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venerdì 26 giugno 2009

TREE CITY & BLACK MILK - BLACK TREES (Free Download, 2008)

Visto che oggi sono in vena (e in ufficio non ho un cazzo da fare), prima di lasciarvi al weekend vi propongo un altro prodotto che vede coinvolto Black Milk e che probabilmente potrebbe esservi sfuggito. Anzi, molto probabilmente sono mesi che vi sfugge; ma non è grave, del resto è anche così che giustifico la mia esistenza. Cominciamo comunque con un lavoro di fantasia.
Dunque: se avete un'idea di massima dei rapper di Detroit avrete ben presente che grossomodo vi sono tracce di stile comuni a tutti loro, sia nella metrica che nelle tecniche d'esposizione (giocano parecchio con la voce e con i tempi d'entrata). Questa ovviamente si associa molto bene con il genere di produzioni su cui si trovano a rappare sopra ed è raro che mi venga in mente di chieder loro di più; tuttavia, ogni tanto mi sono chiesto come potrebbe suonare una rappata più classicamente nuoiorchese su un beat di -dico un nome a caso- Black Milk. Bene, ecco a voi i Tree City. Originari di Ann Harbor, che suppongo essere un buco di culo di paese del Michigan, il quartetto prende il loro nome dal soprannome della città; quando l'anno scorso Black Milk pubblicò gratuitamente il suo Music From The Color Purple, una collezione di beat basati su campioni tratti da Purple Rain e disponibile per il download gratuito, i quattro simpatici guasconi decisero di farne buon uso rappandoci sopra. E se l'idea non fu di certo originale, a rendere speciale il progetto fu l'approvazione di Black Milk stesso, che poté sentire il risultato e li sponsorizzò dando loro -come dicono oltreoceano- il tanto agognato co-sign.
Ora, devo ammettere di non essere mai stato un grande fan di Prince. Come tutti, conoscerò sì e no i suoi venti pezzi più famosi e bòn, ma per fortuna questo tipo di nozionistica non è qui richiesta: Milk infatti ha provveduto ad apporre circa tre-cinque secondi del pezzo originale in appendice ad ogni beat, cosicché non solo risulti più semplice l'identificazione del campione (cosa rischiosa da fare con Prince, oltretutto) ma soprattutto che sia possibile riconoscere il lavoro svolto con esso. E sebbene non me la senta di dire che tutte le basi raggiungano vette qualitative inarrivabili, almeno metà di esse hanno più che sufficiente forza per poter essere messe accanto alle migliori cose prodotte fino a quel momento dal Nostro. Tra di esse figurano senz'altro Headnod Gospel, Outta Town, Jungle King, Me > Them e la migliore di tutte, Open Your Eyes, in cui i rimandi allo stile degli Ummah di fine anni '90 sono ben più di una semplice influenza ma appaiono come un palese omaggio.
Un'altra cosa, sempre riguardo ai beat: non solo c'è la qualità (credo che chiunque sarebbe ben felice di avere simili strumentli per il proprio disco), l'inventiva e l'abilità ma anche la resa. Mi spiego meglio: qualcuno di voi potrà pensare che in quanto materiale gratutio, la qualità sonora sia appena passabile; invece non è affatto così, e per quanto si possa notare che non vi è stato un processo di postproduzione in uno studio da trentamila dollari al giorno, vorrei ricordarvi che Black Milk è un ottimo fonico (le sue robe se le mixa da solo, per dire) e perciò quando cade il rullante sulla base, ve lo garantisco, si sente. In breve: non un capolavoro, ma come progetto non solo regge meglio del 99% delle operazioni di questo tipo (vi ricordate Q-Unit? Mioddìo) bensì riesce a collocarsi quantomeno all'altezza di Popular Demand. E pensare che nasce come poco più di un promo...
Quanto ai Tree City, invece, non so dirvi molto: non conoscendo i nomi dei membri, e non essendo loro autopromozionali come molti loro colleghi, non saprei dire chi è chi. Ho notato però che vi sono due di essi particolarmente agili con le parole, di cui uno ha la voce simile a Panchi degli NYG'z e l'altro, invece, acusticamente ha lo stesso tono di Dre degli Outkast mentre la metrica prende evidente ispirazione dal Nas di Illmatic (e in parte Elzhi, ma avendo anch'egli Nasir come uno dei referenti non saprei se contarlo o meno). I restanti membri sono comunque bravini [edit: uno sembra Percee P] ma devono ancora perfezionare alcuni aspetti o, per meglio dire, più aspetti che non "Panchi2" e "Andre2"; e se in generale si nota che manca ancora un po' il rodaggio (stilisticamente s'assomigliano davvero molto) devo ammettere di essere rimasto favorevolmente impressionato dalla competenza dei tree City e dall'impegno dimostrato non solo nello scrivere le rime, gestirsi i passaggi di microfono eccetera ma anche nella stesura dei testi. Testi che, certo, perlopiù viaggiano sul sentiero già noto del braggadocio misto all'amore per l'hip hop ma che spesso contengono alcune chicche di levatura intellettuale davvero niente male.
Che dire? Onestamente, se mi chiedessero 15€ per questo progetto io glieli darei anche: è proprio un bel disco sul quale non ho nulla di grave da dire. Qualità oscillante in certi casi e forse un po' troppo ispirazione presa da Elzhi e Royce, ma non me la sento di fustigarli. Averne, di materiale così. Ricordo a tutti voi (che possedete un account) di passare sul loro Myspace per lasciare un complimento, e speriamo proseguano a far musica (P.S.: la grafica l'ho fatta al volo io in quanto l'originale ne è sprovvisto, chissà perché).





