martedì 29 luglio 2008

FAT JOE - JEALOUS ONE'S ENVY (Relativity/Violator 1995)

Quando oggi sono andato a controllare l'andamento del torneo fuffa su chi è il miglior MC vivente, inizialmente mi è venuta la tristezza a vedere Fat Joe eclissato da 50 Cent. Per carità, l'ultima volta che Fat Joe diede alle stampe un album veramente valido -e non considero tali J.O.S.E. o Loyalty- io andavo ancora al liceo, però comunque gli resto piuttosto affezionato e ciò principalmente grazie a Jealous One's Envy (figurarsi che mi ricordo persino che il giorno in cui lo comprai venni colpito da un temporalone estivo... mi chiedo se questo tipo di memoria non renda un tantinello ricchione).
Rispetto infatti all'odierno curriculum di porcherie create con l'ausilio di idioti come DJ Khaled così come da solo, vi fu un tempo in cui l'obesone portoricano riusciva a creare album degni di ascolto. Ma se il suo esordio era tanto interessante come beat quanto risibile in termini di rime, col seguito egli riuscì secondo me a creare un efficace connubio tra beat di indubbia efficace ed il suo pur non esaltante flow. Aggiungiamoci poi un paio di ospiti piazzati strategicamente quà e là e avremo un disco che, per quanto non certamente imprescindibile, ancor'oggi può regalare generali soddisfazioni nonché materiale di qualità per le proprie escursioni a piedi per la città.
Per esempio, l'introduttiva Bronx Tale vede un ottimo KRS One fare da spalla al Grasso Giuseppe in modo tale che questo si sforzi di tirare fuori il meglio di sè; contrariamente però a quanto ci si possa aspettare, non si tratta di un pezzo in cui i due se la contan su riguardo al loro quartiere in maniera creativa. No, si tratta "solo" di un'esibizione di stile da parte dei due; ma chi dovesse pensare male di ciò non solo dovrebbe ascoltare effettivamente le rispettive prestazioni ma, soprattutto, dovrebbe provare a tener ferma la testa mentre Diamond D fa girare ad libitum le prime battute di Shoreline Drive e nel ritornello entrano dei cut tratti da Come Clean e Ill Street Blues: se ci riuscisse, beh, allora gli suggerirei di correre a comprare l'ultimo Lupe Fiasco. Non siete ancora convinti? E allora provate a dare una chance a cosine da nulla come Success, che tra i plumbei "campanellini" di Domingo e memorabili uscite di Joe ("For every shell that fell there's a story to tell") non lascia spazio a dubbi sulla sua bontà; oppure, ancora, il modo in cui L.E.S. stravolge la übermelensa All I Ask Of You per creare Fat Joe's In Town non lascia dubbi sul taglio hardcore dell'intero progetto; del resto, Barry White non aveva mai avuto un suono più pesante che in Part Deux, e pure l'eccellente lavoro nella scelta del campione fatto da Premier per il remix di Shit Is Real consente a Giovannino di esprimersi al top delle sue potenzialità ("can't afford a gold chain so you wear gold fronts", idolo). Ovviamente, lo ripeto, lui non è che sia tutta 'sta bomba di rapper, però diciamo che in questo album risulta quantomeno competente e senz'altro credibile; purtroppo, ciò non può bastare quando ad ergersi a mo' di metro giudizio ci sono personaggini come il già citato KRS One o l'allora emergente Big Pun, che ruba lo show al protagonista con una gran bella strofa in Watch Out: "I doom the world like I was God and throw my gun away/ Then snatch the moon out the sky and blow the sun away/ Me and my brothers play hardball, strictly hardcore, lyrics 'till I'm finished breakin god's laws/ My job's raw but I gotta do it, I'm feelin high and buddh'ed so you might get shot and lose a lotta fluid". Un indicatore per quello che ci avrebbe colpito due anni dopo con lo storico Capital Punishment? Ah, senz'altro.
Purtroppo è anche vero che un altrettanto valido indicatore per le ignobili fetecchie che ci sarebbero toccate SEI anni dopolo possiamo trovare nel "radio joint" di turno, Envy, che suca in maniera disgustosa Marvin Gaye e la sua Sexual Healing e ci spiattella su l'immancabile no-name-r&b-beeeyotch di quegli anni. Beh, perlomeno il testo non raggiunge abissi di insondabile squallore come le successive Make It Rain o, che ne so, Lean Back -però vi garantisco che nel contesto di Jealous One's Envy uno non avrebbe disdegnato piuttosto qualcosa di più Cage-iano, tipo quattro minuti e mezzo di rumori naturali di Fat Joe stesso. Dal lato converso troviamo il premierano remix di Success, ultrahardcore e ultrainutile, e poi qualche altra cosa un po' meno eccitante come Dedication o Say Word, che non tolgono nulla al piacere dell'ascolto ma nemmeno fanno un granchè per migliorarlo.
Come s'è visto, dunque, non abbiamo tra le mani un classico perso tra le pieghe della memoria; quello che c'è è un bel spaccato del suono nuiorchese in chiave ghettusa di metà anni '90, con alcune vere perle ed altre meno convincenti ma indubbiamente degne. Il difetto maggiore di Jealous One's Envy sta però purtroppo nello sbilanciamento di qualità: sorvolando sulla pacchiana Envy, è inutile nascondere il fatto che la vera carica del disco sta nei primi sei pezzi, mentre via via che si procede verso la fine si ha l'impressione di tracce assemblate tanto per (anche se Bronx Keeps Creating It con me vince anche solo grazie all'uso dell'intero loop di Holy Thursday), nelle quali oltre a beat meno d'impatto si fa vivo il dubbio che il Nostro paffuto eroe non abbia un granché da dire. In conclusione, che gli do? Tre e mezzo o quattro? Facciamo così: oggettivamente Jealous One's Envy sarebbe da tre e mezzo (sempre per la solita storia della contestualizzazione storica) e quindi eccoli qua, ma siccome sono un sentimentalone sappiate che per me è da quattro. Abbiate pazienza.





Fat Joe - Jealous One's Envy

VIDEO: THE SHIT IS REAL (DJ PREMIER RMX)

lunedì 28 luglio 2008

THE ROOTS - THE GAME THEORY (Def Jam, 2006)

I Roots sono un gruppo/collettivo che nel corso degli anni si è dimostrato innovatore sotto diversi aspetti, primo fra tutti quello di usare regolarmente strumentazione live per la prima volta dopo anni di ricorso a campionatori, drum machine e quant'altro; poi, non si può certamente scordare l'utilizzo di internet a mo' di comunità/punto di contatto (funzionante) tra fan ed artisti così fortemente promosso dal batterista ?uestlove mediante il suo okayplayer.com; o ancora, e poi la smetto, il loro incrociare i diversi percorsi artistici di gente diversa come Beanie Siegel, Mad Skillz, Common e Jay Dee mantenendo inalterata la formule che li ha resi artisti di successo fin dal secondo album: la libertà d'espressione artistica.
Da queste righe qualcuno potrebbe presumere che io sia un fan accanito del gruppo di Philadelphia, pronto a venerare qualsiasi cosa da loro promossa così come prono a disperarsi se ?uestlove esprime opinioni non in linea con la mia (cfr. la sua geremiade simil-antirazzista che un par d'anni fa comportò tanti spargimenti di lacrime tra i fan italiani). In realtà non è così; negli anni ho seguito i Roots con un certo interesse, riconoscendo loro tutti i meriti di cui al primo paragrafo e valutandoli oggettivamente artisti con le palle, salvo però giungere alla conclusione che il loro unico album che davvero mi piace dall'inizio alla fine è Illadelphalflife. Proprio per questo non avrei alcun alcun problema a dire che Rising Down è un'opera relativamente mediocre e non troppo dissimile negli esiti da Tipping Point, e dal versante opposto non potrei e non posso astenermi dal dire che questo Game Theory è un disco eccezionale in sè e per sè oltreché la loro opera migliore dal 1996 ad oggi.
Non fatevi spaventare dalla brevità del lavoro (47 minuti scarsi), vi posso garantire che quà dentro c'è più materiale a cui ispirarsi che nell'intera discografia di Common Sense, a partire da un Black Thought rinvigorito nella forma e nei contenuti per passare alla resurrezione di Malik B (che credo avesse passato qualche tempo in galera, ma non vorrei sbagliare), giungendo infine ad una varietà musicale ed atmosferica encomiabile persino se valutata secondo i canoni rootsiani. In quest'ordine, la prima cosa da approfondire è il frontman e la sua evoluzione: tecnicamente è da sempre un mostro di bravura, ma per questo album pare avere lasciato libere le briglia della sua aggressività riproducendo così la stessa differenza che poteva passare tra il Big Daddy Kane di Ain't No Half-Steppin' e quello di Raw: sempre valido, per carità, ma il secondo lascia(va) a bocca aperta. In più, per l'occasione egli ha finalmente fornito del materiale per il quale il comun sentire che lo ha immotivatamente distinto negli anni come uno "conscious" riesce a trovare conferma nei fatti; certamente il Nostro ci ricorda sporadicamente quanto sia bravo, ma per il resto la sua vena di critica sociale è allo zenith assoluto, dedicando all'argomento un'intera canzone (Don't Feel Right) ma soprattutto riempiendo le altre canzoni di piccole osservazioni che lasciano intuire una visione complessiva piuttosto ben definita e coerente. Ora, con questo non voglio dire che questo sia un disco pieno di perle da cogliere come fossero pomi di saggezza, però rispetto al passato (in particolar modo rispetto a Tipping Point e Phrenology) i suoi pensieri sono più focalizzati e meno frammentati.
Ma va da sè che senza un adeguato contraltare musicale persino le migliori elucubrazioni messe in rime non andrebbero da nessuna parte, e qui entra in gioco l'eccellente produzione di Game Theory, curata interamente dagli stessi Roots ad eccezione dell'ottima Can't Stop This di J Dilla. Innanzitutto va lodata la postproduzione che, come ad ogni disco dei Roots, è a livelli eccelsi e ci si può solo immaginare il tempo dedicato da ?uestlove & soci a ripulire, filtrare ed equalizzare ogni singola cassa, voce o nota di pianoforte: uno sforzo che non va sottovalutato e che effettivamente, di fronte a beat così belli, amplifica l'esito positivo del tutto e mostra ancora una volta la professionalità del gruppo. Detto questo, però, ad affascinare possono essere sia l'imponente rullante di In The Music ed il minaccioso crecendo melodico che l'accompagna (pezzo migliore dell'album?) che la bella commistione di piano, lamenti soul e bella batteria di Don't Feel Right; oppure, ancora, le atmosfere eteree di Clock With No Hands e Take It There... qualsiasi cosa, insomma. Chiedete e vi sarà dato, diceva quello. E ciò che apprezzo particolarmente è che in Game Theory i Nostri non se la giocano con l'ambiguità della sperimentazione, fatta per dimostrare quanto essi siano eclettici e quindi per attirare a sè i gonzi in ricerca di uno status di figaccioneria musicale; no, i Roots variano il loro repertorio pur rimanendo ancorati alle radici dell'hip hop e quindi lasciandosi contagiare dai suoni che l'hanno preceduto senza snaturarli ma semplicemente plasmandoli di traccia in traccia.
Che posso dire d'altro? Il passaggio da Geffen a Def Jam ha segnato per i Roots un periodo forse non molto fortunato in quanto a vendite e promozione, però li ha senz'altro invigoriti nel suono e ciò ha portato, in ultima analisi, ad un disco eccellente che dovrebbe stare nella collezione di chiunque segua la musica in generale. Peccato solo che Rising Down non sia all'altezza del predecessore, ma questa è un'altra storia...





