I Roots sono un gruppo/collettivo che nel corso degli anni si è dimostrato innovatore sotto diversi aspetti, primo fra tutti quello di usare regolarmente strumentazione live per la prima volta dopo anni di ricorso a campionatori, drum machine e quant'altro; poi, non si può certamente scordare l'utilizzo di internet a mo' di comunità/punto di contatto (funzionante) tra fan ed artisti così fortemente promosso dal batterista ?uestlove mediante il suo okayplayer.com; o ancora, e poi la smetto, il loro incrociare i diversi percorsi artistici di gente diversa come Beanie Siegel, Mad Skillz, Common e Jay Dee mantenendo inalterata la formule che li ha resi artisti di successo fin dal secondo album: la libertà d'espressione artistica.
Da queste righe qualcuno potrebbe presumere che io sia un fan accanito del gruppo di Philadelphia, pronto a venerare qualsiasi cosa da loro promossa così come prono a disperarsi se ?uestlove esprime opinioni non in linea con la mia (cfr. la sua geremiade simil-antirazzista che un par d'anni fa comportò tanti spargimenti di lacrime tra i fan italiani). In realtà non è così; negli anni ho seguito i Roots con un certo interesse, riconoscendo loro tutti i meriti di cui al primo paragrafo e valutandoli oggettivamente artisti con le palle, salvo però giungere alla conclusione che il loro unico album che davvero mi piace dall'inizio alla fine è Illadelphalflife. Proprio per questo non avrei alcun alcun problema a dire che Rising Down è un'opera relativamente mediocre e non troppo dissimile negli esiti da Tipping Point, e dal versante opposto non potrei e non posso astenermi dal dire che questo Game Theory è un disco eccezionale in sè e per sè oltreché la loro opera migliore dal 1996 ad oggi.
Non fatevi spaventare dalla brevità del lavoro (47 minuti scarsi), vi posso garantire che quà dentro c'è più materiale a cui ispirarsi che nell'intera discografia di Common Sense, a partire da un Black Thought rinvigorito nella forma e nei contenuti per passare alla resurrezione di Malik B (che credo avesse passato qualche tempo in galera, ma non vorrei sbagliare), giungendo infine ad una varietà musicale ed atmosferica encomiabile persino se valutata secondo i canoni rootsiani. In quest'ordine, la prima cosa da approfondire è il frontman e la sua evoluzione: tecnicamente è da sempre un mostro di bravura, ma per questo album pare avere lasciato libere le briglia della sua aggressività riproducendo così la stessa differenza che poteva passare tra il Big Daddy Kane di Ain't No Half-Steppin' e quello di Raw: sempre valido, per carità, ma il secondo lascia(va) a bocca aperta. In più, per l'occasione egli ha finalmente fornito del materiale per il quale il comun sentire che lo ha immotivatamente distinto negli anni come uno "conscious" riesce a trovare conferma nei fatti; certamente il Nostro ci ricorda sporadicamente quanto sia bravo, ma per il resto la sua vena di critica sociale è allo zenith assoluto, dedicando all'argomento un'intera canzone (Don't Feel Right) ma soprattutto riempiendo le altre canzoni di piccole osservazioni che lasciano intuire una visione complessiva piuttosto ben definita e coerente. Ora, con questo non voglio dire che questo sia un disco pieno di perle da cogliere come fossero pomi di saggezza, però rispetto al passato (in particolar modo rispetto a Tipping Point e Phrenology) i suoi pensieri sono più focalizzati e meno frammentati.
Ma va da sè che senza un adeguato contraltare musicale persino le migliori elucubrazioni messe in rime non andrebbero da nessuna parte, e qui entra in gioco l'eccellente produzione di Game Theory, curata interamente dagli stessi Roots ad eccezione dell'ottima Can't Stop This di J Dilla. Innanzitutto va lodata la postproduzione che, come ad ogni disco dei Roots, è a livelli eccelsi e ci si può solo immaginare il tempo dedicato da ?uestlove & soci a ripulire, filtrare ed equalizzare ogni singola cassa, voce o nota di pianoforte: uno sforzo che non va sottovalutato e che effettivamente, di fronte a beat così belli, amplifica l'esito positivo del tutto e mostra ancora una volta la professionalità del gruppo. Detto questo, però, ad affascinare possono essere sia l'imponente rullante di In The Music ed il minaccioso crecendo melodico che l'accompagna (pezzo migliore dell'album?) che la bella commistione di piano, lamenti soul e bella batteria di Don't Feel Right; oppure, ancora, le atmosfere eteree di Clock With No Hands e Take It There... qualsiasi cosa, insomma. Chiedete e vi sarà dato, diceva quello. E ciò che apprezzo particolarmente è che in Game Theory i Nostri non se la giocano con l'ambiguità della sperimentazione, fatta per dimostrare quanto essi siano eclettici e quindi per attirare a sè i gonzi in ricerca di uno status di figaccioneria musicale; no, i Roots variano il loro repertorio pur rimanendo ancorati alle radici dell'hip hop e quindi lasciandosi contagiare dai suoni che l'hanno preceduto senza snaturarli ma semplicemente plasmandoli di traccia in traccia.