Tree City & Black Milk - Black Trees
Grafica Black Trees

VIDEO: HEADNOD GOSPEL

BLACK MILK - POPULAR DEMAND (Fat Beats, 2007)

Com'è facilmente prevedibile, io non sono un grande fan della techno in nessuna delle sue forme; non sto qui a spiegarne i motivi, molto semplicemente non mi piace. Tuttavia, un po' come mi succede con il metal, pur non aggradandomi in nessuna maniera provo un'inspiegabile simpatia verso di essa e soprattutto reputo la sua storia assai interessante. Non per ultima c'è la cosa più importante, ovverosia la mia ferrea convinzione che essa abbia influenzato -vuoi anche solo in maniera impercettibile- sia Dilla che Black Milk nonché, di conseguenza, il sound contemporaneo dell'hip hop di Detroit e se così davvero fosse (non ho purtroppo la conoscenza musicale per dimostrarlo su basi empriche) credo che le dovrei essere grato vita natural durante. Dopo l'uscita di Tronic questa mia convinzione si è rafforzata, ma devo dire che la nascita di questa è dovuta all'ascolto del suo primo disco solista: Popular Demand.
Prima di esso, Black Milk era infatti considerato solamente un buon produttore oppure, nei giudizi più estremi, una sorta di Jay Dee a scartamento ridotto; un giudizio dovuto principalmente al semplice fatto di aver sostituito (assieme al collega Young RJ) quest'ultimo a partire da Detroit Deli e che in realtà ha ben poco a che vedere con l'effettiva produzione musicale. Infatti, se si vanno a fare paragoni tra i due, si possono indubbiamente scoprire elementi in comune, ma altrettanto indubbiamente se ne scoprono altri discordanti: nel taglio dei campioni, nel mixaggio, nel rapporto di contrappesi tra batterie e basso eccetera eccetera. Del resto, se così non fosse, lo sviluppo del sound di Black Milk non lo avrebbe portato a Tronic bensì a Ruff Draft, giusto?
Tuttavia ho gioco facile a sostenere questa tesi nel 2009. Devo infatti ammettere che ascoltando Popular Demand in alcuni casi il pensiero non può non correre a Dilla, complice prima fra tutti l'atmosfera soul ed una minore propensione verso la sofisticata elaborazione delle batterie che si può respirare negli oltre 70 minuti di musica che ci vengono qui offerti. Contrariamente a Tronic, che è un'opera personalissima in tutto e per tutto, qui vi sono momenti in cui l'ombra del Maestro si fa notare; si tratta sempre di influenze e non di plagio e sovente ciò si traduce comunque in buona musica, però non si può nascondere quel quid di Yancey che permea Sound The Alarm o Lookatusnow (solo per citarne due). Fortunatamente, però, Milk è decisamente un miglior MC di JayDee (e di molti suoi colleghi produttori-MC, se è per questo) e ciò permette ad un'opera come Popular Demand di reggere egregiamente la propria lunghezza, a condizione che non ci si aspettino le performance di un Elzhi ma ci si sappia accontentare di tematiche tutto sommato frivole e presentate con uno stile che si fonda più sul carisma che non sulla tecnica vera e propria.
Fin dall'inizio egli non fa mistero delle sue aspirazioni e della sua visione artistica: "I’m underground, but don’t get it twisted, man, I’m in the range and I’m thinkin’ bout that Escalade/ We like a little platinum on a chain, on a ring, I’m from the city of the gators, dog, what you think?