The Roots - The Game Theory

VIDEO: IN THE MUSIC b/w HERE I COME & DON'T FEEL RIGHT

martedì 22 luglio 2008

JERU THE DAMAJA - WRATH OF THE MATH (Payday/FFRR, 1996)

Nella memoria collettiva dei nostalgici degli anni '90 il nome di Jeru The Damaja viene automaticamente associato a The Sun Rises In The East e alla storica Come Clean, le quali contribuirono -assieme a Illmatic, Enter The Wu e Ready To Die- a riportare New York sulla cresta dell'onda dopo la carestia di notorietà dovuta all'esplosione del g-funk losangelino. Purtroppo, ho però l'impressione che la magnificenza del suddetto disco determinò altresì un oscuramento del suo successore: essendo stato ristampato Wrath Of The Math proprio in questi giorni, quale migliore occasione per parlarne e cercare in qualche modo di farne vendere qualche copia, seppur in ritardo di dodici anni?
Incomincio dalle cose facili: l'intero album è prodotto da Premier. E vorrei sottolineare l'ovvio: era un Premier in stato di grazia, era quello che tra il '94 ed il '98 ci donava perle come Livin' Proof e Moment Of Truth come se nulla fosse. Naturale dunque aspettarsi grandi cose in termini di beat, e difatti va detto che non c'è un unico pezzo che sia meno che "potente", con alcune vere bombe piazzate strategicamente quà e là. Riascoltarlo oggi fa impressione, un po' perchè torna in mente quanto fosse ruvido l'hardcore di allora, e un po' perchè dimostra purtroppo quanto Primo si sia fossilizzato negli ultimi anni su un unico modo di produzione. In Wrath Of The Math, infatti, possiamo sì ascoltare dei campioni tagliati e delle batterie inadatte a woofer dal diametro inferiore ai 20cm, ma la gamma dei campioni e la conseguente ricaduta sulle singole atmosfere è decisamente varia e passa con eleganza dai suoni minacciosi di Not The Average e How I'm Living alla calma di Whateva, senza contare naturalmente la musicalità di una Me Or The Papes o The Frustrated Nigga. Vi dirò di più: per quanto mi riguarda, la produzione nel suo complesso è per me sullo stesso altissimo livello qualitativo di Livin' Proof, compensando l'assenza di singoloni come l'omonima canzone o Supa Star con quattordici pezzi di prim'ordine che solo in due casi (Tha Bullshit, Revenge Of The Prophet) recedono dalla definizione di "ottimo".
Contestualmente, il leitmotiv dell'album è ugualmente ben strutturato attraverso le diverse canzoni; il nemico di Jeru è sempre l'ignoranza nelle sue più svariate forme, ed egli l'individua e la combatte nei modi più diversi. Ad esempio, Tha Bullshit è una sostanziale presa in giro, narrata in prima persona, dei manierismi gangsta-jiggy in auge allora come oggi; in Not Your Average e Me Or The Papes affronta il rapporto con l'altro sesso sottolinenado cosa è per lui una vera donna e cosa, invece, la può rendere degna della definizione "puttana"; lo svilimento dell'hip hop viene poi affrontato in maniera decisa nella celebre Ya Playin' Yaself e in One Day, mentre sprazzi di critica politica-sociale si avvertono in particolar modo in Invasion e Scientifical Madness. Ora, non intendo proseguir oltre in questa lista della spesa perchè reputo che sia noioso per voi oltre che per me, e pertanto chiudo dicendo che il Jeru che possiamo sentire in questo disco è senz'altro un personaggio interessante con molte cose da dire (tra cui un paio di diss nemmeno troppo velati ai Fugees -in risposta a quanto disse di lui Pras in Zealots- oltreché a Puffy, Foxy Brown eccetera), e che l'esposizione delle sue idee riesce a risultare all'altezza delle stesse. Difatti, al di là della linearità dei ragionamenti, ad aiutare il Nostro sono, oltre ovviamente ad una buona tecnica, un vocabolario piuttosto ampio ed un carisma innegabile che si manifesta sia tramite le rime che attraverso la sua voce da oratore.
Devo dire che sono profondamente dispiaciuto di non essere riuscito a scrivere più su questo disco, e non vorrei pertanto che il mio apprezzamento nei suoi confronti venisse sottovalutato. D'altronde, dopo dodici anni di "conoscenza" mi viene difficile saltarmene fuori con l'entusiasmo che pure meriterebbe (e all'epoca ebbe); ad ogni buon conto, onde evitare equivoci metto nero su bianco che Wrath Of The Math è una delle perle dimenticate di metà anni '90 nonché uno dei migliori esempi del talento di Premier. Imprescindibile dunque -se non possederlo- almeno conoscerlo, calcolando che da lì in poi Jeru avrebbe solamente sfornato cagate su cagate (ad eccezione, forse, del non malvagissimo Divine Design).





Jeru The Damaja - Wrath Of The Math

VIDEO: YA PLAYIN' YASELF

lunedì 21 luglio 2008

VAST AIRE - DUECES WILD (One Records, 2008)