Che posso dire d'altro? Il passaggio da Geffen a Def Jam ha segnato per i Roots un periodo forse non molto fortunato in quanto a vendite e promozione, però li ha senz'altro invigoriti nel suono e ciò ha portato, in ultima analisi, ad un disco eccellente che dovrebbe stare nella collezione di chiunque segua la musica in generale. Peccato solo che Rising Down non sia all'altezza del predecessore, ma questa è un'altra storia...
The Roots - The Game Theory
VIDEO: IN THE MUSIC b/w HERE I COME & DON'T FEEL RIGHT
Da queste righe qualcuno potrebbe presumere che io sia un fan accanito del gruppo di Philadelphia, pronto a venerare qualsiasi cosa da loro promossa così come prono a disperarsi se ?uestlove esprime opinioni non in linea con la mia (cfr. la sua geremiade simil-antirazzista che un par d'anni fa comportò tanti spargimenti di lacrime tra i fan italiani). In realtà non è così; negli anni ho seguito i Roots con un certo interesse, riconoscendo loro tutti i meriti di cui al primo paragrafo e valutandoli oggettivamente artisti con le palle, salvo però giungere alla conclusione che il loro unico album che davvero mi piace dall'inizio alla fine è Illadelphalflife. Proprio per questo non avrei alcun alcun problema a dire che Rising Down è un'opera relativamente mediocre e non troppo dissimile negli esiti da Tipping Point, e dal versante opposto non potrei e non posso astenermi dal dire che questo Game Theory è un disco eccezionale in sè e per sè oltreché la loro opera migliore dal 1996 ad oggi.
Non fatevi spaventare dalla brevità del lavoro (47 minuti scarsi), vi posso garantire che quà dentro c'è più materiale a cui ispirarsi che nell'intera discografia di Common Sense, a partire da un Black Thought rinvigorito nella forma e nei contenuti per passare alla resurrezione di Malik B (che credo avesse passato qualche tempo in galera, ma non vorrei sbagliare), giungendo infine ad una varietà musicale ed atmosferica encomiabile persino se valutata secondo i canoni rootsiani. In quest'ordine, la prima cosa da approfondire è il frontman e la sua evoluzione: tecnicamente è da sempre un mostro di bravura, ma per questo album pare avere lasciato libere le briglia della sua aggressività riproducendo così la stessa differenza che poteva passare tra il Big Daddy Kane di Ain't No Half-Steppin' e quello di Raw: sempre valido, per carità, ma il secondo lascia(va) a bocca aperta. In più, per l'occasione egli ha finalmente fornito del materiale per il quale il comun sentire che lo ha immotivatamente distinto negli anni come uno "conscious" riesce a trovare conferma nei fatti; certamente il Nostro ci ricorda sporadicamente quanto sia bravo, ma per il resto la sua vena di critica sociale è allo zenith assoluto, dedicando all'argomento un'intera canzone (Don't Feel Right) ma soprattutto riempiendo le altre canzoni di piccole osservazioni che lasciano intuire una visione complessiva piuttosto ben definita e coerente. Ora, con questo non voglio dire che questo sia un disco pieno di perle da cogliere come fossero pomi di saggezza, però rispetto al passato (in particolar modo rispetto a Tipping Point e Phrenology) i suoi pensieri sono più focalizzati e meno frammentati.