/ 'Cause I don’t walk with no backpack on don’t put me a box, dawg, we do it all/ You can catch me in the club from the window to the wall". Grossomodo, anche la tara dei suoi argomenti si attesta su questi livelli: in altre parole, non aspettatevi raffinate concept track o grandi storytelling perché da questo punto di vista Popular Demand è quanto di più tradizionale (volendo anche manieristico) vi possa essere; diciamo che lui ama trombare (shocker!), bere, fumare, andare nei club e tutte quelle cose lì, senonché ci usa la cortesia di corredare questa gragnuola di ovvietà con un flow accettabile (anche se esageratamente fondato su pause, enunciazione e toni vocali) che contribuisce a rendere il tutto piacevole ed ascoltabile. In fondo il suo miglior pregio è questo e, francamente, non intendo perdere altro tempo su un argomento così sterile se non per menzionare dei featuring che pur non provenendo da dei mostri sacri risultano d'impatto: Slum Village e Baatin (ma mica ne faceva parte? Boh) su tutti, ma anche Phat Kat e Guity Simpson conferiscono un valore aggiunto non indifferente ai pezzi che li vedono ospiti.
Non a caso, sono proprio questi gli elementi più efficaci di Popular Demand: Sound The Alarm, il singolo, gode di una linea di basso continua, stilisticamente collocabile a metà tra la Bomb Squad e Dilla, che viene sostenuta da delle batterie regolari ma opportunatamente "sporche" e che rendono l'insieme una bomba, complici anche le prestazioni sopra la media di Milk e Simpson. La posse cut Action è invece il contrafforte della precedente canzone, in cui si nota molto più la componente soul del disco; ammetto che in sè il beat non suona fresco come ci si aspetterebbe, ma la sua relativa prevedibilità viene ampiamente compensata da un buon gusto nella scelta e nell'uso del campione. Ma oltre a queste vanno evidenziati altre pezzucci non esattamente da nulla. Insane, ad esempio, in cui il nostro si sbizzarrisce con le batterie nel modo che abbiamo imparato ad amare; oppure la bonus track Keep it Live, in cui scorgo addirittura echi del Wu-Tang di fine millennio; infine, le più tradizionali ma enormememente orecchiabili Lookatusnow, Say Something (in odore di 50 Cent di suo e per di più con un ritornello inequivocabile), One Song e Shut It Down. Queste ultime tre rappresentano l'animo più derivativo di Black Milk, è vero, ma bisogna riconoscere che sanno comunque trasmettere una sensazione di blaxploitation in maniera nient'affatto scontata, contrariamente a ciò che avviene con i molti che pescano a piene mani nel catalogo Stax e Motown.
Sfortunatamente, però, Popular Demand non è tutto rose e fiori. Innanzitutto alle volte Black Milk rappa cose asinine e in maniera così asinina da risultare irritante. E nel complesso, non si può nascondere una certa monotonia e ridondanza contenutistica, purtroppo non risollevata da alcun tipo di inventiva o humor; detta in modi più spicci, egli avrebbe fatto meglio a lavorare di forbice per ridurre la lunghezza del disco. Lo stesso dicasi per certi beat come U, So Gone o Watch 'Em: definirli privi d'inventiva sarebbe eufemistico ma, ben più grave, il problema è che sono di una genericità imperdonabile per uno come Milk. Li ascolti ed oltre a non lasciarti nulla ti fanno interrogare se quello che stai sentendo sia veramente il lavoro di uno che aspira(va, nel frattempo lo è diventato) a divenire un punto di riferimento per il sound di Detroit.
A conti fatti, quindi, possiamo annotare due cose. La prima è spiacevole e consiste nel dover inquadrare questo esordio nella fascia alta dei prodotti validi, e nel fare questo reputo legittimo tenere conto di una parziale delusione. Insomma, se alcuni di questi beat risultano inferiori alle tue stesse cose del 2004, beh, vuol dire che non ti sei sbattuto abbastanza e ciò, per quel che mi riguarda, è alquanto sgradevole specie se devo tener conto delle legittime aspettative nutrite fino a quel momento. La seconda cosa, invece, è una sorta di rovescio della medaglia: complice un esordio non brillante o perlomeno non all'altezza della sua reputazione, nell'arco di un anno Black Milk ha saputo produrre quel capolavoro che è Tronic. Ma siccome non posso certo tener conto di questa nota positiva nel momento in cui devo esprimere un voto, ecco che alla fin fine Popular Demand si becca un severo tre e mezzo.