La recensione di questo album è uno dei compiti più misteriosamente ostici che mi siano capitati dacché ho aperto il blog: credo di averla iniziata come minimo due o tre volte, salvo poi rileggere quanto scritto fino a quel momento e cancellare tutto. Non è che ci sia un motivo particolare per questo blocco della mia consueta genialità, se non forse che... a me Vast Aire non è mai piaciuto e, anzi, m'è sempre stato parecchio sul cazzo. Salvo rarissime occasioni, ho sempre trovato che il suo bizzarro stile nello scandire le parole e giocare col loro suono lo rendesse simile più allo scemo del villaggio che ad un emsì -almeno, così lo percepivo io. In più, va detto, il suo esordio solista era ed è ancora semplicemente schifido, e d'altro canto il lavoro svolto con Mighty Mi era da commentare tutt'al più con un "meh". Poi, però, verso la fine dell'anno scorso mi sono imbattuto nella collabo con Karniege, sotto il nome di Mighty Joseph, e non posso nascondere il mio apprezzamento nei confronti di quel disco: un po' ero contento che lui dividesse il tempo al microfono con qualcun altro, ma in particolare erano i beat che me lo rendevano godibilissimo. Abbandonata del tutto la sperimentazione tanto per, la coesione di quel disco me lo faceva apparire come un incrocio ben riuscito tra Blade Runner e Wild Style: nel senso che molte atmosfere erano decisamente futuristiche o "fredde" (passatemi il termine) ma la matrice smaccatamente hip hop era presente in primo piano.
Quando, tramite una bella intervista, scoprì che il deus ex machina di questo effetto sinestesico era tale Melodious Monk (intervista qui), il quale si sarebbe occupato di Deuces Wild assieme a gente come Pete Rock e Oh No, ho deciso di dare una chance al disco decidendo timidamente di scaricarlo. E, signori, ho decisamente fatto la cosa giusta. Da due settimane quest'album è in heavy rotation a casa, nel walkman ed in ufficio, e ad ogni ascolto vedo sempre più rafforzati i lati positivi ed indeboliti quelli negativi. I quali, nella loro presenza, quasi giovano all'ascolto complessivo; nel senso che, eccetto Lunchroom Rap ed i suoi cacofonici synth (una delle produzioni più brutte di Oh No, punto e basta), non esiste un pezzo che faccia davvero gridare vendetta al cielo e così, con quest'alternanza tra ottimo e buono, si va a creare una sorta di curva sinusoidale qualitativa che comporta inevitabilmente una maggiore attenzione dell'ascoltatore.
Dal punto di vista delle produzioni siamo lontani da Look Mom ecc. e ci avviciniamo ovviamente molto più a quanto sentito in Empire State: in pratica si tratta di un ibrido tra boombap nuiorchese, un pizzico di atmosfere à la El-P vecchia maniera, ed una serie di campioni che spaziano dal classico funk ad un repertorio più caduco che pare esser tratto da qualche colonna sonora di Kenji Kawai (quello che ha musicato i due Ghost In The Shell e diverse altre cose di Mamoru Oshii, per intenderci). Questo amalgama di influenze risulta però omogeneo e financo logico, principalmente grazie alla buona struttura data alla tracklist ed ai relativi accostamenti: il passaggio, dunque, dall'iniziale (e comunque valida) sucata all'EL-P di Cold Vein ai suoni funkettoni di Dynamic Duo avviene per piccoli passi, così come il ritorno ad atmosfere più cupe che poi va a sfociare nell'eccezionale terzetto finale. A contribuire al tappeto sonoro è principalmente Melodious Monk -raffigurato peraltro nel lato inferiore del due di picche di copertina- che firma le bellissime Graveyard Shift e Take Two, oltre alle valide The Man Without Fear, TV Land e Back 2 Basics. Non essendo conosciutissimo, vale la pena spendere due parole sul suo stile di produzione: il Nostro suona smaccatamente nuiorchese, con influenze che vanno dagli ultimi Beatminerz (TV Land) ad un Buckwild d'annata (i tamburelli di sottofondo di Graveyard shift), senza scordare naturalmente un tocco di Def Jux quà e là per quanto riguarda la programmazione delle batterie. Tuttavia non pensate a lui come ad una sorta di Frankenstein del campionatore, perchè già alla sua seconda prova dimostra di avere un tocco personale piuttosto riconoscibile -soprattutto per quel che riguarda il conferire una particolare atmosfera ai pezzi- che me lo rende uno dei più interessanti produttori emergenti degli ultimi tempi. Ad affiancarlo, poi, vi sono diversi sconosciuti le cui opere possono andare dall'ottimo (Thanos e la sua Shu) al buono (The Crush, Dynamic Duo, You Know You Like It), ma in generale l'orientamento è simile a quello di Monk e pertanto si fondono egregiamente con quanto proposto da quest'ultimo. Last but not least, le due uniche "superstar", cioè Pete Rock e Oh No, regalano due performance agli antipodi: mentre quest'ultimo crea una schifezza tout court indegna del suo curriculum, Pietrino Roccia dimostra il suo talento adattando il suo consueto stile alle atmosfere sci-fi richieste da Vast: Mecca And The Ox risulta così essere una delle tracce secondo me più rappresentative della sua versatilità e, ad eccezione di un suono cigolante un po' fastidioso che fa capolino quà e là lungo i tre minuti e mezzo che compongono la canzone, risulta essere una delle punte di diamante della sua produzione più recente.
Ma liricamente come siamo messi? Beh, qui il discorso si fa un po' diverso, perchè a me lo stile di Vast continua a non convincere fino in fondo. Ma se questo da un lato è un problema personale, devo comunque riconoscere che perlomeno non esagera coi suoi giochini di voce e che quindi, una volta fatta l'abitudine al suo stile, non sembra nemmeno ritardato. Contenutisticamente devo dire che stargli dietro e seguirlo parola per parola è inutile, e ad eccezione di un paio di tracce (le über-nerdose ma al contempo divertenti TV Land e Dynamic Duo e The Crush) si può al limite intuire di cosa stia parlando. Pure, nella sua astrazione (o semplice sparar cazzate) è innegabile che abbia un certo stile e perciò non si ha l'impressione di ascoltare un coglione fatto e finito (cfr. lil' Wayne) e men che meno uno insipido (vedi alla voce Grand Agent). Gli ospiti, dal canto loro, "funzionano" bene. Contrariamente a molti, ho trovato buona la prestazione di Geechi Suede in Dynamic Duo, così come ben riuscita è l'accoppiata con Copywrite e lo sconosciuto Genesis (uno di cui vorrei sentire più roba, perchè ha una voce potente ed un'egregia tecnica). E se da un lato non stupisce il fatto che la riunione dei Cannibal Ox in mecca And The Ox sia uno dei punti di forza del disco, dall'altro ci si chiede come mai la posse cut di turno non sia venuta bene come quella su Empire State... sarà il beat, saranno gli MC che gli fanno da spalla a non essere niente de che, sarà che Double A.B. pare un Cam'Ron underground: fatto sta che non impressiona come dovrebbe.
Volendo finalmente concludere, mi trovo nelle stesse difficoltà avute per iniziare la recensione. Indubbiamente non si tratta di musica per tutti, nel senso che la particolarità dei suoni e soprattutto le peculiarità proprie dello stile di Vast trascendono il cosiddetto easy listening; qui si parla di musica da walkman, la cui fruizione non si può apprezzare più di tanto se non concentrandosi su di essa. Ma attestato ciò, e verificato che si sia in vena di ascoltare un simile disco, non posso non dirmi entusiasta nonché sorpreso dell'eccellente prova solista di Vast: per quanto mi riguarda, una delle migliori uscite dell'anno in corso.





Vast Aire - Dueces Wild

giovedì 17 luglio 2008

ZION I - TRUE & LIVIN' (Live Up, 2005)

[Disclaimer: Alcune delle recensioni incluse in questo blog sono originariamente state pubblicate sul sito Hotmc.com. La ripubblicazione di questo materiale su Rugged Neva Smoove non è in alcun modo dipendente dalla volontà di Hotmc, che per politica editoriale desidera rimanere estranea alle attività di qualunque audioblog supporti il download illegale. La riproposizione degli articoli si riduce a una scelta personale dell'autore di questo blog, nonché autore delle recensioni, che si assume totalmente la responsabilità delle eventuali conseguenze]