Ma va da sè che senza un adeguato contraltare musicale persino le migliori elucubrazioni messe in rime non andrebbero da nessuna parte, e qui entra in gioco l'eccellente produzione di Game Theory, curata interamente dagli stessi Roots ad eccezione dell'ottima Can't Stop This di J Dilla. Innanzitutto va lodata la postproduzione che, come ad ogni disco dei Roots, è a livelli eccelsi e ci si può solo immaginare il tempo dedicato da ?uestlove & soci a ripulire, filtrare ed equalizzare ogni singola cassa, voce o nota di pianoforte: uno sforzo che non va sottovalutato e che effettivamente, di fronte a beat così belli, amplifica l'esito positivo del tutto e mostra ancora una volta la professionalità del gruppo. Detto questo, però, ad affascinare possono essere sia l'imponente rullante di In The Music ed il minaccioso crecendo melodico che l'accompagna (pezzo migliore dell'album?) che la bella commistione di piano, lamenti soul e bella batteria di Don't Feel Right; oppure, ancora, le atmosfere eteree di Clock With No Hands e Take It There... qualsiasi cosa, insomma. Chiedete e vi sarà dato, diceva quello. E ciò che apprezzo particolarmente è che in Game Theory i Nostri non se la giocano con l'ambiguità della sperimentazione, fatta per dimostrare quanto essi siano eclettici e quindi per attirare a sè i gonzi in ricerca di uno status di figaccioneria musicale; no, i Roots variano il loro repertorio pur rimanendo ancorati alle radici dell'hip hop e quindi lasciandosi contagiare dai suoni che l'hanno preceduto senza snaturarli ma semplicemente plasmandoli di traccia in traccia.
Che posso dire d'altro? Il passaggio da Geffen a Def Jam ha segnato per i Roots un periodo forse non molto fortunato in quanto a vendite e promozione, però li ha senz'altro invigoriti nel suono e ciò ha portato, in ultima analisi, ad un disco eccellente che dovrebbe stare nella collezione di chiunque segua la musica in generale. Peccato solo che Rising Down non sia all'altezza del predecessore, ma questa è un'altra storia...
The Roots - The Game Theory
VIDEO: IN THE MUSIC b/w HERE I COME & DON'T FEEL RIGHT
16 commenti:
Mo' non mi rompete però il cazzo per il 4 e 1/2 ai Roots, ché ho da lavorare e non posso pimpslappare i dissidenti
sul disco dei roots ti avrei accettato l'uso di "dicotomia", che non lo scrivi da un po'
Ero tentato di scrivere qualcosa come "l'esegesi dell'attuale situazione sociopolitica degli afroamericani" ma poi mi sono schiaffeggiato da solo
common proprio lo detesti eh?! non è la prima recensione in cui leggo tuoi commenti taglienti...
riccardo
Mah in realtà no, anzi, molti suoi dischi mi piacciono... solo che è troppo menoso.
E ha pubblicato Electric Circus senza mai chiedere scusa.
Per me "Electric Circus" è una perla.
Comunque, "The Game Theory" inizialmente mi prendeva benissimo, poi improvvisamente ho smesso di ascoltarlo e ora quando lo metto non riesco proprio a digerirlo per intero.
BRA
www.rapmaniacz.com
1.«Per me "Electric Circus" è una perla.»
2.«ora quando lo metto non riesco proprio a digerirlo per intero»
Ipotizzo un collegamento tra le due cose
"electic circus e' una cagata pazzesca"
Ah sì,cosa aveva detto quando era venuto in italia? Tsè... da noi hanno solo da imparare
Mi riguardo il video di You Got Me
myzzle
Perfettamente d'accordo.
Illadelph Halfilfe è anche il mio preferito.
Rising Down è veramente mediocre
E' una delle poche uscite Def Jam che sono riuscito ad apprezzare per intero negli ultimi anni. Il 4 e 1/2 ci stà tutto.
va riconosciuto comunque che il pezzo con Mos Def e Styles P manda accasa
"Ipotizzo un collegamento tra le due cose"
Può darsi di sì. Un po' come quando scrivi "Game Theory è un disco eccezionale in sè e per sè oltreché la loro opera migliore dal 1996 ad oggi" ed il fatto che nel '99 è uscito "Things Fall Apart". ;-)
BRA
www.rapmaniacz.com
Aho' chettedevo di', a me Things Fall Apart è piaciuto abbastanza ma non sono d'accordo nel dire che sia un semiclassico come Illadelph...
Come tirano i Roots, eh? mandate il link a ?uestlove che si masturba...
(oddio che brutta immagine)
hahah
"rising Down" ha un trittico di pezzi iniziali che picchiano.. poi dopo i primi 3 inizia un pò a scendere .. "Game Theory" invece mantiene un tiro uniforme un pò per tutto l'album.
"Illadelph Halflife".. beh, a quello ci siamo proprio legati a livello sentimentale.. "clones" è un pezzo tanto semplice quanto potente
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