Black Milk - Popular Demand
Black Milk - Broken Wax Instrumentals

VIDEO: SOUND THE ALARM

mercoledì 14 gennaio 2009

BLACK MILK - TRONIC (Fat Beats, 2008)

[N.B. Scusate se la scansione fa cacare, ma essendo il digipack stampato perlopiù in lamina argentata esso riflette la luce dello scanner. Ad ogni modo il packaging è potente, credete a me, QUI si capisce meglio]

Per un tradizionalista come me è generalmente difficile accettare grosse sterzate stilistiche da parte di artisti che apprezzo, e questo è specialmente vero nel caso del rap, dove spesso e volentieri un cambio di rotta va a tradursi o in un semplice e talvolta fallimentare ammiccamento alle tendenze del momento, o in una ciofeca pura e semplice. In altre parole, è estremamente raro che qualcuno riesca semplicemente ad evolversi ed al contempo progredire come invece tranquillamente accade in altri generi (cfr. QUI e QUI) e perciò tendo in genere ad avere forti pregiudizi quando leggo di "nuove visioni" o "nuove sonorità" da parte di un artista; il rovescio della medaglia è però abbastanza pesante e si riassume in manierismi di vario genere che possono anche andarmi bene la maggior parte delle volte, ma che di certo non possono essere l'unico piatto di una dieta musicale.
E qui entra in gioco Tronic. Vi confesso che proprio a causa dei timori di cui sopra non mi sono tuffato a comprarlo a scatola chiusa, favorendone piuttosto il download ed una serie di ascolti preventivi; inizialmente non mi piaceva -lo trovavo un po' plasticoso e raffazzonato (pensa te!)- ma durante le vacanze di natale ho finalmente potuto godere della tranquillità necessaria per potergli prestare maggiore attenzione e per poterne assimilare perbenino le sfumature, giungendo infine alla conclusione che questo non solo è un disco eccellente ma è anche il migliore dell'anno appena conclusosi. Vedete, di evoluzioni e progressi in senso positivo ce ne sono: prendete Hell's Winter di Cage e Piece Of Strange dei Cunninlynguists. La differenza tra questi e Tronic, però, è che Black Milk né compie un'inversione a 180°, né perfeziona il suo stile: grossomodo fa ambedue le cose, andando a pescare campioni da sonorità ben diverse rispetto persino al recente lavoro compiuto per The Preface, limando contestualmente suoni e programmazione delle batterie. Aggiungiamoci che vi inserisce l'utilizzo di strumenti suonati live e che il suo emceeing compie un bel balzo in avanti e, voilà, ecco uno dei pochi casi in cui qualcuno riesce ancora a stupirmi.
E allora, visto lo sforzo da lui compiuto, provo ad imitarlo cominciando la recensione dalla fine: volete sapere qual è l'unico vero neo che sono stato capace di trovare in Tronic? La scaletta delle ultime tre tracce, che sono messe in modo tale per cui prima trovate una strumentale (Tronic Summer), poi un pezzo pressoché di solo cantato (Bond 4 Life), ed infine un'outro anch'essa strumentale. Vorrei far notare però che, per quanto io detesti i cantati in generale, reputo altresì che la qualità dei suddetti pezzi è del tutto all'altezza del resto di Tronic; il problema è semmai che essi, infilati in questa sequenza, rendono l'ultimo quinto del disco skippabile già dal terzo ascolto o quantomeno ne rallentano enormemente il ritmo che, per il resto, è molto equilibrato, come si può notare man mano che si "insiste" nel far girare l'album nel proprio stereo.