Lo ammetto: negli ultimi anni, la costa pacifica mi sta dando grandi soddisfazioni, ben più di New York. Almeno in termini di underground.
In breve, ho notato che diversi prodotti provenienti da Los Angeles ed Oakland non solo si rifanno all’ottica “da Native Tongues” (il volèmose bene un po’ fricchettone, per intenderci), che, se alternata agli estri da coatti di gente come Grafh, o ai viaggioni di MF Doom, riesce a dare equilibrio all’hip hop contemporaneo nel suo complesso; no, riescono ad essere relativamente sperimentali senza perdersi nelle lande della roba similemo (che tanto piace a chi va in giro con le Birkenstock ed una t-shirt della Abercrombie), che personalmente mi pare tanto autoreferenziale quanto fredda.
Gente come gli Hieroglyphics, i Blackalicious, i Jurassic 5 e, appunto, gli Zion I producono lavori che in sé non costituiscono il classico “giro di boa” stilistico (dopo il quale si sentono autorizzati a far più o meno cagate), ma creano un continuum di costante crescita musicale che pian piano cresce, si evolve e difficilmente annoia.
Giunti al loro terzo album, gli Zion I (duo composto da MC Zion ed il produttore Amp Live) possono dire di aver raggiunto il loro apice in termini di scrittura e produzione musicale, il tutto a conferma del discorso precedentemente affrontato. Infatti, se fino al loro ultimo disco peccavano di una certa incostanza nei suoni e nella continuità del lavoro, True And Livin’ riesce a coniugare questi due fattori con estrema semplicità ed efficacia.
Punto primo: Amp Live riesce ad incrociare più stili di produzione senza perdere il senso di continuità essenziale per album di questo tipo. Ad esempio, se su The Bay fa uso di una semplicissima linea di basso, di hihats e di clap, in Stranger In My Home campiona archi, pianoforte, cimbali ed un bellissimo campione vocale mantenendo lo stesso tipo di atmosfera rilassata e “conscious”. Non tralascio il fatto che per ogni pezzo chiama in aiuto dei musicisti, e spessissimo questo va ad incrementare la qualità del suono, specie per i giri di basso e gli assoli di sax. Pollice su, quindi. Punto secondo: anche Zion è parecchio migliorato: non solo si dimostra più sciolto al microfono (tecnicamente parlando), ma risulta più concreto ed incisivo nell’approciarsi di volta in volta alle più svariate tematiche senza perdersi in viaggioni astrusi come in passato gli era capitato di fare.
Entrando nello specifico, di pezzi validi ce ne sono parecchi. I più incisivi sono certamente Bird’s Eye View (sì, riprende la tematica di Used To Love H.E.R., ciò nondimeno lo fa bene), One Chance e la già citata Stranger In My Home. A queste si aggiungono episodi un po’ meno significativi quali, per dire, Next To U: è una canzone d’amore con un bel pattern di batteria, questo sì, purtroppo la melodia –a metà tra la chillout ed il soft porno- fa un po’ troppo "mi - chiavo - sta - miserabile - zoccoletta - fashion - ascoltando - IbizaChicaCaféLoungeVol.19". Non dico che sia da buttar via, ma con me ha perso molta credibilità. Altre tracce tutto sommato meno incisive sono Doin’ My Thang (che sembra presa dagli archivi dei primi Tribe Called Quest), Temperature (che per una strofa fa tornare Talib Kweli agli antichi splendori), Poems 4 Post Modern Decay (hey, c’è su Aesop Rock, il titolo pretenzioso ed altisonante è d’obbligo!) e What U Hear (con un beat cucito a misura per Del, che graziadiddiosantissimo limita l’uso della sua fastidiosissima cadenza). Gli unici pezzi davvero deludenti sono Amerika (hey, macheccazzo sono quelle chitarre elettriche!?), Soo Tall (credo che Amp volesse dare un suono minimalelectrovintage al tutto. Via, poteva evitare) e Heads Up (tipico pezzo dove non si capisce bene dove gli autori volessero andare a parare).
Insomma, su un totale di 18 tracce, delle quali solo tre sono bruttine, la musica raggiunge dei livelli di qualità che vanno dal medio-alto al sublime. Di sicuro è un album che, pur rientrando appunto nel genere fricchettone, raggruppa in sé diverse sonorità (la “assurda” Oh Lawd Blues ne è l’esempio più lampante, ad ascoltarla pensavo di vedere nel featuring i Bad Seeds) risultando così godibilissimo dalla A alla Z. Maturo nella scrittura e ottimamente costruito musicalmente, True & Livin’ è sicuramente un album da avere e che, assieme a Blazing Arrow (Blackalicious), Power In Numbers (J5) e Layover (Encore), è uno degli episodi più felici delle produzioni fricchettone californiane.

P.S. Il massimo dei voti può sembrare esagerato. Allora chiariamoci: non è Illmatic. Non è The Chronic. Non è tutti quei bei album da cinque microfonini. Altri tempi. Però è un album che trasuda hip hop nella sua forma più genuina senza suonare “forzato” (esempio: i miliardi di throwbacks tipo Little Brother lo sono). Questo dovrebbe bastare. In più, malgrado vi siano dei pezzi discutibili, lo si riesce ad ascoltare dall’inizio alla fine anche più volte di fila. E scusate se è poco. Last but not least, ci aggiungo la mia simpatia personale: è uno di quei album sui quali la gente dorme già adesso, figuriamoci tra due-tre anni.

[Per quanto io sia uno che spesso ha ragione, due anni fa ero decisamente trasportato dall'entusiasmo per dare a questo album il pieno dei voti. Non a caso, già a distanza di un anno, quando HotMC venne riorganizzato, decisi di abbassarlo di mezza tacca; ora, è decisamente giunta l'ora di portarlo a quello che effettivamente merita. Un po' perchè in quanto a longevità non è invecchiato bene ed è raro che lo ascolti al di fuori di particolari situazioni, ma soprattutto perchè molti pezzi si limitano ad essere belli e non bellissimi. Confermo tuttavia in generale i punti di forza di True & Livin', specialmente per quanto riguarda la sempre splendida One Chance e la varietà che si può incontrare nell'ascolto dell'album. Il mio consiglio non può che essere uno, dunque, e cioè di ascoltarlo con estrema attenzione. Di certo è un disco coi controcazzi, tant'è che se penso alle loro successive uscite in odore di hyphy mi vien da piangere]





Zion I - True & Livin'

VIDEO: THE BAY

TANTO PER FARVI SAPERE...

...che aggiornerò il blog stasera. Stamane ero fuso e ho preso il disco sbagliato, senza poi contare che lavorare per questa persona qua, come si può desumere dalla foto, mette un po' d'ansia addosso. Non mancate, comunque: vi stupirò con effetti speciali.

mercoledì 16 luglio 2008

JOELL ORTIZ - THE BRICK: BODEGA CHRONICLES (Koch/Lushlife, 2007)

Dopo una giornata passata a lavorare sul serio (da qui gli scarsi aggiornamenti) ed una serata consistita nel districarsi tra l'itagliese ed i "contesti signorili" degli annunci immobiliari, è del tutto fuori discussione che recensisca qualcosa di curioso come l'ultimo Vast Aire, Edan o Ohmega Watts. Provo la necessità -letteralmente- di spingere qualcosa che sia contemporaneo, fatto bene, tradizionalista e ruvido come piace a me [no homo] ma dotato della cosiddetta "marcia in più". I casi, a questo punto, erano due: o gli UN o Joell Ortiz. Alla fine la scelta è caduta su quest'ultimo, forse perchè mi son guardato la budria e ho trovato preoccupanti somiglianze con l'MC portoricano.
Ovviamente mi mastico i coglioni ogni qualvolta penso alla recensione cancellata sul mio vecchio blog, ma che ci volete fare? In fondo The Brick è interessante quanto basta per scriverne una seconda volta a distanza di poco più di un anno dalla sua uscita. Ed il motivo di tale interesse è uno solo: Joell Ortiz stesso, che non esito a definire uno dei pochissimi che oggigiorno riescono a reincarnare senza troppi fronzoli lo spirito dell'MC puro -non a caso, nel disco gli unici che riescono a mantenere il passo sono Immortal Technique e Big Daddy Kane. Da qualsiasi punto uno lo voglia affrontare, non c'è una smagliatura nella sua tecnica, nelle rime, nel carisma, nell'immaginario e nella scrittura. Tutti questi fattori, già rari da trovare a coppie in una sola persona, sono tutti di proprietà dell'oriundo di Brooklyn, che dal canto suo non fa nulla per celarli lungo le 15 tracce che compongono Bodega Chronicles.
L'esempio migliore di quanto scritto finora lo si trova già nella prima canzone, 125 Grams Pt. 1, dove, oltre a presentarsi in modo esaustivo tramite l'esposizione del suo breve ma impressionante curriculum, prende il bel beat di MoSS -che leggero non è, con quel breve loop di piano che assieme ad un campione vocale va ad appoggiarsi ad un basso ed una batteria parecchio corposi- ed in meno di cinque minuti e mezzo lo massacra rigirandoselo a suo piacimento. Dal flow staccato passa a quello serrato in un nonnulla; dal lasciare "aperta" una rima ne chiude quattro in un'unica barra; oscilla tra l'arroganza più seria ed una punta d'ironia e tutto questo lo fa passando dall'esposizione fattuale di una serie di tappe della sua carriera al braggadocio più estremo. Una traccia straordinaria, insomma, che è senz'altro il miglior biglietto da visita che potesse presentare prima di uscire col disco.
Ma oltre a dare un assaggio della sua personalità nella prima canzone, nelle seguenti riesce ad andare a toccarne i diversi aspetti più in profondità: tra tutte spicca senz'altro Hip Hop, nella quale riesce nella difficile impresa di far suonare fresco un argomento trito e ritrito come l'amore nei confronti della musica. Complice poi forse anche l'azzecatissima intro ("Yo, do me a favor... accidentally step on your white sunglasses... we don't wear those over here, this is hip hop", una dichiarazione che da sola merita un applauso), che mette per benino le carte in tavola, sta di fatto che il Nostro risulta più credibile e sincero di svariati altri colleghi. Quando i fatti parlano più delle parole? Probabile.
Ma oltre a ciò Joell si spinge andando a toccare naturalmente temi quali il malessere del vivere in un ghetto (ma in modi diversi, confrontate i testi di Night In My P's e Modern Day Slavery e sappiatemi dire), il suo orgoglio latino (che riaffiora quà e là un po' ovunque, ma che vede un'esposizione chiara ed univoca in Latino) e, come ogni brooklynite che si rispetti, la venerazione per il quartiere di provenienza: Brooklyn. Persino qua viene però da complimentarsi con Ortiz, perché anziché lanciarsi in un'ode a quanto questo faccia brutto, scagliando minacce a destra e a manca, con Brooklyn Bullshit la prende più alla leggera descrivendo i tipici comportamenti di chi vi proviene e lo fa (mi auguro) estremizzandoli ed infarcendoli di uno humor raro a vedersi in giro (nella precedente recensione avevo trascritto qualcuna delle sue chicche, ma stavolta vi invito ad ascoltarvela o, meglio, a gustarvi il relativo video). Per farla breve, il punto è che pur non spingendosi verso nuovi territori concettuali, ma anzi scegliendo argomenti che sono la pura essenza dell'hip hop fin dalla sua nascita, Joell Ortiz suona incredibilmente fresco e competente e riesce, dunque, a dare a questi una nuova vita.
Ma purtroppo, dove in quanto ad emceeing siamo alla perfezione, sul versante dei beat la situazione s'ingrigisce. Ad esempio, il beat di Alchemist per BQE è quanto di più pigro potesse uscire dal suo campionatore e ci ricorda quanto purtroppo egli sia caduto in basso in termini di qualità; Show non si spreca un granchè per la sua Brooklyn Bullshit (riprende meno bene il campione adoperato da Dr. Dre per Eve Of Destruction); V.I.C., Ax The Bull e EMZ hanno già prodotto cose migliori ed i restanti, dal canto loro, o sono semisconosciuti che si destreggiano con abilità (vedi Hecks e la sua Hip Hop) oppure dimostrano capacità altalenanti che possono andare a concretizzarsi tanto bene (125 Grams Pt.4) quanto male (125 Pt.2) o malissimo (125 Pt.3). Spesso, poi, al di là dell'inventiva vera è propria il problema dei beat è la loro estrema ripetitività, con dei loop da sei secondi che vanno a ripetersi incessantemente fino al completo drenaggio scrotale dell'ascoltatore; e se a questo aggiungiamo poi una pletora di ospiti che francamente poco aggiunge al tutto (si sentiva il bisogno di Maino, Cashmere o Big Noyd?), una serie di riciclaggi "da mixtape" (Keep On Calling con l'odioso Akon, Time Is Money con Styles P) ed infine un assemblaggio un po' schizofrenico dell'insieme, il risultato va a collocarsi ampiamente sotto le dovute aspettative.
Ma malgrado tutti questi difetti, che realmente penalizzano l'ascolto di Bodega Chronicles, non siamo comunque nella disastrosa situazione dei vari AZ o Kool G Rap. Tutto sommato il disco si lascia ascoltare a patto di skippare qualcosina quà e là; certo dà da pensare il fatto che ad esclusione dei pezzi "insalvabili" ve ne siano diversi musicalmente mediocri e che riescono a stare in piedi solamente grazie all'imponente talento di Ortiz. Ora, come avevo previsto un anno fa, dal rapporto con la Aftermath non è nato nulla ed il Nostro è rimasto sospeso in una specie di limbo che lo ha visto poco presente negli ultimi tempi. La mia speranza è che giunti a questo punto non perda tempo con altri mixtape (belli, per carità, ma un album è un'altra cosa) e che vada a dotarsi di un team di produttori che sappia essere al suo livello, non solo come nomi ma anche come sostanza. Nell'attesa che ciò avvenga, sto stretto di manica ed affibbio un tre e mezzo, e che il dio dei rapper panzoni mi perdoni.





