Death Of Autotune) e ovviamente Simon Says. Le restanti sono comunque decisamente sopra alla media, per cui non si può dire che abbiamo a che fare con il solito disco rap di cui salvi quattro canzoni ed il resto lo butti nel cesso.
Casomai, uno dei difetti può essere dato dal fatto che tutto sommato i beat sono talvolta un po' generici; ma non nel senso che peccano di originalità o altro, semplicemente che una The Light o una Official sarebbero potute andare benissimo anche per un disco di Kweli o uno di Mos Def (e, per dire, The Next Shit ospita Busta Rhymes ma sembra essere fatta per Busta). Per carità: non facciamone un dramma, però sarebbe stato più interessante sentire Pharoahe su cose costruite ad hoc per la sua metrica e che magari lo ingabbiassero un po' meno (impressione, questa, che invece sporadicamente si ha). Sul versante lirico, invece, la critica che si può muovere al Nostro è di non aver dimostrato chissà quale inventiva in termini di concettualità: voglio dire che del (co)autore di cose come Stray Bullet o In Vetro qui si scorge poco, e mentre il lato più da battaglia emerge prepotentemente un po' spiace che alla fin fine i pezzi impegnati in fin dei conti si facciano notare più per l'esposizione che per l'idea.
Tolto ciò, Internal Affairs resta comunque un disco più che buono, com'era del resto quasi ovvio. Forse ciò che delude è la sua mancanza di eccezionalità, il suo non aver saputo essere storico e d'impatto come un po' tutti noi avremmo voluto che fosse. Ma inutile trasformare le aspettative deluse in note di biasimo: godiamoci quest'album per quello che è, e scusate se è poco.





Pharoahe Monch - Internal Affairs

VIDEO: THE LIGHT