L'apertura è dedicata, con una certa logica, alla propria carriera: in Long Story Short Milk decide difatti di fare un riassunto della propria carriera fino a quel momento, e le lodi che da solo si tesse vengono immediatamente ed automaticamente confermate da ciò che si sente. Innanzitutto la sua scrittura è evidentemente migliorata, dato che riesce a conferire una linearità, una chiarezza ed una capacità di coinvolgimento alla sua autobiografia francamente degna di lode; non parliamo poi della sua tecnica che, per quanto magari inferiore ad altri suoi colleghi (Oh No, per esempio, lo trovo più capace), ora non risulta più al traino del beat ma riesce a starci degnamente su. Non lo domina come potrebbero fare altri -vedi più avanti Pharoahe Monch- ma nemmeno lo intralcia, e questo è indubbiamente un pregio. E poi, beh, non scordiamoci che il Nostro nasce come produttore: Long Story Short è una ottima entrée che consente alle nostre orecchie da un lato di riconoscere al volo le sue eccellenti batterie (la cassa suona un po' sporca o lo-fi, come direbbero alcuni, in contrasto con il rullante dal suono adamantino), e dall'altro preannuncia una svolta che già fa capolino nell'incrocio tra l'epicheggiante melodia del Moog ed il suono di un flicorno, affidato per l'occasione al crooner e partner di lunga data Dwele. Svolta, questa, che diventa ancor più evidente nella successiva Bounce: se l'originalissimo titolo dovrebbe far capire che i contenuti ne saranno all'altezza (alias: zero), sappiate però che qui comincia un regno di synth che fortunatamente ben poco a spartire con alcuni dei più esecrabili esperimenti svolti in tal senso. Innanzitutto perchè vengono effettati in modo tale per cui non risultano così orrendamente plasticosi come altrove, e soprattutto perchè più tipi di essi vengono sovrapposti in brevi loop e crescendi di melodia quasi che fossero campioni tagliati; e poi, soprattutto, perchè al contrario di tanta robaccia dirrrty south qui le batterie giocano un ruolo fondamentale e se ne possono apprezzare le varie componenti, dagli schiocchi di dita alle interruzioni per giungere, nuovamente, al modo di equalizzarle caratteristico di Milk.
E questo suo talento di fonico e batterista -spero che dopo l'utilizzo del termine non passi di qui qualche metalluso inviperito- raggiunge uno zenith con il singolo Give The Drummer Sum. Inizialmente, e molto più dell'epigone Sound The Alarm, essa lascia un po' spiazzati per la sua apparente scarnitura e per l'utilizzo nel ritornello di una vocina cazzuta alla Quasimoto; in seguito, però, si cominciano ad apprezzarne tutte le sfumature ed in particolar modo i fiati (tromba, trombone e clarinetto) che entrano nel ritornello per evidenziarlo e "regolare" l'intera composizione. L'emceeing a questo punto inevitabilmente si sposta in secondo piano, e forse nemmeno è così necessario -al contrario della più rilassata Without U, in cui un beat ben più regolare consente a Milk di mostrare il suo dito medio all'intera categoria di hater, leccapiedi e zoccole varie