Joell Ortiz - The Brick (Bodega Chronicles)

VIDEO: 125 GRAMS PT. 1 (THE BIO)

mercoledì 9 luglio 2008

KAM MOYE [SUPASTITION] - SELF CENTERED EP (Free download, 2008)

Cari miei, oggi non vi passo un cazzo. Sarà stata la stanchezza, sarà stato il fatto che son uscito di fretta dopo una sontuosa cacata casalinga che mi ha impegnato per più di dieci minuti, ma oggi mi son scordato il disco del giorno a casa. Pure, nella mia infinita conoscenza, mi son imbattuto in qualcosa di mediamente interessante: il nuovo di Supastition. Presentato sotto il nome di battesimo Kam Moye, lo si può scaricare aggràti$ dal suo Myspace. Inutile dire che appoggio sempre questo genere di iniziative, specie se fondate su validi argomenti (che potete leggere in quest'intervista a HipHopGame).
Ora, non do un voto al disco perchè per un qualche strano motivo non mi sembra il caso, tuttavia una piccola critica la posso anche buttar giu. Ve ne accorgerete ascoltandolo anche da soli, ma è lampante quanto i beat si rifacciano all'estetica da Justus League (il che vale anche per i suoi precedenti lavori), ed è altrettanto lampante che siano di una noia infinita. Persino paragonandoli a quelli adoperati nel disco del Away Team questi non ne escono a testa alta, principalmente a causa della loro monotonia, della loro genericità e della loro carenza di spessore (persino da parte di M-Phazes, che pure in genere non mi dispiace). Pure, l'esito complessivo del disco è accettabile perchè Supastition è un valido MC, che non solo sa giostrarsela con gli argomenti più leggeri ma, anzi, risulta capace proprio nel sapersi raccontare (termine orrido sul quale vi chiedo di glissare). Egli aveva mostrato questo lato già in precedenza attraverso tracce come Fountain Of Youth, ma in questo EP ha deciso di focalizzarsi unicamente sulla sua visione del mondo, che viene srotolata di fronte ai nostri occhi in maniera stilisticamente impeccabile ma soprattutto interessante e non dedita all'onanismo emo.
Certo, alla luce di questo è davvero un peccato che non abbia optato per basi un po' più spumeggianti, ma non si può certo avere tutto dalla vita. Dategli un ascolto, se volete, e casomai potrete trovare qualcosa di suo un po' più fruibile nel Deadline EP del 2004. Incomprensibile comunque la scelta di mettere una grafica in bassa risoluzione, per giunta priva di retro e di qualsiasi accenno di booklet.

Kam Moye - Self Centered EP

martedì 8 luglio 2008

THE AWAY TEAM - NATIONAL ANTHEM (6 Hole/Hall Of Justus, 2005)

Se un uomo vale quanto la sua parola, allora con me fate un affare. A nemmeno 24 ore dal mio annuncio di cominciare a fare un po' di sano Justus-League-bashing partendo da The Listening, eccomi con tra le mani National Anthem. Sono un ipocrita, è vero, ma cercate di capirmi: Listening è una rottura di palle micidiale, una delle cose più noiose che mi siano capitate tra le mani negli ultimi anni, non potete chiedermi di mantenere la parola quando questo significherebbe sacrificare la mia virilità e dunque un rapporto pluriennale. A settembre dovrei infatti andare a convivere con la mia ragazza, ma ascoltare The Listening per intero potrebbe mettere la parola "fine" al progetto.
Ergo, eccomi a recensire il disco d'esordio del duo composto dallo sconosciuto Sean Boog e dall'ormai seminoto Khrysis, reperito venerdì, come dicevo, per la bellezza di 6,90€. Ora, voi dovete sapere che per una sorta di integrità professionale io tendo a non recensire album a cui ho dato meno di X ascolti in un periodo ragionevolmente lungo (almeno due-tre settimane), specialmente se le mie impressioni sono univoche. Ma in questo caso posso fare un'eccezione perchè benché abbia comprato National Anthem solo cinque giorni fa, in realtà io lo ascolto da sedici anni. Boom-bap-boom-boom-bap. Tutto qui... anzi, no.
Chiariamo subito la prima cosa: Khrysis, che per alcuni passa per un clone di 9th Wonder (osservazione fou, dato che lascerebbe sottintendere che questo sia dotato di una personalità, pura eresia), è mediamente molto più bravo. Ma parecchio. Perchè? Primo, perchè sa come cazzo far suonare i beat pur usando Fruityloops: la cassa fa TAK! anzichè TMP, il rullante TCIAK! e non POC, gli hihats fanno CINGCING invece di KSHLSH. Secondo, perché in genere non fonde le batterie con la linea di basso creando quel fastidiosissimo pastrugno tipico di chi ascolta musica in una macchina a finestrini chiusi. Terzo, perchè sa mantenere distante il campione dal resto e, nuovamente, lo rende sufficentemente chiaro perchè noi lo si possa apprezzare. Quarto, perchè è raro che si lasci andare ad un beat composto per tre misure da un campione vocale tagliato a metà e per l'ultima "lasciato andare". Insomma, non è 9th Wonder, per quanto l'imprinting sia decisamente lo stesso; dicasi solito 4/4 regolare, solito campione soul, soliti bpm che GUAI a toccarli... però cosa vogliamo farci? In genere, nel suo cieco manierismo, è anche piacevole da sentirsi. Per dirne una, The Shining e End Of The Day sono assai piacevoli nella loro rassicurante trivialità; The Blah Blah ricorda positivamente certe cose di Spinna; Let Off A Round suona finalmente un po' hardcore e quasi ti vien da piangere che non ci sia su qualcheduno di competente. Questo non toglie naturalmente che più della metà dei beat non siano altro che la stessa base con minime variazioni inserite nella formula, e che l'insieme disidrati lo scroto assai in fretta (quindici canzoni! Assassini!), ma se uno è in buona...
Nah, il vero problema qui è l'MC. Se mai ho sentito qualcuno di dozzinalmente incapace, questo è Sean Boog: e dico dozzinalmente perchè non è che abbia alcuna peculiarità nel suo sbagliare, semplicemente annoia ed è privo di personalità. Chissà se ciò dipenda da una malriposta presunzione o da vera e propria incapacità; sta di fatto che al di là dell'essere dotato del minimo requisito per avere accesso ad un microfono (sovente riesce a stare a tempo), nulla traspare dalla sua maschera fatta di paragoni scontati, rime banali, tecnica ridotta ai minimi sindacali e voce anonima. Se perlomeno si fosse degnato di aprirsi un po', forse qualcosa di meglio sarebbe saltato fuori. Invece, Boog preferisce marciare su un terreno che apparentemente reputa di conoscere bene (egotrippin', esposizione di "stile", replica a presunti hater -come se ce ne fossero- e blablabla) ma che in realtà percorre con la verve di uno zoppo. Ed infine, ciliegina sulla torta, non pago di annoiare durante le sue strofe da 40 secondi cadauna, Sean affonda il colpo e ci strazia con tutta una serie di ritornelli che oscillano pericolosamente tra l'assenza di sostanza e l'orrore vero e proprio: tra tutti, il peggiore è forse quello di The Blah Blah, talmente asinino che alla fine avrei voluto avere un indirizzo a cui poter reclamare i miei punti di Q.I. persi (non voglio spoilerare, ascoltare per credere). Insomma, un disastro fatto uomo, che viene ulteriormente sottolineato quando ad accompagnarlo ci sono degli ospiti: e occhio perchè non sto parlando di Rakim o Big Daddy Kane, ma di gente come Joe Scudda o Chaundon...
Beh, che dire? Diciamo che 6,90€ 'sto disco li vale anche... peccato che il solo valutare della musica come se fosse prosciutto la dice lunga sul mancato raggiungimento degli obiettivi propri di ogni artista o aspirante tale, cioè di risvegliare emozioni. Qua invece ci ritroviamo in una situazione da filmatino delle vacanze, dove a divertirsi ci sono solo quelli immortalati nell'azione mentre la platea sbadiglia. E diciamo che, lunghezza esorbitante della proiezione a parte, poco importa se un paio di inquadrature mostrano qualche talento da parte del regista: il problema sta alla base, e cioè che stai filmando una partita a tamburello e pretendi che qualcuno possa provare interesse.





The Away Team - National Anthem

VIDEO: THE SHINING

lunedì 7 luglio 2008

REAL LIVE - THE TURNAROUND: A LONG AWAITED DRAMA (Big Beat/Atlantic, 1996)

Vi confesserò che oggi, per coronare la mia scarsa voglia di tornare a Milano e di conseguenza al lavoro, quasi quasi mi sarei messo a recensire quella mezza cagata che è il primo disco degli Away Team -recuperato a 6,90 venerdì. Ma poi ho pensato che il mio Justus-League-bashing dovrebbe cominciare da The Listening anziché da una sua replica di seconda, e quindi, in seguito anche ad alcune promesse fatte qualche tempo fa, eccovi -al posto di una sòla- un signor disco: The Turnaround.
Vittima anch'esso dell'abbondanza delle uscite storiche di metà anni '90, esso vide la luce nel 1996 e da lì poco o nulla si seppe più del duo composto da Larry-O e K-Def; del resto, quest'ultimo aveva purtroppo sofferto fino a quel momento l'ingombrante presenza del suo mentore, Marley Marl, e quindi anche il lavoro svolto in precedenza per i Lords Of The Underground ed i Youngstaz era sempre passato in secondo piano. E quanto a Larry-O, beh, diciamo che non è che sia mai stato uno sulla cresta dell'onda, per cui quando i due si presentarono al pubblico si trovavano nella sgradevole posizione di essere dei mezzi sconosciuti in mezzo ai vari Mobb Deep, Ghostface Killah, Jay-Z eccetera. Fortuna volle che all'epoca un mio amico spendesse varie milionate in dischi, il che permise al sottoscritto di entrare in contatto con il classico gruppo "da tre microfoni e mezzo", una tipologia di artisti che a causa delle mie scarse finanze non potevo permettermi di cagare più di tanto: chapeau a lui, perchè se così non fosse stato ora avrei l'ennesima grave lacuna da riempire con rocamboleschi acquisti di seconda mano via internet anziché, com'è stato, al comodissimo World Of Music del Ku'Damm di Berlino.
Ma palle introduttive a parte, com'è 'sto disco? E' presto detto: per quanto non esplori nuovi territori in quanto a concetti, the Turnaround è una delle esperienze acustiche più gratificanti che si possano trovare sottomano. Che K-Def sia discepolo di Marley Marl lo si nota sia nell'arte di tagliare i campioni che nelle capacità di dare pienezza al basso, ma da qui in poi il suo approccio si distanzia da quello del maestro vergendo maggiormente sul ritaglio di melodie che vanno a collocarsi tra l'hardcore e l'orecchiabile e che spesso vanno ad assumere un tono quasi epico nel loro mettere alla prova i woofer dello stereo. Ad esempio, per quanto Real Live Shit goda di un'atmosfera decisamente più cupa di The Gimmicks, la potenza è pressochè la stessa e lì sta unicamente al gusto dell'ascoltatore scegliere la preferita tra le due. Va comunque sottolineato che tutti i pezzi -fuorchè la mielosa All I Ask Of You- sono pensati per fare da sfondo a storie di ddrogah, sparatorie e quant'altro; ergo, l'allegria non sta di casa, e difatti è facile notare come la preferenza nella scelta dei campioni da parte di K-Def stia nel soul anni '70 e nel jazz/fusion vista l'idoneità dei generi nel fornire passaggi d'archi evocativi (mettete di fianco Real Live Shit, Ain't No Love, Pop The Trunk e Iceberg Slick per rendervene conto da soli). Vorrei poi aggiungere che per quanto diversi campioni inevitabilmente sappiano ormai di già sentito (Love Unlimited, David Axelrod, Bobby Bland), in diversi casi il lavoro di K-Def è tale per il quale il campione non risulta loopato e bòn ma viene tagliato informa tutt'altro che banale -cfr. ad esempio "questa" Ain't No Love con tutte le altre che l'hanno seguita, quella di Jay-Z in primis.
Quanto a Larry-O la materia di discussione va giocoforza restringendosi: il Nostro ricade infatti in tutti i cliché del drug rap così come concepito nel seminale Only Built 4 Cuban Linx, senza però rivitalizzare il filone con la creatività ed il talento di un raekwon. Per cui non si può certo dire che l'ascolto di Turnaround stupisca sotto quest'ottica, ma quantomeno la sua voce è profonda quel che basta per andare ad incastonarsi in maniera pregevole nei beat del socio; e, d'altro canto, al di là di frequenti scivoloni nell'ovvio ("nigga" che rima con "trigger" è stata la svolta di generazioni di MC) Larry è sufficentemente competente per non risultare irritante. Tuttavia, l'unica volta in cui viene accompagnato al microfono da qualcheduno (e CHE qualcheduno: Ghostface, Cappadonna, Killa Sin e Lord Tariq) appare evidente quanto gli siano superiori persino certi colleghi generalmente non considerati dei campioni. Si potrebbe parlare di sindrome da Pete Rock, che raramente ha saputo scegliersi rapper all'altezza delle sue produzioni, però sarebbe eccessivo: qui al limite uno pensa che sarebbe stato meglio che ci fosse qualcun altro al microfono, cosa che nel caso di Pietrino invece spesso si manifesta con un ma perchè c'è questo coglione.
In conclusione, per quanto in rare occasioni il lavoro nel suo complesso sfiori la mediocrità (They Got Me, Day You Die), The Turnaround gode di un sound eccellente che da solo lo rende degno di ripetuti ascolti e -per quanto Larry-O ne abbassi la qualità complessiva- è senz'altro uno degli album più ingiustamente ignorati dell'epoca nonché uno dei preferiti della mia collezione (N.B.: il "misero" quattro ha da considerarsi come una valutazione il più possibile oggettiva, dipendesse da valori affettivi e quant'altro gliene appiopperei almeno un altro mezzo abbondante).