che a suo dire lo importunano ogni singolo giorno della sua vita. E se con Hold It Down pare di tornare ad un suono più smaccatamente elettronico, Losing Out ci fa tornare ad un certo tipo di campionare vocine pitchatissime che, in tutta onestà, comincio a non sopportare più. Se non fosse per un'eccellente prestazione di Royce The 5'9'' reputerei questa come la canzone tecnicamente meno riuscita in tutto Tronic, e pertanto posso solo essere contento che il piglio futurista (ovviamente non in senso di movimento artistico) torni a far capolino con l'eccellente Hell Yeah. Di primo acchito un semplice ammasso di suoni, essa è in realtà un'ottima sintesi di come il Nostro riesca a tirar fuori dalla sua strumentazione delle atmosfere che non si spingono esclusivamente nell'area del bounce: difatti questa potrebbe provenire dalla colonna sonora di qualche film di fantascienza a sfondo distopico, dato che la sua angosciante melodia e l'incessante accompagnamento di batteria non stonerebbero in un eventuale remake di Blade Runner. Lo stesso giudizio si potrebbe esprimere per The Matrix, e non solo per via del titolo: nemmeno essa si fa notare per un'allegria delle atmosfere e, per quanto più regolare e "calma" i suoi synth paiono un incrocio stilistico tra Vangelis e Giorgio Moroder. Aggiungiamoci poi che al microfono Milk viene accompagnato da Sean Price e Pharoahe Monch con due gran belle strofe, che il ritornello è affidato al taglia e cuci di Premier, ed ecco che un altro bel pezzone (seppur onestamente inferiore alla somma delle parti) va ad aggiungersi alla lista. Ultima curiosità: tralasciando le ultime tre tracce, fa sorridere il fatto che l'unico pezzo in cui il Nostro campiona del soul (Try) presenti perfino delle sue SCUSE per averlo fatto; decisamente delle scuse non necessarie, visto l'eccellente lavoro svolto coi suoi bravi Rhode, Moog e chi più ne ha più ne metta.
E allora, riassumendo, mi preme sottolineare un po' di cose. La prima è che Tronic è superiore al pur validissmo Popular Demand per almeno due motivi: dimostra una maturazione sia nell'emceeing che nella capacità di beatmaker. La seconda cosa riguarda invece Black Milk come artista, che con Tronic progredisce notevolmente ed appunto comincia ad uscire dall'ombra di Dilla che in molti -per me esagerando- vedevano sopra la sua testa. La terza è che il suono di Detroit, di per sè già molto particolare e a parer mio originale negli intenti come nei risultati, grazie a quest'album trova un nuovo spiraglio di evoluzione. E scusate se è poco. Un acquisto obbligatorio, dunque e, date retta: tronic va assimilato con la dovuta attenzione e la dovuta calma perché, come in molti casi di dischi storici, i suoi pregi si fanno notare con un effetto valanga il cui principale vantaggio è poi di conferire una notevole longevità al prodotto nel suo insieme. Peccato solo non poter ibridare il valore lirico di Preface con i suoni di Tronic, perchè non ho remore a dire che quello sarebbe un classico istantaneo. Così com'è preferisco non sbilanciarmi e darlo a 4 e 1/2, ma sappiate che se proprio doveste scegliere tra i due, io vi consiglio il lavoro di Black Milk.




Black Milk - Tronic

VIDEO: GIVE THE DRUMMER SUM