Real Live - The Turnaround: A Long Awaited Drama

VIDEO: REAL LIVE SHIT (RMX)

venerdì 4 luglio 2008

REKS - ALONG CAME THE CHOSEN (Landspeed/Brick, 2001)

Comincio chiedendo venia se oggi non sembrerò brillante come al solito (uhm), ma ieri sera ho fatto bagordi a suon di vino e Braulio e pertanto la mia attenzione è attualmente vacillante. Fatto sta che il caso vuole che anche oggi non riesca ad esimermi dal tornare a parlare del 2001, della Landspeed, di Boston e di uno degli MC che in quel inizio di millennio erse la testa e si fece notare agli aficionados del genere: Reks, all'anagrafe Corey Christie, classe 1977 originario di Lawrence (che sta a Boston come Lodi sta a Milano). I più attenti lo avevano notato in alcune collaborazioni sparse per dischi e singoli di gente come Virtuoso, Skitzofreniks, 7L & Esoteric ma soprattutto Rasco ed il gran bel remix di Gunz Still Hot a cura dei Molemen; oltre a ciò il Nostro s'era anche dato da fare su un paio di singoli pubblicati dalla Raptivism prima, e dalla Brick dopo. Parlo ovviamente di "più attenti" perchè non si può certo dire che questo tipo di carriera abbia qualcosa di sfolgorante o particolarmente degno di nota, perciò Along Came The Chosen sfuggì purtroppo all'attenzione dei più e ad oggi credo che sia impossibile da reperire se non per vie traverse tipo Ughh o Sandbox. Ma ne vale la pena?
Vediamo: cominciando con l'elencare i difetti, in modo tale da toglierci dente e dolore in una botta sola. Il primo fra tutti è la sconsiderata lunghezza del tutto (70 minuti circa e nemmeno mezzo skit), che inevitabilmente porta con sè una ridondanza tematica ed acustica piuttosto pesante. Reks, e con lui mille altri, soffre evidentemente dell'ansia da esordio e ci tiene a ficcare in un CD quante più rime e beat possibili, rinunciando però ad una più che necessaria scrematura ed altrettanto consigliabile sintesi. E, paradossalmente, qualcuno che glielo consigli c'è davvero! Al termine della prima traccia introduttiva, infatti, si sente un tale (immagino uno dei produttori) fargli notare che due intro forse sono troppe; al che lui, però, con piglio sgargiulo gli risponde che sa quel che fa e così -TIÈ- beccàteve 'sta seconda intro! Inutile dire che avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio dell'ignoto saggio e, anzi, addirittura lo avrebbe potuto estendere a What You Need, To Whom It May Concern, Skills 101 o Enemy Killer -nessuna delle quali è particolarmente brutta ma allo stesso modo nemmeno risulta incisiva. Oltre a ciò, se da un lato affidare il 90% dei beat al team dei Soul Searchers comporta una maggiore omogeneità dei suoni e dunque una formazione d'identità, questi appaiono purtroppo scevri della versatilità richiesta per sorreggere un progetto di questa portata: detto in soldoni, spesso si ha l'impressione di ripetitività. Last but not least, pezzi che trascendono l'inutilità sconfinando nel tedio ci sono: Easy, per dirne uno, ha una sorta di mezza atmosfera da club e dei synth cacofonici che ne rendono l'ascolto indigesto; la posse cut Final Four sulla carta pare una ficata (oltre a Reks figurano Esoteric, Shabaam Sahdeeq, J-Live e metà dei Supafriendz e degli Outsidaz) ma a conti fatti si risolve in un'asciugata da cinque minuti a causa del noiosissimo ed insipido beat; e più o meno lo stesso si può dire per Work, la quale oltretutto soffre di liriche fiacche al punto tale che vien da chiederti "ma perchè sto buttando il mio tempo ad ascoltarlo?".
Ma per fortuna, saltando quà e là per le tracce, i motivi cominciano a farsi vivi uno dopo l'altro. Innanzitutto Reks è un buon MC a tutto tondo, che riesce a risultare energetico anche senza sgolarsi al microfono, conservando per di più una dizione cristallina; soprattutto, a fianco delle classiche capacità da MC da battaglia, evidenti nell'impostazione delle rime, il Nostro risulta contenutisticamente più versatile di molti altri suoi colleghi. In una parola: nell'insieme è un intrattenitore di qualità. Ad esempio, riesce a risultare convincente e focalizzato su tracce diversissime tra loro come, per esempio, Skills 201 e Soul Of Black Folk oppure Fearless e Science Of Life II: non una cosa da poco. Va specificato comunque che la sua non è la cosiddetta "righteous ign'ance" à la Tragedy Khadafi, dove per ogni tre terronate mitiche si inserisce una chicca da sapientone (non capitemi male, adoro quello stile); piuttosto, sembra che il Nostro riesca a scindere la sua personalità scegliendo esattamente come presentarsi e, per di più, senza fare la figura dell'ipocrita o dello schizofrenico. Un buon risultato, no?
Senza dubbio, ma questo sarebbe solo parzialmente soddisfacente se non vi fosse un contrappeso musicale ad equilibrare correttamente il tutto, e devo dire che i pur non eccelsi Soul Searchers alle volte riescono ad uscirsene con delle signori produzioni. La commistione di archi e piano di Fearless, per esempio, risulta complessivamente cupa e minacciosa quel tanto che basta a Reks per fare a pezzi la traccia; per converso, la malinconia degli arpeggi e delle viole campionate in Till Death Do Us o del glockenspiel di Science Of Life Pt. II conferisce tutt'altra atmosfera a tracce emotivamente più "sentite" (menzione speciale per la colpevolmente breve ghost track, dove si scomoda financo Chopin); ed anche il classico binomio di soul e funk si fa vivo quà e là con ottimi risultati, vedi ad esempio Beantown To Cali, Skills 201 e My City. Ai Soul Serachers vanno comunque ad affiancarsi un paio di ospiti -Fakts One, Eddie Bones dei Skitzofreniks, Statik Selektah e Ray Fernandez- che comunque rientrano a pieno titolo nelle atmosfere "imposte" dai primi e che, pertanto, nè tolgono nè aggiungono molto.
A conti fatti mi piange il cuore nel vedere come la qualità dei sopracitati pezzi venga annacquata, più che da quei tre pezzi brutti, da troppe ripetizioni musicali e concettuali. Perchè Along Came The Chosen sarebbe davvero un ottimo disco di rap underground, fatto con tutti i crismi e benedetto da un MC più che degno il cui unico serio difetto è la prolissità.





Reks - Along Came The Chosen

VIDEO: FEARLESS

giovedì 3 luglio 2008

SPEZZACOLLO

Reks - Say Goodnight, prodotta da Primo. Figata assoluta, se il resto di Grey Hair sarà anche bello la metà di questa avremo un problema tra le mani. Son tutto esaltato, domani recensisco il suo primo album ché merita.

7L & ESOTERIC - DANGEROUS CONNECTION (Landspeed/Brick, 2002)

Lo ammetto: è mezz'ora che fisso lo schermo senza sapere da dove cominciare la recensione. C'è qualcosa che mi gira per la testa, sì, ma non riesco a strutturare bene il pensiero... ci provo: nella precedente recensione avevo scritto che il 2001 è stato una delle annate più nefaste che la storia del rap ricordi. La lista di cazzatone col fischio e col botto uscite quell'anno non aveva precedenti e d'altro canto anche sul versante dell'undergound poco s'era mosso. Tuttavia, reputo che tutta quell'ondata di bruttura sia stata pivotale per lo sviluppo praticamente in parallelo delle due forme di musica che oggi tutti ben conosciamo; è stata, direi, la goccia che ha fatto traboccare il vaso e che ha spinto da un lato ad un totale livellamento qualitativo-cerebrale di ciò che si passa per radio, e dall'altro ha portato ad una crisi di rigetto da parte degli estimatori i quali, au contraire, si sono vieppiù spinti ad un richiamo alla seconda golden era (cfr. Little Brother) oppure hanno spinto su pedali di graduale innovazione (Stones Throw, Dilla). Discorso a parte meriterebbero fenomeni di forte personalizzazione, come ad esempio El-P e la Def Jux tutta, ma non essendo un musicologo preferisco che sia qualcun altro ad occuparsene.
7L & Esoteric rientrano senza dubbio nella prima categoria da me citata, e cioè quella del richiamo al boombap nuiorchese più classico; album dopo album, singolo dopo singolo i Nostri eroi hanno prodotto materiale per sua natura destinato ai delusi del mainstream e, almeno fino alla svolta da Kool Keith de noantri di New Dope, ogni qualvolta leggevi i loro nomi dietro al titolo di una canzone sapevi cosa aspettarti e casomai t'interessava scoprire come fossero riusciti a riadattare per la millesima volta una formula così chiara ed essenziale. Dangerous Connection, uscito a solo un anno di distanza dal precedente The Soul Purpose, aveva destato in me esattamente questo tipo di aspettativa mista ad un pizzico di terrore che potessero essersi eccessivamente fossilizzati sullo stile "pestone + battlerap".
Il che naturalmente non mi aveva fermato dall'entusiasmarmi di fronte al singolo Watch Me, che riuniva poche note di piano ad un beat piuttosto veloce, mescolandolo poi a tre strofe di un Eso in ottima forma. Ancora oggi reputo questa canzone una delle loro migliori produzioni, per quanto manierista la si possa definire. Pure, non saprei se avrei più apprezzato un intero album di pezzi simili, e fortunatamente non ho avuto problemi nel dover dare una risposta. Difatti, se da un lato 7L ha preso in mano il grosso delle produzioni con -anticipo- ottimi riusltati, dall'altro Esoteric ha proseguito la sua evoluzione contenutistica dando più sfumature a questi tredici pezzi di quanto non fosse lecito aspettarsi. E proprio questo è ciò che rende Dangerous Connection il loro miglior album.
Fermo restando che lo stile è sempre quello (fortemente ispirato a G Rap) ed anche i difetti rimangono tali (la dizione lascia a desiderare), sul piano strettamente comunicativo il menù si è fatto più vario: certamente si trovano i classici pezzi da battaglia -Warning, Speak Now, What I Mean, Watch Me- ma ad essi si aggiungono un paio di tocchi d'inventiva. Ne è esempio Word Association, che, come si può evincere dal titolo, è una serie di botta e risposta fondato sul giochino della libera associazione; più evolute sono poi Stalker (anche qui il titolo è autoesplicativo), Rest In Peace (una sorta di storytelling/critica al mercato discografico narrato dal punto di vista di un rapper morto) oppure l'ormai celebre Terrorist's Cell, che racconta l'11 settembre dalla prospettiva di uno dei terroristi partiti dal Logan alla volta di New York. In seguito la visione politica dell'evento e di ciò che lo seguirà si farà sempre più evidente, ma per ora Eso preferisce limitarsi ad una narrativa asciutta il cui unico difetto è, forse, il piglio eccessivamente distaccato. Per concludere infine la parte relativa all'emceeing, oltre a non aver molto da rimproverare al buon ES, vorrei spendere due parole sui featuring: pochi e concentrati in tre pezzi, il loro apporto non è fondamentale ma nemmeno dispiace. E di fianco a performance nella norma dei rispettivi talenti (nota di colore per l'incipit di Vinnie Paz: "I'm Jesus"... vabbè), chi svetta è senz'altro Apathy e la sua strofa in Speak Now. Per carità, la storiella che racconta puzza così tanto di X-Files che vien voglia di grattarsi scaramanticamente le pelotas per schivare le ondate di sfiga che questa emana, ma in quanto a tecnica e rime è una delle cose più FICHE che abbia sentito negli ultimi anni. In du' parole, suona da dio e sommerge di merda le prestazioni di Eso e Vinnie.
Detto questo resterebbero i beat. Ora, non voglio farla tanto lunga perchè la minestra la si conosce: pestoni ispirati a premier, campioni tagliati eccetera eccetera. Nulla di nuovo sotto al sole. Pure, 7L dimostra un ottimo gusto per ciò che riguarda la scelta dei loop, conferendo così a delle strutture basilari delle melodie sorprendentemente piacevoli da ascoltare. Descriverle singolarmente non avrebbe molto senso, per cui vi invito a provare il tutto in prima persona in modo tale che possiate rendervi conto che malgrado si percorra avanti e indietro sempre lo stesso filone/sottogenere, riesce ad esservi una discreta varietà e, di conseguenza, una relativa longevità.
Di certo Dangerous Connection non sarà l'album che farà cambiare idea a chi il rap lo odia, nè grazie ad esso verranno rovesciati secoli di studio musicalke. ma in fondo credo che l'unico interesse di 7L & Eso fosse quello di creare un disco solido, rivolto agli appassionati e che superasse qualitativamente il loro LP d'esordio. Beh, ci sono riusciti.





7L & Esoteric - Dangerous Connection

martedì 1 luglio 2008

INFAMOUS MOBB - SPECIAL EDITION (Landspeed/IM3, 2002)

Stamane avevo voglia di recensire The Chosen Few della Boot Camp Clik ma, ancora intontito dal sonno, ho clamorosamente sbagliato ad acchiappare CD e così ora mi trovo in mano Special Edition e voglia zero di inventarmi qualcosa di intelligente che lo riguardi. Capita. Fortunatamente, la loro musica non richiede chissà quale grande sforzo interpretativo e d'altro canto i loro testi non finiranno nei libri sotto la voce "dolce stilnovo", per cui posso anche andare col pilota automatico ché tanto 'sto album lo conosco a memoria.
Dicevo: gli Infamous Mobb. Non mi ricordo esattamente quale fu la prima occasione in cui mi capitò di ascoltarli -se su Episodes Of A Hustla, Soul Assassins o Hell On Earth- ma di sicuro era il '96 e all'epoca mi parvero abbastanza inutili. Impressione confermata successivamente tramite la loro apparizione in Murda Muzik, prima, e su Mobb Niggaz Pt.1, poi (che, a dire il vero, era rovinata più da un Prodigy vergognoso che da G.O.D. ed il gustoso beat di Domingo). Pure, quando nel 2002 mi trovai di fronte a questo disco non ne rifiutai l'acquisto -in fondo avevo già toccato il fondo con God's Favorite- e così, vuoi anche svogliatamente, giunto a casa lo inserii nel lettore e pigiai "play" essendomi prima assicurato di aver azzerato le mie aspettative.
Dopo due tracce ero lì a darmi del coglione. Sbattendo la testa contro il muro e scottandomi le palle con un Bic. Cosa non stavo ascoltando... Cercate di capirmi: il 2001 è stato uno degli anni peggiori per il rap, dove la quantità di porcherie sfornate era giunta ad un livello che quasi m'era venuta voglia di chiudere baracca e burattini e mandare a fanculo quei due coacervi di incapacità che erano i Ruff Ryders e la Murda Inc. Poi, vuoi per inerzia o per connessione a Fastweb, ero riuscito a trovare delle valvole di sfogo, ma si trattava pur sempre di roba underground che indubbiamente aveva un valore ma era (ed è tuttora) davvero diversa come impostazione dal classico suono grimey della Grande Mela. E invece, ecco che in maniera del tutto inaspettata mi si presentano questi tre cinghiali ed un Alchemist con due palle quadrate a ridarmi speranza! Chi l'avrebbe mai detto! Essì che i titoli avrebbero dovuto farmi capire: Killa Queens, Mobb Ni**az, Make A Livin' e la canonica We Don't Give A Fuck -tutta roba priva di genio o inventiva ma carica di una grezzaggine intrinseca che nessuno se non dei "genuini" potrebbero mai concepire ed al contempo mostrare le facce in pubblico.
Comunque sia, fatto sta. Dal versante lirico posso liquidare il tutto in meno di 500 battute: G.O.D. è il più bravo dei tre ed unisce un bel tono baritonale ad uno stile pulito ed essenziale; Twin Gambino ha una voce roca oltre ogni ragionevolezza e dice le prime cose che gli passano per la testa ma almeno lo fa con un certo savoir faire; Ty Nitty è una sega a tutti gli effetti ed è lì solo perchè da piccolo Twin gli rubava le stilografiche e se le mangiava e per questo si sente in colpa. Contenutisticamente, tutti e tre fanno all'apparenza bruttissimo, scopano più fiche di noi, sono più ricchi di noi, spacciano più di noi e vengono dallo struggle del Queens mentre noi no. Insomma, loro sono loro e noi no.
Tutto chiaro, mi sembra. E allora cosa li rende particolari? Beh, innanzitutto che sono dei tamarri d'eccellenza che non si sprecano nemmeno un cicinin ad indorare la pillola con chissà che metafore o giochi di parole. Tolto il fatto che si esprimono in rima, i loro testi sono, come dire: essenziali, asciutti. Ovviamente, questa mia argomentazione può essere messa in discussione da chiunque non veda in loro nulla in più rispetto ad altri, ma del resto di gente col salame sugli occhi ce n'è ovunque. Piuttosto, ciò che persino i salamoveggenti più hardcore non possono ignorare sono i beat di Alchemist. Quando il Nostro era ancora decisamente in forma e non s'era spinto troppo in là nell'uso dei synth, i suoi prodotti meno buoni potevano assomigliare a Premier The Name's Bill è da denuncia) mentre quelli migliori avevano un sapore a metà tra il maestro Muggs e la cupezza nuiorchese. Da qui l'abbondare di loop di piano, cori orchestrali, escursioni nel soul ecc., il tutto sapientemente mescolato a beat i cui suoni -specie cassa e rullante- nulla hanno della secchezza caratteristica delle produzioni targate Queensbridge di quel periodo. Difatti, è curioso notare come una Back In The Days ed il suo pitchatissimo campione soul sia stata curata dalla stessa persona stante dietro a, che so, B.I.G. T.W.I.N.S. o IM3, le quali presentano rispettivamente un rozzo (nel senso buono) boombap ed un campione di archi degno di un John Williams (anzi, no, James Horner che è più cafone).
Ora: sarei un cacciaballe di primissima se provassi a raccontarvi che il disco vale a pari merito per beat e testi. Non è così. I primi sono la spina dorsale sulla quale vanno ad incastrarsi i vari elementi aggiuntivi, IM3 in primis. La struttura regge perchè le fondamenta sono solide -contribuiscono inoltre V.I.C., Havoc, Muggs ed un altro paio- e difatti, le volte in cui questa inciampa nelle produzioni "meh" (I Rep, Reality Rap, Make A Livin') le insufficienze dei Nostri si vanno vive in tutta la loro forza. Quantomeno, in questi casi saltano fuori anche i soliti incapaci tipo V-12 o Chinky che, così facendo, fortunatamente evitano di inquinare altre tracce meglio riuscite. Insomma, a parte tre tracce secondo me orride ed altre due meno riuscite, Special Edition è un signor disco dal quale nessun fan di rap può prescindere. Sì, l'inventiva non è di casa... certo, l'emceeing è quello che è... ma, vi garantisco, l'intrattenimento c'è ed è impossibile da non apprezzare.





Infamous Mobb - Special Edition
Bonus: Mobb Niggaz Pt. 1 (da Game Over II -Jcor, 2001)

VIDEO: MOBB NIGGAZ PT.II (THE SEQUEL)